Gli operatori di questo settore dovrebbero intercettare centralmente il bisogno di “accorciare le distanze”.
Provando a concentrare il potere di proposta (con la sua modesta negozialità) sul tema della “rappresentazione” della crisi e delle relative conflittualità.
Stefano Rolando
Articolo pubblicato dal giornale online L’Indro il 12.4.2021
Sale convegnistiche vuote, webseminar affollati. Ormai è la regola. Il “netto comunicativo” forse è maggiore, ma sono pressoché finite le relazioni sociali, il parlarsi prima e dopo, rivedere amici e colleghi, commentare sul filo di ciò che non è tutto dicibile pubblicamente. Siamo però tutti più “a posto” (salvo chi non spegne il microfono a registrazione ancora aperta). E per alcuni versi le platee partecipative si fanno persino un po’ più ampie. Le registrazioni (che in università – pochi lo hanno rilevato – annullano la storica distinzione tra frequentanti e non frequentanti) incrementano fortemente il ruolo bibliotecario della rete, costruendo a misura di ciascuno nuovi depositi di memoria.
Faccio questo incipit per dire che anche questa “stabilizzazione” dell’emergenza sta diventando un adattamento che avrà conseguenze in qualche modo permanenti per le forme del “dibattito pubblico”. Metafora di quella più ampia linea di “convivenza con il virus” che alcuni indicano come la probabile uscita almeno a medio termine dalle attuali condizioni di crisi. Un adattamento che potrebbe anche contenere, in un certo senso, incidenze sull’etica della comunicazione. Il carattere “eventistico”, da sempre un fattore promozionale, appunto di “richiamo”, che la riduzione a videoregistrazioni chiude nella cornice 30×50 cm di un pc o addirittura 8×16 di un cellulare, diventa ora un rito conventuale. Niente foto, niente pose, niente fogge eleganti, niente fotografi, niente conta mondana dei presenti. E via discorrendo.
Lo stesso ridimensionamento è oggi in atto (anzi da mesi) sulle pagine a stampa nei media a proposito di una forma di comunicazione che sorregge una parte importante della comunicazione stessa: la pubblicità.
Nell’ambito dell’Osservatorio sulla comunicazione pubblica dell’Università Iulm è stata avviata una ricerca – rapportata al primo anno della pandemia – sulle maggiori trasformazioni dell’advertising corrente sui mezzi a stampa che sono evidenti a tutti: paginate di lettering a maggior contenuto sociale, ampliamento dei contenuti solidali rispetto ai contenuti “seduttivi”, trasformazione (parziale) dei messaggi da sollecitazione di atti di acquisto a promozione corporate. L’analisi a cui si sta lavorando tra un po’ metterà in luce queste novità. Mentre anche gli spot in tv e in rete stanno assumendo cambiamenti rilevanti – immagini, lessico, tonalità, scopo – salvo per l’invasione senza sosta dell’offerta di acquisto di auto che pare non tener conto nemmeno lontanamente del fatto che le auto di quasi tutti noi giacciono ormai per lo più ferme nei garage o allineate ai marciapiedi (e magari è proprio per questa ragione che gli spot disperatamente si sviluppano).
I cambiamenti più rilevanti
Ma c’è un’altra trasformazione etica nel sistema della comunicazione che va presa in considerazione. E che marca più internamente la domanda di autocoscienza professionale degli operatori. Una trasformazione che l’andamento di questa crisi consente di osservare. Nella speranza che essa abbia qualche potere su aspetti di fondo dell’agire professionale e al tempo stesso sociale di un “esercito” civile che nell’ultimo mezzo secolo si è ingrandito di cento volte e si è espresso in non meno di cento diverse tipologie di mestieri. E’ evidente che la trasformazione digitale segna il Rubicone del prima e dopo. Cioè la linea di discontinuità che investe anche centralmente questa crisi pandemica. Le narrazioni e le relazioni ante-Covid avvenivano nel quadro di paradigmi sociali e commerciali centrati sulla mobilità, l’assembramento, gli eventi e il crescente accesso a beni di ripagamento immateriale (dunque reputazionali) rispetto al soddisfacimento di bisogni primari. Che la vecchia piramide di Maslow (partire dai bisogni materiali e, solo ad avvenuta soddisfazione di questi, accedere in cima ai bisogni immateriali)[1] sia stata messa in discussione da tanti grandi fatti del nostro tempo (si pensi solo al tempo lungo e continuato delle migrazioni) lo si dice spesso.
La condizione di incremento delle disuguaglianze, di radicalizzazione tra aree sociali garantite e aree non garantite, tra categorie socio-anagrafiche più aggredite dalla crisi sanitaria rispetto ad altre più “immuni” – e tanti altri temi analoghi – va tuttavia creando condizioni di realtà in cui non è più solo la trasformazione digitale rispetto alle vecchie forme di comunicazione a fare la differenza. Lo è la natura stessa della domanda dell’economia della comunicazione quindi (e viene da dire anche “per fortuna”) il modo con cui la testa e l’anima degli operatori, indistintamente anche rispetto al Rubicone citato, reagiscono alla crisi.
Appunto in uno dei tanti webseminar di questi giorni ho partecipato ad una riflessione promossa dall’editoriale Altreconomia che ha pubblicato il saggio 21.Alfabeto per la comunicazione etica post pandemia, scritto da Luca Montani (capo della comunicazione della MM milanese), con un mio contributo introduttivo, in cui le ventuno lettere dell’alfabeto sono gli indicatori di un percorso attorno alla “pausa attiva di riflessione” che non pochi operatori vanno dimostrando reattivamente.
La rete di amici di Luca Montani ne ha fatta materia di discussione per alcuni mesi, producendo alla fine un “manifesto” di agevole (ma non scontata) lettura, con un blog in avviamento (grazie a Daniele Chieffi, professionista della comunicazione digitale) per dare più costrutto allo sviluppo del confronto (https://manifestodellacomunicazione.it/). In grande sintesi lo stesso Montani promuove così la tematica in discussione: «Gli esperti parlano di infodemia per indicare il bombardamento di contenuti a cui siamo sottoposti, spesso senza riuscire a diventare realmente informati. Durante la prima fase della pandemia abbiamo subito impotenti un’ubriacatura di dati e di numeri che da soli non ci davano alcuna lettura di quello che stava accadendo al nostro paese e nel mondo. Personalmente penso che l’infodemia sia un altro virus letale con cui oggi dobbiamo fare i conti».
Ho osservato che la crisi ha acutizzato tanti dualismi. In Italia l’elenco è lungo: nord-sud, giovani-vecchi, Stato-Regioni, garantiti-non garantiti, alfabetizzati-non alfabetizzati, abbienti-poveri, occupati-non occupati, vaccinati-non vaccinati. Eccetera. Nel mondo altrettante cornici generali: sistemi democratici-sistemi autoritari; approccio alla salute come bene individuale o come bene collettivo; rappresentati-non rappresentati. La divisione tra vaccinati e non vaccinati sarà poi decisiva a partire da quando, entro quest’anno, la minoranza dell’umanità risulterà vaccinata e la maggioranza sarà esposta a ogni variante. Sono argomenti più concreti rispetto al generico dibattito se la parola “guerra” si debba o non si debba usare a fronte dei 3 milioni di morti per Covid-19.
Accorciare le distanze
Senza sfuggire alla critica di ingenuità circa la difficoltà di modificare dal basso la “domanda di comunicazione” che viene da qualsiasi potere (politico, economico, sociale), l’accompagnamento formativo e deontologico di una professione (scuola e università comprese) ha tuttavia un certo potere di interagire.
E in questo momento questo relativo potere deve intercettare centralmente il bisogno di “accorciare le distanze”. Si tratta di non fare generici ricami retorici sul carattere della crisi. Ma di provare a concentrare il potere di proposta (con la sua modesta negozialità) sul tema specifico della “rappresentazione” della crisi stessa e delle relative conflittualità. Ferma restando la necessità (su cui insistono anche appelli di medici e infermieri) di operare sullo specifico della pandemia contro fake news e contro superficialità correnti.
Dopo il 2015 è stato questo anche il tema della svolta etica del giornalismo – quindi dell’informazione – a proposito delle migrazioni. E’ bastato in alcuni casi usare lo “zoom” delle macchine fotografiche e passare dal racconto di scene di massa alla storia di persone, per trasformare gli scenari delle paure in narrative magari “vecchie come il mondo” ma sempre riconducibili a vicende vere e parlanti. La possibilità di riaprire un conflitto tra i poteri è stato largamente indotto da questa svolta – che ha conquistato molto i giovani professionisti – e ha trovato un posto nel sistema dell’informazione, anche quello di orientamento più commerciale. La strumentalizzazione delle paure ha visto così ridurre il suo strapotere e ora – anche a fronte dell’incrudelimento delle condizioni nel quadro pandemico – sono mature le condizioni per nuovi approcci.
La comunicazione (tanto pubblica quanto di impresa) dovrebbe svolgere il suo compito sociale principale non tanto nel creare allarme o seduzione, ma (come diceva Pasolini indicando il suo stesso profilo comunicativo) nel “dare spiegazioni”. Non è la comunicazione ad agire direttamente su aspetti strutturali economico-normativi. Ma essa può contribuire a ridurre stereotipi, condividere obiettivi a tendenza egualitaria e abbassare il tasso di analfabetismo funzionale. Naturalmente non è un discorso liquidabile in poche righe.
Questa stessa pandemia sta proponendo l’argomento come driver della rigenerazione della comunicazione pubblica. Che non ha solo il compito di far stare la gente a casa. Ma anche di farla stare meglio con se stessa e nel nostro tempo. Chissà dunque che l’appello del presidente Draghi alla “coscienza”[2] venga declinato non solo a proposito dei cittadini ma anche degli operatori professionali e istituzionali.
Proprio ieri Giuseppe De Rita, sul Corriere della Sera[3], ha posto il tema di una certa reattività civica verso le istituzioni e il governo in particolare, per sollecitare una comunicazione pubblica di accompagnamento, al fine di uscire dall’ “accucciamento nella paura”, ma anche dal puro “incitamento”:
“Se oggi, ormai da mesi, non scatta tale reazione vitale, mi sembra inutile continuare a chiedere all’attuale premier di «dire qualcosa». Forse al contrario dovremmo essere noi, come società civile, a dire qualcosa a lui, segnalando che l’accucciamento nella paura non porta da nessuna parte; che i bonus e il non-lavoro (lo smart working) non creano nuova sostenibilità, ma solo il crollo dell’iniziativa individuale e imprenditoriale; che la prima cosa che desideriamo è il break dell’attuale messaggio di stop a tutti. Siamo noi quindi che dobbiamo collettivamente maturare un po’ di voglia di uscire dall’ormai lungo letargo di vitalità. E se per fare questo dovessimo avere bisogno di guardarci dentro con coscienza critica, allora anche un invito al silenzio potrebbe rivelarsi utile”.
[1] https://www.risorseumanehr.com/blog-hr/la-piramide-dei-bisogni-di-maslow
[2] https://www.ansa.it/sito/notizie/politica/2021/04/08/draghi-conferenza-stampa-alle-18_d120c29f-7472-4260-894e-3fb9bac090db.html
[3] Giuseppe De Rita, Serve la voglia collettiva di uscire da un lungo letargo, Corriere della Sera, 11.4.2021