A cura di Angelo Miotto e Massimo Acanfora – Altreconomia, marzo 2021


“Mi come Milano” Questioni di branding. Le opportunità della crisi identitaria della città (pagg.31-42)
Conversazione con Stefano Rolando
“Cette métropole brumeuse et réservée, aux trésors si bien dissimulés”: così scriveva Jérôme Gautheret corrispondente di Le Monde dall’Italia. Ma che cos’è Milano? Che cosa c’è scritto oggi sulla sua carta d’identità?
Su questa domanda, sul concetto di costruzione dell’identità cittadina e sulla distanza tra percezione e realtà è incentrata la conversazione con Stefano Rolando, professore all’Università IULM di Milano, già manager in istituzioni e imprese, che il brand Milano l’ha pensato, studiato e discusso in molti suoi scritti. Definisce una politica di branding come “gestione dell’evoluzione del patrimonio simbolico collettivo e della sua narrativa in particolare attorno ai processi identitari e alle politiche connesse all’attrattività”. Partendo dai suoi spunti teorici e applicativi, ecco cosa pensa del momento identitario che sta vivendo la “sua” città.
Entrando nel merito
Una città si tiene in eterno il suo profilo di immagine? Quando si può dire che esso cambia sostanzialmente”?
Il vero “cambio” comporta percepire, influenzare, accompagnare e criticare il cambiamento stesso. Non basta subirlo. Nella fase recente della sua storia Milano – come tutte le realtà destinate al cambiamento continuo, percepito o meno percepito, per una dinamica storica diciamo di “impossibile stagnazione” – ha accettato la leva della cultura, anche globale e globalizzata, per identificarsi e per raccontarsi. Cosa che comporta opportunità e rischi. Il vantaggio maggiore è quello di “giocare in serie A” – cultura come evento, come economia, come attrazione – ma il rischio è quello di fare come le squadre che non hanno tutto l’organico necessario per competere a tutto campo. Perché nessuna città, va detto, resta in serie A se non tiene in accelerazione tutta la dinamica dei suoi profili competitivi. Nemmeno New York ha potuto farlo, quando mezzo secolo fa ha patito una grande crisi d’immagine dovuta alla criminalità. Ha dovuto fare un enorme lavoro di riassetto strategico e successivamente ha dovuto convincere il mondo che le cose erano cambiate, alla fine (ma solo alla fine) anche grazie a Milton Glaser e al suo I love New York. Così anche altre città, come Amsterdam o Londra. Milano, che pure non è una città tra le primissime posizioni nell’immaginario collettivo mondiale, ma comunque sempre tra le prime 25, ad un certo punto, ha deciso di giocare in prima divisione. E quindi si è orientata a stare identitariamente in serie A. Senza essere città capitale e forse anche senza avere tutti i requisiti.
Quali requisiti soprattutto?
La dichiarata dimensione metropolitana, per esempio. Che per Milano è un dato di realtà. Ma non è compiutamente né un dato di governo, né di identità. E poi di avere un quello che pare un tavolo piuttosto debole di regia strategica circa le dinamiche chiamiamole così geopolitiche. Milano va a periodi. A volte a est, a volte a ovest. Pensa sempre di andare in Europa, ma qualche volta perde in Europa le sue sfide. A tratti si occupa del sud, altre volte borbotta con il sud. Quanto alla sua dinamica globale – che pure ha elementi concreti di primaria importanza – a volte la coltiva, a volte la teme.
Sta dicendo che Milano manca di regia?
Attenzione, una città non è una repubblica separata. Vive nelle regole nazionali e subisce la cultura politica e di governo di tutti i suoi contesti di riferimento. In un’epoca che ha tagliato la memoria e che ha mostrato poca classe dirigente in Italia in grado di dare del tu al futuro, Milano può dialettizzarsi ma finisce anche per adattarsi. Il dopo Expo in Italia ha significato transizione pesante. Milano ne ha risentito, pur mantenendo un suo profilo possiamo dire di qualità e di tradizione. E quando dico “regia” non dico un luogo solo e un solo potere, quello amministrativo. Il carattere borghese di Milano (da mille anni) obbliga a identificare il negoziato pubblico-privato come policentrico e anche come tavolo in trasformazione. Milano ha offerto e offre segnali interessanti, ma in certi periodi cala la nebbia (non quella atmosferica che in realtà è emigrata). In ogni caso qualunque ipotesi di trasformazione ora non può puntare a effetti immediati, come ha scritto il sindaco Beppe Sala in un suo recente contributo al confronto progettuale: “La risposta è nel medio e lungo termine, nella visione e nella costruzione di una città diversa”[1].
Da cosa ricava l’idea che Milano non abbia portato a fondo una sua nuova strategia di brand?
Intanto, per dare una risposta vera, bisogna dare a una città complessa il tempo di misurarsi con un intero ciclo. Non è detto che l’intero ciclo, che sbrigativamente chiamiamo “dopo Expo”, sia esaurito, anche perché adesso si è incrociato con le varianti della pandemia. Credo che Milano abbia mantenuto stimolazioni e credo che abbia promosso e gestito – finché la pandemia glielo ha concesso – una interessante strategia di crescita di attrattività turistica, legata anche alla modernizzazione delle sue offerte al riguardo. Un segnale di titubanza, di percorso non compiuto, potrebbe essere rintracciato nel fatto di non arrivare ancora, malgrado un lungo interessante travaglio, a definire in modo diverso se stessa. Che cos’è la Milano postindustriale, che è cominciata tanti anni fa con l’economia leggera, l’economia immateriale, l’economia artistica, l’economia della creatività e del design? Non è un esito scontato perché Milano, anche mentre scomparivano le ciminiere, ha ritenuto di continuare a definirsi città industriale e a tenere in piedi questa narrazione perché la pulsione profonda della città era quella di essere disallineata dal resto dell’immagine nazionale, da Firenze o da Venezia, comunque da Roma, perché si era fieri di essere un’altra cosa, di essere una città come Francoforte, orgogliosa della dinamica “grigio su grigio”. Nella nostra adolescenza ci si riconosceva negli operai in bicicletta, nel fumo delle ciminiere, nello smog autoprodotto, nella mitologia antropologica di Sesto San Giovanni. Quel modello ha segnato profondamente una città come Milano, il modello di città produttiva, disallineata dalla capitale, diversa dal bel giardino, soprattutto quando questo modello si è fatalmente esaurito. E quando l’ultima ciminiera della città è stata abbattuta, alla Barona, quel giorno si sarebbe dovuto essere pronti con un’altra narrazione della città. Lì sono affiorate tante ipotesi, ognuna con qualcosa di vero, compresa la persistenza di un carattere “industriale” (ossia manifatturiero), ma non è stato fatto un patto definitorio, comunicativamente efficace, per adattarsi alla narrazione da terzo millennio. Per questo ho citato la novità di avere accolto pienamente la chiave culturale per connotarsi, una tipica chiave nazionale italiana.
E’ così importante lottare per un aggettivo?
Siamo nel settecentenario dantesco, l’inventore del “bel Paese”. Che ha reso una reputazione e un reddito secolare all’Italia. Non è per caso che nell’epoca delle repubbliche marinare – un carattere guerresco, commerciale e urbanistico al tempo stesso – Genova era “superba” e Venezia addirittura “serenissima”. Per una transizione post-industriale avevo proposto (come Comitato Brand Milano) di provare intanto a varare il termine “industriosa”. Ma non ha attecchito. Mentre sottotraccia si esprimevano battaglie tra soggetti comunicativamente contrapposti che volevano accentuare altri aspetti segmentali. Chi il “lusso”, chi lo “stile”, chi il “sociale” chi il “multietnico”, chi guardando alla “salute”, chi guardando al “design”, chi al “volontariato”. Il retroterra novecentesco si è fatto prendere la mano da caratteri vistosi: la Milano dei ragionieri ha dominato un periodo, quella dei commenda un altro. Poi una certa idea del “commercio” ha preso l’avvento grazie all’immensa evoluzione del partito dei consumatori. E quando sono arrivati stilisti, architetti e pubblicitari a dare il cambio ad una generazione con la terza media ma anche con l’istinto per la vendita, è arrivata la “botta” della Milano da bere a chiudere la – chiamiamola così – ricerca.
E allora, partita persa?
No, persa no. Ma sono passati trent’anni, tanto cambiamento strutturale e simbolico e tanti processi narrativi, dalla pubblicità ai social, dal teatro alla finanza, dai cantautori ai tecnologi. Dopo Expo era arrivato il momento di decidere. Ma non è una questione di “trovate”. E’ il punto di arrivo di una dibattito pubblico identitario profondo, guidato, partecipato, con un tavolo largo, dalle imprese all’arcivescovado, dalle università ai media. Giusto quello che – con la giunta Pisapia – era stato avviato con eventi molto sollecitanti (penso alla mostra “Identità Milano” in Triennale, come penso alla teatralizzazione del tema identitario nelle periferie)[2]. Ma si è considerato chiuso quel ciclo di messa a fuoco, perché al momento prevaleva la filosofia del “fare”. Figuriamoci se a Milano si può alzare qualcuno a dire che il “fare” è secondario. Si trattava solo di declinare meglio la solita storia: fare, pensare, essere. Quando si cominciava ad aver chiara questa complessità, il signor Coronavirus ha sparigliato la partita.
La domanda, che parrebbe importante fare, è se ora, almeno, se ne discute.
Sì, giusto. Questa è la domanda giusta: se ne discute? E dove se ne discute? Qual è la strategia industriale, economica, finanziaria, politica, culturale, connessa a questi cambiamenti? Quali sono gli espliciti contributi attuali della ricerca (universitaria e di impresa) attorno a questi temi? Non si può fare per ogni cosa riferimento a Palazzo Marino. Bisogna anche prendere in considerazione la nuova articolazione del confronto civico di Milano, l’ambito cioè in cui “saperi e corporazioni” – per usare la sociologia di mille anni fa – morde l’attualità e discute sulle poste in gioco. Il problema è chi decide che questa sia una “posta in gioco”. Sicuramente vi sono elementi di vitalità. Ma l’altro tema è – non sono io a porlo, lo ha scritto Ferruccio de Bortoli di recente parlando di crisi socio-sanitaria a Milano – se sia vero che la borghesia milanese si è eclissata, lui dice “come i signorotti del tempo della peste raccontata del Manzoni, chiusi nelle loro torri”, sostenendo anche che “la cosiddetta borghesia produttiva non può limitarsi a premere per riaprire le fabbriche e a invocare aiuti”[3]. La mia impressione è che resti un po’ indefinito il tavolo di questo ragionamento. Il motivo è che si è scelto un sistema che si basa su criteri molto fattuali, quasi automatici: ad esempio arrivano i turisti e tu aumenti le strutture ricettive, con una soddisfazione immediata. Ma poi che cosa è successo? Quello che noi credevamo essere un piano verso le “magnifiche sorti e progressive” della città è stato fermato dal Coronavirus, che ne ha inceppato tre caratteristiche essenziali: la mobilità, la velocità e l’attrattività. Da qui deve ripartire tutto.
Come il tema si riarticola nella pandemia
Siamo appunto nella fase di riprogettazione del dopo-pandemia. Ed è interessante capire che spazio assuma il tema auto-definitorio della città non a scopo di compiacimento ma per orientare anche le politiche di brand.
La pandemia ci sta dando una grande opportunità: quella di rivedere i paradigmi. Mentre le “macchine” sono quasi ferme, mentre le “persone” agiscono soprattutto da remoto, mentre il combattimento in primo piano è nei luoghi di cura, in tutto il mondo c’è chi si propone di ridisegnare un modello di sviluppo a breve, medio e lungo termine. Ognuno può giudicare se Milano abbia veramente aperto una vistosa e significativa riflessione sul tema. C’è qualche traccia, ovviamente. Anche perché la campagna elettorale delle amministrative è alle porte. Ma vorrei azzardare l’opinione che finora non sia venuta in campo una voce veramente importante né dai settori pubblici, presi soprattutto dal tema del contrasto; né dagli imprenditori, presi soprattutto dalla difesa dei luoghi di produzione con medie di declino mai inferiori al 10/15% (fatti salvi i settori soprattutto di tecnologia digitale e di distribuzione che hanno beneficiato direttamente della crisi). Abbiamo ascoltato voci addolorate e anche voci scientificamente corrette, abbiamo avuto un giornalismo abbastanza attento, ma la domanda è legittima: dalla classe dirigente, in senso lato, è venuta una voce complessivamente “interpretativa”, qualcuno che abbia messo in campo un ragionamento di fondo su questo cambiamento necessario? Non voglio avocare alcun merito, ma mi sono posto concretamente questa domanda nel momento in cui ho rivolto cento domande ad un illustre e anziano rappresentante milanese di quella classe dirigente, cioè Piero Bassetti, che mi ha dato le sue risposte e che ho avvertito come un riferimento molto interessante quanto anche molto isolato[4].
La città si ritroverà adesso in una posizione di raccordo nazionale più forte su questa materia?
Premetto che non ha senso aspettare l’ultimo vaccinato per costruire un tavolo per anticipare questo ripensamento. Così come non ha senso aspettare l’esito delle prossime elezioni amministrative. Il momento della riprogettazione è ora. E, infatti, come la domanda dice, il segnale che viene adesso dal quadro di governo presieduto da Mario Draghi – anche con i suoi riferimenti interni milanesi in posizioni sensibili sulla materia – è di atteso stimolo. Oggi il problema è che Milano, dopo la scoppola, può e deve riuscire a ritrovare la filiera per mettere a dimora dei ragionamenti e riproporsi alcune domande fondamentali.
Quali?
La prima penso che sia quella sulla propria “geopolitica”. In che direzione andiamo, verso quali territori, come ci posizioniamo, quali alleanze possiamo mettere in piedi? La seconda mi viene da dire potrebbe essere quella sulla propria rete universitaria. L’Università è oggi la più grande azienda di Milano. Ma anche in ambito istituzionale prevale ancora spesso la percezione soprattutto solo della didattica rispetto al potenziale contributo sinergico con gli orientamenti circa i destini collettivi. La terza: quella, fondamentale, sulle disuguaglianze che permangono tra territori, tra quartieri, tra benessere e disagio. Non è il momento di ripensare alle periferie, anche se la parola è “brutta”? O di smettere solo di esaltarci per i quartieri “che ce l’hanno fatta” senza affrontare i problemi degli altri? Milano adesso diventa una città interessante se riapre il dibattito sul suo futuro, mettendo da parte slogan e stereotipi, togliendo l’università dalla sua turris eburnea, utilizzando per la città la sua ricerca applicata, che spesso resta nelle tesi o nei laboratori.
Quale è stato il collante identitario più forte nella storia del Novecento milanese?
Le trasformazioni della città sono state tante ed epocali. Potremmo anche scegliere l’urbanistica come prevalente ambito simbolico delle appartenenze. Preferirei rispondere a questa domanda con un paradigma che tiene insieme con pari forza fatti materiali e fatti immateriali. Con la Ricostruzione, dieci anni di rilevante emblematicità identitaria, Milano si è riconosciuta tutta nell’etica del lavoro, pietra miliare dell’identità di Milano. Mio padre il sabato andava in ufficio e domenica mattina lavorava dal suo studio a casa. A prescindere dal lavoro che si faceva e da che cosa si pensava, questa etica rendeva tutti “uguali”. Dopo la cosiddetta “piena” che ha dato la “cittadinanza milanese” a molti meridionali, questo sentimento riguardava anche il patto di coesione in quella grande prima ibridazione territoriale. Parlo della più grande città meridionale d’Italia oggi, Milano. Si scherzava, si dava del “terrone” a qualcuno, ma il rispetto sostanziale del contributo lavorativo era il collante più forte. Su questo si era uguali. Questo fattore è oggi rimasto a significare le stesse cose? In parte sì, in parte no. Non solo perché non ci sono più molte fabbriche. Ma perché è cambiato diffusamente il rapporto stesso con la cultura del lavoro. Che andrebbe ri-setacciata, riclassificata non solo per mansioni e paghe ma anche per valenze simboliche e valoriali. Anche tenendo conto che una ampia borghesia, quindi diremmo una società diffusa, da un certo punto in poi ha immaginato di scappare appena possibile da Milano facendo week end altrove sempre più lunghi.
Da post-industriale a post-pandemica
Sembrerebbe venuto il momento di immaginare che alle nostre spalle non ci siano più – e questo da tempo – ciminiere e capannoni, ma anche ambulanze, RSA e terapie intensive. E’ corretto questo spunto?
E’ corretto. Così come quando si trattò di considerare alle nostre spalle la guerra oppure il terrorismo e persino, con diversa valenza, l’inflazione. Le bombe del ’43 sulle nostre case (nella mia famiglia, per esempio, la cancellazione vera e propria della casa materna in via San Gregorio) hanno pesato sul sentiment collettivo come la bomba di piazza Fontana del ’69. In particolare Milano sul fare del nuovo secolo si è trovata nell’incertezza sul proprio ruolo rispetto al Paese e su quale fosse la propria identità rispetto all’Italia. Che modello era la Milano post-industriale? Bisognava cogliere dei segnali. Ma non è detto che tutti gli amministratori avessero la capacità di capire che cosa significava ad esempio il successo del Salone del Mobile, con la presenza di centinaia di giornalisti stranieri, la formula del Fuori Salone che metteva la gente di fronte a paradigmi inaspettati, la rigenerazione di alcuni quartieri. Era un momento sospeso, con alcuni eventi che avevano raffreddato gli entusiasmi per l’“inesorabile sviluppo” della città. Tanto che verso la fine del secolo avevo scritto un libro intitolato “La capitale umorale”[5]. Anche EXPO era stato – almeno inizialmente – avversato da larga parte della cittadinanza. In un certo senso Milano è andata verso l’EXPO non con un progetto preciso della classe dirigente. Se l’è trovato un po’ fra i piedi. E tra parentesi non è che Expo abbia “cambiato” Milano, ma ha messo invece luce sulle trasformazioni e sul cambio di passo che stavano già avvenendo, in un certo senso nonostante i milanesi. Penso in particolare alle dinamiche della trasformazione dalla condizione industriale in alcuni quartieri come Barona e Bovisa, soprattutto grazie agli insediamenti universitari, al lavoro fatto su 15 milioni di metri quadri di archeologia industriale, all’eredità di questa trasformazione che non è stata solo commerciale, se pensiamo alle attività dell’artigianato, della moda, degli atelier. O pensiamo al successo – certo anche speculativo – dei loft nel panorama della rigenerazione edilizia e abitativa. L’EXPO è stato insomma una cartina tornasole, che ha permesso ai milanesi di vedere meglio la città e di capirne i grandi cambiamenti. Ma è vero che il dopo Expo non ha ancora segnato un progetto compiuto per mettere in movimento tutto il nuovo che nel frattempo si è accumulato. La pandemia – intesa come sofferenza collettiva, ma anche come opportunità collettiva – potrebbe svolgere questo compito.
In questa discontinuità quanto conta il profilo della percezione interna e quanto quello della percezione esterna?
L’EXPO ha messo in movimento un problema di cambiamento più ampio della “percezione interna”, tanto è vero che non è stata metabolizzata a sufficienza la trasformazione identitaria. Senza questo passaggio – a mio parere – non c’è sufficiente cultura di brand, non c’è sufficiente proposta di brand, non c’è nemmeno sufficiente strategia promozionale, perché non la puoi costruire sull’effimero, devi prima capire da che parte stai e da che parte vuoi andare. L’EXPO ha portato la percezione del cambiamento, ma una certa superficialità descrittiva ha interpretato il suo portato come un viatico per il grande, sicuro, irreversibile successo. Milano “capitale” di un sacco di cose. Una città che “sta già nel mondo”. Tutte cose un po’ vere e un po’ false. Vere per le punte di alto glocalismo. False per il perdurare di qualche provincialismo e qualche arroganza sociale. Il salto di qualità non si misura con gli aperitivi, ma con dati più scientifici. Le risposte sono incomplete. E il dibattito pubblico in realtà langue e non ha approfondito a dovere. Perché a volte si tende a celebrare, quando la nostra retorica era caso mai di non accontentarsi e di criticare. Quanto alla percezione esterna verrebbe da dire “non c’è male”. Ma non sempre si derubrica con severità critiche, dati di insufficienza, confronti ancora frenati. Se deve venirmi in mente una cosa che conosco è quella del processo frenato dell’internazionalizzazione del sistema universitario milanese.
Torniamo a una domanda, prima accennata: perché non siamo pronti a diventare la città metropolitana di 5 milioni di abitanti che potremmo essere?
La politica ha risposto, accampando varie scuse: mancano le risorse, la legge è scritta male, un po’ si va avanti, ma in sostanza no. Ma la verità è che, anche per preoccupazioni politiche, non si è affrontato il tema dell’identità dei milanesi che non è pronta a mischiarsi con quella suburbana dei comuni limitrofi. E viceversa quella dei comuni limitrofi che non intendono essere “mangiati” identitariamente dai milanesi. Quella famosa domanda “Sei di Milano? Ma… Milano Milano?”…. Insomma a Milano ci vai a lavorare, ma poi ti sottrai da costi e da dinamiche che ti rendono estraneo. E’ vero che la città è senza confini per chilometri. Ma non si è lavorato – come ha lavorato Londra ad esempio – per garantire a tutti un’appartenenza capace di contenere un grande pluralismo di condizioni reali e simboliche di insediamenti differenziati. L’analisi costi-benefici di quella trasformazione è stata fatta? Credo solo quella delle risorse finanziarie infrastrutturali (che è materia che sta tuttavia procedendo) e sulle condizioni amministrative (che resta tema dominato da controversie politiche). Milano avrebbe la possibilità di diventare un cantiere di punta di un altro cambiamento sulle dinamiche di identità urbane. Ma bisogna saperlo leggere e governare. Argomento che non mi stupirebbe se finisse per essere meglio compreso e governato prima o poi da Napoli o da Roma. Non è un argomento riferito a una sola persona, il sindaco. E’ riferito alle culture sociali dell’intera città e delle sue complesse rappresentanze. E quindi anche dai media.
Arrivati a questo punto, una domanda potrebbe apparire provocatoria ma intende essere sostanzialmente chiarificatoria: Milano, in sintesi, è una grande città?
E’ una domanda a cui vorrei rispondere affettivamente più che scientificamente. Cioè dicendo che in realtà è una piccola città, percorribile, circolabile, conoscibile. Con tratti qualitativi che appartengono alla fascia alta delle città del mondo. Ma con alcuni limiti della sua qualità sociale che la tengono a mezza classifica. In ogni caso nella dimensione italiana – in cui prevalgono le pmi sulle grandi imprese, in cui ci sono più distanze tra nord e sud che tra grande e piccolo – Milano ha una percezione nazionale modellistica in termini di efficienza e servizi. Il che va sempre tenuto presente.
Quale è allora l’agenda per risalire la classifica?
È necessario un nuovo processo definitorio della condizione identitaria. Quindi, riprendendo una precedente domanda ha senso chiedersi dove vada la “geopolitica” di Milano. Verso la Germania via Brennero? Verso la Francia con l’alta velocità? Sull’asse euro-mediterranea riprendendo un nuovo patto con il Sud? Sviluppando il suo carattere infrastrutturale urbano lungo la città continua con Bergamo e Brescia, con tutte le resistenze degli interessi locali? Mettendo un punto reversibile alla divisione anch’essa identitaria tra Milano e Torino con la cesura del Ticino ben più ampia di quel tratto di fiume? Conosco la risposta dei geo-glocalisti: Milano confina con San Paolo del Brasile e con Abu Dhabi, smettila di occuparti di queste narrative ottocentesche. La mia risposta era ed è la stessa: appena aggiusteremo meglio il nostro rapporto stellare con il territorio materiale su cui abbiamo una egemonia relativa confineremo con più senso con San Paolo del Brasile e con Abu Dhabi. Il secondo punto che metterei in agenda riguarda i luoghi e i modi del patto pubblico-privato per finanziare la ripresa degli investimenti produttivi nel territorio che stimiamo corrispondere alla “milanesità”, così da uscire il più possibile con risorse proprie dalla crisi pandemica e post-pandemica. Il terzo punto riguarda il progetto che Milano dovrebbe mettere in campo per la propria gioventù. Milano ha dimostrato di favorire l’ingresso nel mercato del lavoro considerando meglio un valido cv che una malsana raccomandazione (perché questa cosa è veramente successa). Adesso deve fare un salto di qualità dimostrando che la logica dei figli di papà è meno forte dell’idea che c’è una intera generazione che preme per esprimersi nelle forme meno disuguali possibili. Non è argomento da breve intervista. E’ tema di un grande progetto di medio-termine e di patto inter-istituzionale (quindi con la Regione, con lo Stato e con l’Europa), tirando la volata ad un carattere intrusivo anche nelle vicende meridionali italiane ricordandoci che i meridionali sono per tradizione filo-milanesi a condizione che Milano rinnovi un pensiero di liberazione sostanziale per tutti. Su tutti questi punti agisce trasversalmente un sistema universitario e di ricerca che si orienti con forza verso il public engagement. L’esempio dato da Politecnico e Humanitas per generare percorsi formativi per nuove professioni (l’ingegnere sanitario)[6] è stato un magnifico esempio da replicare nel quadro di una super-narrazione del futuro: non perdere il lavoro ma inventarne nuovo.
E la cabina di regia di tutto ciò?
Istituzioni, imprese e università hanno i loro luoghi di negoziato a cui devono intitolare il loro “Next Generation Plan” territoriale e nazionale. Se lo disputino. Ricordando che Milano riconosce come istituzione sia l’istituzione in senso proprio che anche tutto ciò che si è conquistato vera reputazione facendo parte di una sorta di Costituzione materiale socialmente condivisa. La pandemia ha buttato acqua salata nel motore della città. Ora siamo in revisione sapendo che dovremo cambiare motore, stile e velocità. Dobbiamo davvero chiederci quali sono le cabine di regia. Su quali punti la città deve prendere decisioni. Quali sono le alleanze da fare per creare una classe dirigente all’altezza delle poste. Chi è in grado di costruire classi dirigenti degne. Dobbiamo interrogarci sulla capacità dei partiti, delle associazioni di categoria, dei corpi intermedi e del Terzo settore di fornire nuova classe dirigente. Sarebbe venuto il momento di non dare niente per scontato. Ma di aprire una gara al rinnovamento in una partita euro-mediterraneo aperta. Quando gli Sforza – che erano stati di punta nel sistema finanziario internazionale – riconobbero che per Milano ci volevano risorse diverse dalla loro esperienza di controllo del negoziato tra le casate locali, si finì per favorire l’arrivo degli Spagnoli. Non erano tutti come i “bravi” dei Promessi Sposi. La Spagna di Carlo V, magnificamente raccontata da Chabod, era quella della recente scoperta delle Americhe con capacità di inserire Milano nel sistema di una governance globale prima di tante anche più illustri città. Non sto auspicando di vendere Milano agli sceicchi. Sto dicendo che la logica delle cabine di regia dell’innovazione è una materia che si gioca adesso (nel dopo-pandemia) nella ripresa di una competitività diversa da quella che abbiamo conosciuto e dunque all’interno del paradigma della improbabilità.
Quindi in termini di brand c’è da immaginare un cambiamento soprattutto di narrazione?
Non partirei da lì. Partirei da cambiamenti sostanziali che inducano inevitabilmente altro genere di comunicazione e di contenuti percettivi. Ciò non toglie che la narrativa mediatica delle nostre città e quindi anche di Milano sia vecchia e che andrebbe quindi ripensata. La città che accetta il suo pluralismo sociale, che accetta la sua complementarietà e quindi anche la conflittualità sugli interessi, che reinventa il suo baricentro rispetto alle tendenze relazionali che incrociano la dinamica europea è materia con una abbondante narrazione ancora sotto traccia. Una magnifica sfida per i nostri luoghi creativi che ora potrebbero dedicarsi a smontare il grosso degli stereotipi che tengono un Paese come l’Italia inutilmente abbarbicato al passato.
Stefano Rolando E’ tra gli artefici del moderno analitico approccio al “public branding” e in particolare al “brand Milano”. È stato presidente del Comitato Brand Milano dal 2012 al 2016, poi trasformato in Associazione Brand Milano, di cui ha avuto la responsabilità operativa e scientifica presso la Fondazione Triennale fino al 2018. Il progetto “brand Milano” ha poi trovato un ambito di presidio scientifico e di ricerca applicata all’Università IULM presso l’Osservatorio sulla comunicazione pubblica, il public branding e la trasformazione digitale, costituito nel luglio 2018 e di cui ha assunto la direzione scientifica. E’ presidente della rete degli operatori di comunicazione istituzionale europea (Club of Venice, presso il Consiglio UE). E’ anche membro del CdA della Fondazione Milano (scuole civiche di teatro, cinema, musica e traduzione). E’ stato in precedenza alto dirigente in istituzioni (Presidenza del Consiglio dei Ministri, Consiglio regionale della Lombardia) e imprese (Rai, Luce, Olivetti). Nella sua vasta bibliografia sul tema ha pubblicato tra gli altri Citytelling. Raccontare identità urbane. Il caso Milano, EGEA 2015 e Brand Milano. Atlante della nuova narrativa identitaria, prefazioni di Giuseppe Sala e Gianluca Vago, promosso da Associazione Brand Milano, Mimesis, 2017. È in uscita (aprile 2021) il suo nuovo libro sul tema Public branding, edito da EGEA. Numerosi i suoi scritti sia negli ambiti della comunicazione che sul tema storia, politica e identità (l’aggiornata bibliografia su https://stefanorolando.it/). |
[1] Giuseppe Sala, Lettere delle città del futuro, De Agostini, 2021
[2] L’inventario di quell’esperienza in Brand Milano. Atlante della nuova narrativa identitaria – Mimesis, 2017.
[3] Ferruccio de Bortoli, La classe dirigente che serve al Paese, Corriere della Sera, 16 maggio 2020.
[4] Stefano Rolando, Glocal a confronto. Piero Bassetti riflette sulla pandemia, prefazione di Riccardo Fedriga, Luca Sossella editore, novembre 2020.
[5] Stefano Rolando, La capitale umorale – Scritti su Milano e la Lombardia, Ed. MilanoMetropoli, 1999 (presentazione di Carlo Tognoli).
[6] Francesca Barbieri, A Milano «nasce» il medico-ingegnere: doppia laurea da Politecnico e Humanitas, Il Sole 24 ore, 5.6.2019.