
Colloquio con Jorge Lozano [1] pubblicato su questo blog il 22.3.2021, giorno della notizia della scomparsa a Madrid dell’intellettuale spagnolo, semiologo, in stretti rapporti culturali con Umberto Eco, Paolo Fabbri, Alberto Abruzzese, già direttore dell’Accademia culturale Spagnola a Roma, professore di Teoria dell’Informazione all’Università Computense di Madrid, amico di chi qui scrive.
Nato a La Palma nel 1951 ha perso la vita a causa del contagio Covid.19. Alberto Abruzzese ha così dato la notizia in Italia: “Jorge Lozano nostro grande e carissimo amico ci ha lasciato: non riusciamo a convincerci che abbia dovuto abbandonare i suoi figli e la comunità di studi alla quale ha generosamente prestato la sua opera e intelligenza. Lo ricorderemo sempre con il suo sorriso sornione e lo sguardo indagatore del cercatore di “segni“.
Nel 2004 – in un continuato rapporto culturale, scientifico e civile nato negli anni ’90 – Jorge Lozano mi ha invitato a tenere una relazione sul rapporto storico tra Milano e l’acqua in vista dellì’esposizione di Saragoza dedicata al tema dell’acqua. Nell’ambito dell’evento fu realizzato questo colloquio pubblicato, come citato in nota, nello stesso anno e poi nel 2008. Qui riproposto per ricordare con dolore e amicizia la sua figura.
Stefano Rolando
L’attentato terroristico dell’11 marzo 2004 a Madrid ha fatto verificare in pochi giorni tre conseguenze di enorme incidenza: ha lasciato sul terreno uno dei bilanci più ingenti per numero di vittime (200 morti, 1500 feriti) di un atto di “guerra” in Europa dalla fine della guerra[2]; ha modificato l’esito delle elezioni politiche spagnole perché un terzo dell’elettorato ha dichiarato di avere modificato l’attitudine di voto a causa della manipolazione informativa effettuata dal governo sulle cause dell’attentato [3]; è diventato naturalmente un evento simbolico (con evidenti simmetrie rispetto all’attentato di New York dell’11 settembre 2001, assumendo addirittura un logo di sintetica evocazione “11-M”) che ha collocato le problematiche comunicative – in particolare quelle legate alla relazione tra istituzioni, media e opinione pubblica – al centro di analisi e dibattiti.
La connessione di questi fenomeni è il contenuto del colloquio-intervista con il professor Jorge Lozano, ordinario di Teoria dell’Informazione e capo del Dipartimento di giornalismo all’Università Computense di Madrid. Dal 1990 al 1996 ha diretto l’Accademia di Spagna a Roma ed è autore di testi e scritti in particolare in campo semiologico, tra cui in Italia è noto Il discorso storico, pubblicato da Sellerio nel 1992 con la prefazione di Umberto Eco[4].
Questa conversazione – a margine di un seminario universitario a Madrid su questi temi nel 2004 – avviene il giorno dopo un secondo fallito attentato terroristico sulla linea ferroviaria di alta velocità tra Madrid e Siviglia e il giorno stesso dell’intervento di Colin Powell alle Nazioni Unite a New York – con la disciplinata ma non facile presenza alle spalle del Segretario di Stato, del direttore della CIA George Tenet – circa “la difettosa informazione” presentata dal governo americano per giustificare la guerra in Iraq [5].
Si è detto e si è scritto che l’inaspettata svolta elettorale spagnola sia stata determinata da una crisi di fiducia dell’elettorato (e, nel caso, di quale parte dell’elettorato?) nei confronti della gestione comunicativa assunta dal governo per l’attentato terroristico dell’11 marzo? Integralmente d’accordo?
Sono d’accordo, con alcune precisazioni. Si è giocata una partita di fiducia e di credibilità con una linea adottata del governo è parsa priva di lucidità. Il Partito Popolare aveva i suoi voti, prima e dopo l’Iraq. Alle municipali il governo non ha avuto problemi. Ma questa volta votavano due milioni di giovani in più. Questo segmento è stato decisivo, sommato a quella parte di voto incerto tra la Sinistra Unita e i Socialisti che ha preferito alla fine fare una scelta per un “voto utile” e sommato anche ad una quota degli eterni indecisi rimasti colpiti dalla crisi appunto di fiducia e credibilità che il governo ha visto crescere nel giro di poche ore tra l’attentato terroristico e le elezioni.
Quali sono state precisamente le scelte di comunicazione fatte al riguardo dal governo di Aznar e da che cosa sono state motivate?
Sulle prime il pensiero di tutti correva verso l’Eta. Lo ha dichiarato lo stesso presidente della Regione Basca, lo ha scritto El Pais, che certo non è un giornale filogovernativo. Ma su questa linea il governo ha tenuto una posizione troppo insistente e determinata, chiamando gli ambasciatori per tenere una linea coerente ed esplicita, chiamando i corrispondenti esteri per sostenere questa imputazione, chiamando – lo ha fatto di persona il presidente Aznar – i direttori dei grandi giornali assicurandoli della interpretazione[6]. Sul “giuro che è stata l’Eta” il direttore del Pais – attribuendo al Capo del Governo il carattere dell’istituzione necessariamente bene informata – ha rifatto la prima pagina. Perché questa scelta? Perché Aznar ha impostato una linea dura e senza cedimenti alla lotta al terrorismo, in Spagna principalmente interpretato dall’Eta. L’occasione dell’11 marzo è stata colta come un’opportunità di giocare sulla paura collettiva e consolidare la fiducia nei confronti di chi – oltre a subire personalmente un attentato Eta che lo ha molto segnato – quel nemico lo aveva da tempo indicato come il male peggiore da combattere.
Le procedure organizzative della comunicazione istituzionale (per esempio le direttive alle prefetture e alle ambasciate e, come si è detto, il pressing sulla stampa) sono figlie ancora delle procedure franchiste oppure su questo terreno si sono fatti cambiamenti rilevanti? In ogni caso proprio questo è stato considerato dai commentatori il punto più critico della vicenda. D’accordo?
Sì, ma bisogna ricordare che questo pressing, questa propaganda, erano stati fenomeni archiviati dalla Spagna postfranchista. E resuscitati da Aznar in una forma che gli spagnoli non avevano conosciuto di recente.
Il presidente Aznar ha rifiutato le accuse di menzogna e depistaggio, sostenendo – anche sulla stampa internazionale – che gli 800 omicidi compiuti dall’Eta in Spagna negli ultimi trenta anni giustificavano questa prima pista logica. Che ruolo hanno avuto i media – e quali media – nel rapporto tra verità e manipolazione della vicenda?
Mi rendo conto che un uomo di governo accusato respinga le critiche, ma l’organizzazione a tutto campo della forzatura interpretativa è stata rilevata da tutti. I documenti ufficiali stessi dell’intelligence militare spagnola pubblicati il 19 marzo erano chiarissimi. Le reti televisive pubbliche hanno subito immediatamente la pressione. È stata platealmente modificata la programmazione della rete 1 il giorno precedente le elezioni. C’era in programma un film qualsiasi, è stato tolto e rimpiazzato con un film contro l’Eta. È l’attuazione di una teoria della comunicazione che immagina il destinatario come un vero cretino. La reazione del pubblico è stata di “guerriglia semiologica”, avrebbero detto un po’ di anni fa i miei amici Umberto Eco e Paolo Fabbri. L’uso dei cellulari, proprio di quei giovani al primo voto, è stato immediato e reattivo. Producendo contatti, proteste, manifestazioni. Una parte della stampa – tra cui El Pais – ha cominciato a dare voci alla crisi di credibilità del governo. Ma il grosso della stampa moderata – a cominciare da Abc – ha accettato la linea governativa che accusava gli avversari di sobillare la gente per ragioni elettorali.
“Queremos saber”: lo striscione in piazza a Madrid è andato sulle prime pagine di tutto il mondo.
La domanda è semplice e banale. Ma come la legge il semiologo?
Ero a quella dimostrazione. Pioveva in modo violento. Gli ombrelli modificavano la percezione del numero dei presenti. Abbiamo saputo poi che c’erano in piazza due milioni di persone. Una semiosi illimitata. Il dubbio ha aggregato e prodotto effetti devastanti per la posizione a testa bassa del governo. A poco a poco emergevano leciti dubbi. Come può l’Eta – che è un’organizzazione terrorista, ma ha un’origine di sinistra – collocare l’epicentro dell’attentato in un luogo simbolico della formazione delle Comisiones Obreras, luogo che si chiama Il pozzo dello zio Raimondo, un quartiere in cui il confessore di Franco ha rotto con il franchismo passando all’opposizione?
C’è un nesso – sul tema verità e manipolazione – che lega la vicenda spagnola alla intera trama internazionale riguardante l’Iraq (l’indagine ONU sulle armi di distruzione, il posizionamento degli americani e degli inglesi eccetera)?
Sulla vicenda spagnola bisogna prima di tutto ricordare il ruolo che in questo paese hanno avuto i gesuiti. Che hanno predicato che non si può mentire perché si fa peccato controDio anche se ciò non vuol dire che dobbiamo sempre dire la verità. Da qui la cultura del segreto,del silenzio, del sigillo. Credo che la gente possa accettare il segreto, ma non l’evidenzadella menzogna. E ad un cero punto il capo del governo è stato dipinto come Pinocchio.
Pinocchio è popolare in Spagna? Vi è una lettura metaforica spagnola del burattino collodiano?
Sì, la battuta per chi mente è “Pinocio”. Il naso di Pinocchio è apparso presto su alcuni giornali, come simbolo comunicativo della presa in giro.
Perché il governo spagnolo ha agito con nettezza e determinazione in Iraq contro l’opinione sondata di circa l’80% degli spagnoli contrari all’intervento?
In Università abbiamo analizzato attentamente le posizioni del presidente Aznar pubblicate da Le Monde in quella occasione[7]. La tesi era: io ho le mie convinzioni, non debbo correre dietro a quelle degli altri. È una posizione di scommessa, in qualche modo anche sulla ribaltabilità di una così forte tendenza dell’opinione pubblica. E comunque di determinazione a seguire solo il proprio convincimento, non ad adattarsi ai principi del marketing politico. L’algoritmo di Aznar è molto semplice: contro il terrorismo, qualunque terrorismo.
Gli Stati Uniti hanno questa stessa posizione e non la vecchia Europa che su questa linea si comporta da dilettante. Sono scommesse che alla prova dei fatti debbono reggere. Altrimenti arriva il conto e te ne devi andare.
L’11 marzo spagnolo – divenuto ormai il logo “11-M” – ha avuto un vissuto interno come l’11 settembre americano? È un fatto gravissimo; oppure segnala una “svolta” identitaria?
Interessante la distinzione. Penso che sia entrambe le cose. Gravissimo, l’evento lo sicapisce da sé. Ma il rapporto tra dinamiche partecipative e formazione di comportamenti econvincimenti ci dice anche che la vicenda ha inciso sul profilo identitario del paese. È unfatto identitario la dimostrazione di un popolo di non essere facilmente ingannabile. È unfatto identitario – anche nelle relazioni personali – dire “basta”. È un fatto identitario avvertirein modo così plateale la rottura di un equilibrio fiduciario.
L’11 marzo – di firma terrorista islamica – modifica l’orientamento degli spagnoli rispetto all’Iraq (per orgoglio, per rifiuto di intimidazione, per stare in “prima linea” eccetera).
Gli spagnoli pensano tendenzialmente che una guerra abbia certe caratteristiche. E non riscontrano queste caratteristiche in vicende come quella dell’Iraq. In più non accettano l’identificazione della guerra alla lotta al terrorismo, così come non accettano che i terroristi siano “in guerra” contro la Spagna. Così le posizioni erano e restano chiare: contro il regime di Saddam Hussein, non favorevoli ad un’invasione del paese. In più agli spagnoli pesa l’alleanza di Aznar con gli Stati Uniti in qualche modo contro la vecchia Europa. Perché la Spagna è dalla parte della vecchia Europa e non si riconosce nello slogan franchista “Spain is different”. Nessuno spagnolo “ragionevole” al tempo del regime voleva davvero essere differente. Voleva essere un po’ genovese, un po’ parigino, un po’ amburghese, un po’ londinese. Trovarsi contro la Francia e la Germania ha determinato grande disagio. Per non pensare al Marocco e alla linea di “secular amistad con los pueblos arabes”.
Qual è, nell’opinione di un intellettuale spagnolo, lo spazio di libertà (dialettica tra manipolazioni e smascheramenti) di cui gode l’Europa comunitaria nella percezione della comunicazione politico-istituzionale sui fatti di maggiore incidenza per l’opinione pubblica? José Vidal-Beneito scrive questa mattina su El Pais: “La comunicazione si è convertita in pubblicità e la comunicazione politica in propaganda” [8].
Vidal-Beneito riflette la posizione culturale della redazione di Le Monde diplomatique. Non voglio dire che non sono d’accordo. Ma voglio chiarire qualche caratteristica del fenomeno. Le elezioni hanno determinato – nel quadro che abbiamo descritto – una sorta di sollievo. Quasi una risposta somatica. Avere percepito che le cose non erano come il governo le voleva imporre, nella interpretazione degli eventi, è stato anche poter battere sul terreno democratico l’assioma di Aznar “se non sei con me, sei contro di me”. Questa – forse più che la propaganda – è stata soprattutto la linea di comunicazione del governo. Alzare un dito e fare una domanda voleva dire essere schierato tra gli amici di Saddam Hussein. Insomma in queste condizioni lo spazio del dialogo si riduce quasi a zero. E soprattutto mette in condizioni di precarietà un sistema mediatico che, in parte, si è conformato al clima imposto. Ecco perché c’è sollievo. Perché consente il recupero di uno spazio di dialogo e di dibattito che era diventato marginale.
Qual è il rapporto tra Europa e resto del mondo in ordine al tema della libertà di informazione e al diritto all’informazione?
La Spagna aveva raggiunto un altissimo livello di libertà di informazione. Gli ultimi tempi hanno, come ho detto, schiacciato questo spazio. Ma le condizioni già raggiunte sono a mio avviso recuperabili. E in generale penso che l’Europa abbia culturalmente le caratteristiche di poter sempre recuperare su questo terreno, partendo da una capacità reattiva che ogni paese europeo, nella sua storia, fa emergere in certe circostanze. Scommettere sull’ignoranza e sull’indifferenza della gente in Europa non assicura un gran che.
Si può governare senza menzogna?
Nel dizionario la definizione di menzogna e di ironia coincidono: “il contrario di quel che si pensa”. Alla lunga come si governa su una linea che rappresenta il contrario di quel che la gente pensa?
Si può fare un’opposizione visibile senza menzogna?
Ma, anche qui, dipende dalla intensità, dall’immensità, dalla gravità della menzogna. La risposta – sul terreno politico – vale per tutti, chi governa e chi controlla.
Qual è la parola dialettica rispetto a “menzogna” essendo la “verità” (il pensiero va al Don Chisciotte di Cervantes) una fonte inesauribile di soggettività?
Anche la parola verità ha bisogno di altre parole per stare in piedi: autenticità, credibilità, legittimità. C’è una circolarità di concetti che aiuta a tenere in piedi un sistema che non si voglia affidare alla menzogna. Vero è che le circostanze stressate della storia possono – in certe fasi – condizionare il clima. Per cui si dice che abitualmente la prima vittima di una guerra sia la verità.
Perché – ad avviso di un laico – Gesù Cristo nel Vangelo non risponde a Pilato che gli chiede “cos’è la verità”?
Cristo tace perché ha letto Sant’Agostino. Dire la verità – che resta un peccato contro Dio (ovvero contro lui stesso) – non si può, ma si può esercitare il silenzio, assumere il segreto. E così nella vita possiamo ritenere diffusa la posizione di chi dice: tu non mi dici la verità, perché hai le tue ragioni per non farlo, ma di te mi fido. Oppure: non è necessario che tu dica la verità, basta che tu agisca come devi, in coerenza con la mia fiducia. Le relazioni tra medico e paziente sono spesso attraversate da questo sentimento. Che ne so circa l’equazione della relatività? Ci credo, perché mi fido. Ricordo l’esperienza della “confessione” nelle mie scuole primarie. Il confessore voleva che io riferissi solo a proposito del sesto comandamento. E per compiacerlo io confessavo anche cose non vere. La menzogna, come la vita, è più un problema di enunciazione che di enunciato.
Ha senso la parola “verità” in politica? La filosofia della ragione – prima e dopo Kant – lo ha sostenuto. Ma la politologia contemporanea al massimo concede la “convenienza” di utilizzare la verità, non l’imperativo morale.
Penso che non si possa più al giorno d’oggi mentire considerando la gente stupida. In questi casi prima o poi il “contratto” si rompe.
La Spagna – insieme alla Polonia – ha dato l’opportunità ad un equilibrio forse ancora immaturo di dimostrarsi tale e, quindi, di rinviare gli accordi sulla “costituzione europea”. L’opinione pubblica spagnola ha per lo più apprezzato o per lo più sofferto questa decisione?
Quello che credo ponga un problema alla cultura moderna degli spagnoli è di essere coerenti con la propria costituzione laica. Aznar ha avuto discussioni con lo spirito della nostra costituzione. E il “preambolo cristiano” da lui sostenuto per la costituzione europea non credo sia posizione maggioritaria nel paese. Ma ricordo che Aznar ha fatto sposare sua figlia all’Escorial, officiante il massimo esponente della Chiesa spagnola, in un contesto e in una cerimonia che avevano un’immagine sostituiva della monarchia. La maggioranza degli spagnoli vuole che la costituzione – la propria interna e quella europea – sia allineata alla cultura costituzionale dell’Europa laica. Il mio amico e collega alla Università Computense Fernando Savater rilancia in questi giorni il tema della laicità dello Stato contro la crescita di tutti i settarismi identitari ed etnici[9].
La Spagna oggi ha più fiducia o più delusione nei riguardi dell’integrazione europea?
Si sta passando un momento – ma credo che la situazione sia diffusa in Europa – di percezione dell’euro come un valore e un disvalore, insomma come una cosa giusta ma che ci sta un po’ impoverendo. Però il processo di integrazione europea riguarda molto la Spagna oggi e questa congiuntura si supererà.
Che cosa hanno in comune spagnoli e italiani nel sentimento civile e nel rapporto con le istituzioni? E cosa non hanno per nulla in comune allo stesso riguardo?
So per esperienza e vissuto personale che spagnoli e italiani pensano di assomigliarsi molto (lingua, carattere, mediterraneità) e soprattutto di capirsi. Ma se si vedono da vicino alcuni comportamenti – la gente e la politica – si colgono differenze sostanziali. Aznar – si può convenire o essere in disaccordo – ha tenuto un comportamento mai accattivante, mai compiacente, mai alla ricerca di benevolenza. La solennità del condottiero che guarda alla meta. Senza cambiare di una virgola né posizione né proposte. Non voglio fare paragoni – nella vicenda della guerra in Iraq – in più capisco che l’Italia aveva all’interno spinte e controspinte complesse (tra cui la presenza del Vaticano) – ma non è stata questa la percezione di linea del governo italiano. C’è qualcosa che investe anche caratteri nazionali, in cui, per dirla così, gli italiani paiono abitualmente più flessibili.
La Spagna rientra nel contesto dei paesi in cui le istituzioni contano, a cominciare dalla monarchia costituzionale, dalla rappresentanza democratica riconquistata e per molti spagnoli dalle istituzioni dell’autonomia territoriale. Giuseppe De Rita dice che l’Italia non ha mai avuto un livello così preoccupante di de-istituzionalizzazione[10]. Se le istituzioni contano, quando parlano le si prende sul serio. La comunicazione istituzionale spagnola, al di là delle politiche che la guidano, è seria e autorevole? È schiacciata sulla politica di chi governa o ha i suoi ambiti di autonomia?
È vero che le istituzioni contano in Spagna, ma è anche vero che il grado di autorevolezza e di fiducia segue flussi di opinione pubblica regolata da fatti e da valutazioni. C’è un pragmatismo oggi nella politica che tende all’uso delle istituzioni più che al loro rispetto. Viene usato un po’ tutto. Anche i miti culturali di questo paese sono sradicati dal loro valore intrinseco per diventare oggetti di “appartenenza”. Proprio osservando il rapporto con l’arte e con le istituzioni culturali, che sono un ambito serio per vedere come si esercita una certa “comunicazione istituzionale”, nel senso della rappresentazione dei grandi temi del nostro tempo, vedo quei margini di “autonomia” molto ridotti.
Cosa rappresenta oggi – nella fiducia della gente verso le istituzioni – la figura del re Juan Carlos?
Rappresenta una figura rafforzata. Ma è una percezione che passa anche attraverso segnali comunicativi (“il re ha parlato, era molto arrabbiato”) più che decodificata da parole proprie dello schema politico. I gesti, le presenze simboliche. In prima fila nella manifestazione dei due milioni di cittadini sotto la pioggia all’insegna del “vogliamo sapere” c’erano i principi di casa reale.
Televisione, politica, quotidiani, consumi, scuola, università, chiesa, cinema, libri: chi influenza di più oggi l’opinione pubblica?
In generale la classifica è impossibile. Nelle vicende di cui abbiamo parlato risponderei fuori da questo elenco: Direi: la radio e i cellulari. La radio ha avuto un ruolo di diffusione di informazione commentata che corrispondeva ad una domanda forte. I cellulari (e in subordine internet) sono stati lo strumento di relazione e di partecipazione. Solo la televisione satellitare è entrata in questo circuito di rilevanza. In ogni caso direi che la vicenda ha messo al centro di tutto proprio il profilo comunicativo: i toni, l’immagine, la percezione di vero e falso, il modo di porgere, l’impatto, il valore dei simboli. Una comunicazione che non ha prodotto acquiescenza ma voglia di sapere.
Che spazio e che voglia vi è nel sistema universitario spagnolo per analizzare questi processi (l’insieme delle cose di cui abbiamo parlato) in modo trasparente e critico?
C’è una gioventù rivalutata. Li vedevamo un po’ svogliati e disattenti rispetto ai temi politici e civili. Li abbiamo ritrovati – con la loro rete di messaggi e relazioni – in grado di discutere e di fare delle scelte[11]. L’università, che è il loro luogo di vita, ha la possibilità di intercettarne ora la fase di attenzione e di partecipazione. Non so se lo farà fino in fondo. Ma c’è un maggiore bisogno di interpretazione. Mando domani un articolo su queste vicende al quotidiano El Pais che si intitola “Dal casuale al causale”. L’evento (caso esplosivo) ha creato un bisogno senza freni di essere compreso nelle sue cause. La tempesta informativa vaga ha avuto bisogno di una condensazione. Esce in questi giorni (anche in Italia) il saggio Esplosione e cultura di Juri Lotman. Lo consiglio. In principio direi che questo è un clima favorevole al lavoro dell’università.
[1] Pubblicato nel libro Stefano Rolando La comunicazione di pubblica utilità, Franco Angeli, 2004 e ripubblicato nel libro Stefano Rolando, Quarantotto-Argomenti per un bilancio generazionale, Bompiani, 2008.
[2] Nell’Europa comunitaria – ma più per localizzazione degli eventi che per essere l’Europa e gli europei destinatari di queste azioni – hanno avuto nel dopoguerra esiti più gravi, per numero delle vittime, l’attentato compiuto dai militanti radicali sikh su un Boeing di Air India caduto il 23 giugno1985 al largo delle coste irlandesi con 329 vittime (nessun superstite) e l’esplosione del Boeing della Pan Am nel cielo di Lockerbie in Scozia il 21 dicembre 1988, con 250 vittime a bordo e 11 a terra, in un attentato rivendicato dai libici. Il presidente del Parlamento europeo Pat Cox infatti ha dichiarato: “È il peggior atto di terrorismo nella storia della Spagna e il peggiore nella memoria di qualsiasi stato dell’Unione europea” (Ansa, 11 marzo 2004).
[3] Un’indagine demoscopica realizzata dall’Istituto Opina pubblicata da El Pais il 4 aprile 2004 rivela che il 27,6% degli spagnoli ammette che l’attentato terroristico ha influenzato il proprio voto mentre ben l’85,8% pensa che abbia influenzato quello degli altri concittadini. In ogni caso è il 51,6% che reputa negativo il comportamento comunicativo del Governo.
[4] L’edizione italiana (Sellerio, 1992) ha preceduto quella spagnola, presso Alianza del 1995.
[5] Rivista italiana di comunicazione pubblica ha dedicato il n. 10/2001 integralmente alla discussione (forum realizzato da Isimm e Università La Sapienza di Roma) agli eventi dell’11 settembre (Media, eventi, istituzioni, terrorismo. Realtà e rappresentazione).
[6] In Wall Street Journal, 23 aprile 2004, “Spagna, la verità di Aznar: ‘Non c’è stato depistaggio’”.
[7] Il primo sondaggio pubblicato da El Pais segnalava il 69% degli spagnoli contrari all’intervento militare in Iraq (7 febbraio 2004). L’agenzia Afp ha diffuso internazionalmente (24 marzo 2004) il sondaggio della rete televisiva Cadena Ser che segnalava un’opposizione degli spagnoli cresciuta all’83%.
[8] Vidal-Beneito J., “Las armas de falsedad masiva”, El Pais, 3 aprile 2004.
[9] Savater F., “Laicismo: cinco tesis”, El Pais, 3 aprile 2004.
[10] De Rita G., Il regno inerme, Einaudi, Torino, 2002.
[11] Anche la stampa conservatrice ha sottolineato il fenomeno. “Per la prima volta nella storia della Spagna un gruppo di età definita, i giovani, ha dato un’impronta inequivoca a elezioni generali”, ha scritto il quotidiano Abc (José Manuel Costa, No molestar al abstencionista, 4 aprile 2004).