Se l’industria life sciences fa comunicazione pubblica. Intervista con Stefano Rolando

6 aprile 2020

Le aziende del settore non si occupano solo di raccontare se stesse, ma in situazioni di emergenza sanitaria possono dare un grande supporto alle istituzioni collaborando per diffondere messaggi più orientati all’interesse della collettività.

Ne parliamo con Stefano Rolando, direttore dell’Osservatorio sulla comunicazione pubblica, il public branding e la trasformazione digitale dell’Università Iulm di Milano

Alessio Chiodi

Il delirio comunicativo di questi mesi e dell’ormai quasi anno e mezzo di pandemia hanno messo sotto i riflettori le capacità dell’industria farmaceutica e dei dispositivi medici di promuoversi agli occhi delle istituzioni e del pubblico. Ci sono precisazioni da fare quando si parla di capacità comunicativa delle imprese, specialmente in un periodo di crisi come quello che stiamo vivendo. Come spiega Stefano Rolando, direttore dell’Osservatorio sulla comunicazione pubblica, il public branding e la trasformazione digitale dell’Università Iulm di Milano “la comunicazione pubblica non è la comunicazione dello Stato, ma di un sistema che riguarda la sfera pubblica in cui agiscono le istituzioni, la politica, la società civile e, sì, anche l’impresa”. All’interno di questo scenario le aziende farmaceutiche o di medical device si possono ritagliare un ampio spazio. “Le aziende non fanno solo comunicazione di impresa. Lo fanno quando devono vendere, acquisire quote di mercato, sedurre il consumatore. Quando siedono al tavolo fanno la loro parte negli interessi generali ed entrano quindi nella comunicazione pubblica pur con le loro tendenziosità che sono legittime, attenzione. Sarà poi l’istituzione a fare una sintesi. In questo modello è naturale che l’impresa partecipi al dibattito pubblico e dica la sua confidando di avere una buona reputazione per avere successo con le proprie proposte”, continua Rolando. Che specifica: “Il public affairs è certamente una parte, ma le imprese portano cultura e conoscenza, proprio come fanno altri attori, dai politici ai sindacati”.

La reputazione e la forza “negoziale”

Quando le imprese del settore si sono sedute al tavolo con le istituzioni hanno potuto giocare tutte le loro carte vincenti. “La reputazione era straordinaria all’epoca – continua Rolando – soprattutto se pensiamo alla capacità di produrre i vaccini. Il carico è stato enorme se pensiamo che hanno portato sul mercato un prodotto in cinque mesi anziché cinque anni”.

All’interno del sistema

Insomma se è vero che le aziende non sono un corpo estraneo alla comunicazione pubblica, che cosa è successo in questi oltre dodici mesi di pandemia? L’affanno, a partire da Palazzo Chigi per arrivare alla comunità scientifica, è stato evidente. “Abbiamo avuto una crisi subdola – spiega Rolandoperché avevamo i protocolli non aggiornati. Tra l’altro – approfondisce l’esperto – se si analizza la capacità di prevenire le crisi, l’Italia, tra i Paesi Ocse non è tra i primi posti. L’Italia ha maggiormente una cultura dell’emergenza che non della prevenzione. Incidono fattori umani, territoriali, sociali e scientifici, ma tutti questi si esaltano nell’emergenza, non nella prevenzione”.

In effetti basta guardare l’esordio della crisi pandemica. “All’inizio il Governo ha preso decisioni coraggiose e difficili e la comunità scientifica si è rivelata unita nel seguire le scelte politiche (lockdown, ndr.) dividendosi sui temi clinici ed epidemiologici più per motivi di ‘scuola’ di pensiero. Un anno fa la comunicazione istituzionale ha funzionato bene e il Paese ha aderito. L’Italia ha reagito anche con una certa ‘epica’. Ma quando ci sono stati gli allentamenti si è scatenato un conflitto tra il sistema salute e il sistema economico-produttivo e la politica ha dovuto trovare molti compromessi. Si è amplificato, tra l’altro il preesistente il dualismo Stato-Regioni e lentamente il Governo ha perso autorevolezza”.

La seconda fase, da un punto di vista della comunicazione, è stata per certi versi ancor più critica della prima. La novità ha spinto tutti a seguire le linee governative nella speranza di un ritorno in breve tempo alla normalità.

I due profili delle imprese

Dal lato delle aziende life science la comunicazione è stata più morbida. Certo, in più occasioni gli esponenti dell’industria si sono fatti sentire per confermare il loro appoggio per risolvere la crisi, ma fino a maggio-giugno 2020 si è preferito mantenere un profilo piuttosto basso. Profilo che, poi, ha cambiato decisamente tono proprio in occasione della seconda fase di cui parlava Rolando, ossia nel momento in cui sono state allentate le restrizioni per il periodo estivo.

Qui, anche in virtù dei primi risultati sui vaccini e sui nuovi farmaci, l’impresa ha iniziato una fase ascendente nella propria comunicazione che ha avuto il suo apice a fine 2020 in vista proprio delle prime approvazioni. La guerra sui numeri dell’efficacia tra Pfizer/Biontech e AstraZeneca ne è un chiaro esempio. Seppur con minime avvisaglie nel corso della seconda metà del 2020, il 2021 ha poi segnato il passo con un ritorno di fiamma di forte antagonismo da parte di buona parte della società civile nei confronti dell’industria farmaceutica. La gestione dei contratti, dei prezzi, dei brevetti e della temuta scarsa efficacia e pericolosità dei prodotti hanno messo in discussione la buona reputazione che le imprese si erano costruite fino a quel momento nei confronti dell’opinione pubblica.

Di errori comunicazionali, in un momento denso di attacchi su più fronti, ne sono stati fatti (come ha accennato anche Pasquale Frega di Novartis Italia nell’intervista nelle pagine precedenti) e anche dai pesi massimi delle istituzioni e del mondo scientifico sono arrivate dure critiche alla gestione della crisi d’immagine. Uno su tutti è stato Guido Rasi, ex direttore esecutivo dell’Ema e ora docente di Microbiologia all’università di Roma Tor Vergata. Rasi, in occasione di una sua partecipazione al programma televisivo Agorà su RaiTre il 24 marzo, non ha esitato a dire che il vaccino anti-Covid di AstraZeneca “meritava una casa farmaceutica migliore”, perché gestito male. “È un peccato – ha detto ancora – perché il vaccino è molto migliore della sua comunicazione e dei suoi produttori che si sono dimostrato davvero poco professionali. Siamo di fronte a una manica di dilettanti emotivi che non si rendono conto che siamo in una pandemia”. I social, poi, hanno fatto il resto. Nell’universo Facebook e Instagram le vignette e i cosiddetti “meme” sulle aziende farmaceutiche (in particolare AstraZeneca) hanno messo a nudo tutti i punti deboli non solo di una società in particolare, ma di tutto il settore life science. La difficoltà di ingranare la marcia e di adottare il cambiamento culturale di cui ha parlato Frega è evidente soprattutto nel contrasto al dilagare del negazionismo digitale.

Il mondo social

Il calderone dei social network ha stabilito un nuovo terreno “di scontro” e di “incontro”. Sempre Rolando spiega che “la rete ha dato una risposta migliore del giornalismo scientifico. C’è stata un’offerta di qualità notevole soprattutto da parte dei siti universitari che hanno prodotto un giornalismo divulgativo aprendo nuovi spazi ai temi trattati. Dall’altra parte però – avverte Rolando – la rete ha dato spazio a una domanda sempre più crescente di negazionismo. Sulla base della domanda degli utenti, internet ha offerto risposte di altissimo profilo, ma anche di medio e basso livello”. Rolando insiste poi su un ultimo concetto. “La comunicazione, in qualunque forma, non deve essere un semplice confezionamento. Sia una filosofia con cui si assumono e si condividono le decisioni. Il quadro di formazione della decisione è bene che sia complesso, conflittuale e contraddittorio”.

E forse è proprio su questo terreno che l’industria deve scendere. Sia a livello istituzionale per poter davvero attuare una comunicazione pubblica coi suoi strumenti evitando per quanto possibile il brandwashing (ossia la “ripulitura” del brand attraverso una precisa campagna comunicativa), sia sui social adattando la propria in base all’esigenza del momento. A differenza dei casi passati e recenti che hanno coinvolto il life science (si pensi ai casi Cronassial, Tylenol o gli oppioidi negli Usa), qui c’è necessità di far passare messaggi positivi sui grandi passi avanti che l’industria farmaceutica ha reso possibile nella lotta a Covid-19.

Non è quindi solo necessario un atteggiamento passivo e difensivo per tutelare la reputazione aziendale, ma attivo e propositivo per stimolare il dibattito all’interno dell’ecosistema comunicativo in cui il life science può davvero contare.

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