Dedico, in questo 25 aprile, all’amico di lunga, lunghissima data, Gigi Covatta, scomparso all’alba del 18 aprile, un’analisi sintetica dei commenti che – sulla stampa e in rete – hanno espresso con affetto e intelligenza il cordoglio per la perdita di una figura al tempo stesso di politico e intellettuale che incarna anche la storia di una generazione.
Stefano Rolando


Alla quattro della mattina del 18 aprile, Gigi Covatta – che conosceva il suo fronteggiamento contro la malattia, con i medici che gli davano speranze di tempo ma che gli avevano anche detto che l’artiglieria era finita – ha aperto gli occhi improvvisamente dal sonno e poi ci ha lasciati. Nicla per prima, che avvertiva il pericolo. E tutti noi, un po’ più ignari e persino un po’ imbrogliati dal suo caparbio “fare”, attorno alla rivista Mondoperaio e ad altri eventi in una trama di speranze e delusioni che ormai costituiva il suo vero fronteggiamento da molti anni. Ho scritto cose a caldo, per un’amicizia lontana nel tempo e feconda da sempre sul piano culturale e civile. E poi ho dato a Fondazione Socialismo (che lui animava accanto a Gennaro Acquaviva) un dossier di commenti, apparsi sulla carta stampata e in rete. Un’ottantina di firme, alcune di originale ed elaborato pensiero, altre capaci di testimonianze che hanno coperto diversamente territori, esperienze, eventi, occasioni, chiodi fissi e dati di fondo di un carattere e di un’identità. Ed è proprio osservando questo dossier che dedico qui un pensiero ai pensieri degli altri su Gigi Covatta.
La prima (come mi ha detto Claudio Signorile cogliendo le prime cose scritte a caldo) è che “se ne sta andando una generazione”. E che per la reputazione, magari silenziosa ma diffusa, negli ambiti culturali, intellettuali, mediatici, attorno alla sua vita, questa volta i segnali sono stati più rilevanti di altre volte. Marco Boato si distingue nei commenti per cogliere il segmento della vera formazione di quella generazione, gli anni della politica universitaria: “Mi sono dilungato su questo aspetto originario dell’impegno di Covatta, perché questo periodo – pur nelle commosse rievocazioni della sua figura umana e del suo itinerario politico-culturale – non è stato ricordato quasi da nessuno, forse anche per motivi di ricambio generazionale”. A quella stessa storia si ispira Giancarlo Bosetti non lesinando sulle “animosità” di quelle vicende ma anche riferendo “la cultura e la passione” che caratterizzavano la qualità della persona. A cornice di questa rassegna, il tema è ripreso anche da Gennaro Acquaviva: “C’è per intero anche la storia di una generazione che è stata classe dirigente, nella politica e nelle istituzioni. E il rilievo che il Senato della Repubblica ha voluto dare all’evento conforta per il riconoscimento istituzionale oggettivo che questo Paese ci segnala rispetto a quella storia”.
La seconda è che – dopo la scomparsa di Gianni De Michelis – quella di Gigi Covatta segnala anche ai più periferici (per età, per generazione, per sensibilità, per mancanza di informazioni) elementi di una vera storia di quella generazione. E cioè che se ne vanno alcuni che appaiono come prototipi del miglior rapporto tra politica, conoscenza, cultura e senso critico come se ne vedono ormai pochi in campo oggi. Cosa che fa una certa impressione, concede magari ora gli onori delle armi. E in ogni caso determina un confronto che non dovrebbe servire tanto per la nostalgia che promuove, ma magari per uno scatto di reni delle nuove generazioni. Paolo Franchi sul Corriere ha scritto che l’impegno editoriale di Gigi di questi anni costituisce tra l’altro “una miniera per chi volesse davvero indagare sine ira ac studio sulla morte del più antico partito politico italiano”. Carmine Pinto sul Mattino (giornale caro a Gigi) ha fatto sintesi della resistenza intellettuale di Gigi negli ultimi anni: “Era tra quelli che non accettavano una sinistra stretta tra il populismo dell’antipolitica e il progressismo radicale. Insomma, Covatta restò fino all’ultimo un eretico, coraggioso e libertario menscevico italiano”. Enrico Morando – ricordando una fitta tessitura negli anni nel quadro di LibertàEguale (insieme a Claudia Mancina) – aggiunge alcuni tratti: “Aperto all’innovazione, aborriva il nuovismo: pensava che il cambiamento necessario al Paese e alla nostra “parte” potesse realizzarsi solo nutrendosi a profonde radici di cultura politica. Pronto a dimostrare che c’era più promessa di futuro nel Turati di “Rifare l’Italia“ e nel Di Vittorio del “Piano del lavoro“, di quanto se ne potesse trovare nelle nuove e luccicanti versioni del populismo massimalista di sinistra”. Valdo Spini – riferendosi alle vicende del PSI in auge – ricorda che “Luigi Covatta rappresentava una coscienza al tempo stesso critica e costruttiva”. Ernesto Galli della Loggia apre il suo commento sul Corriere scrivendo: “Non guardava certo a se stesso come a un reduce, ma semmai, sospetto, come a un Don Chisciotte”. Ampia la ricostruzione della formazione e del percorso di Gigi che fa Fabrizio Cicchitto, trovando anche lo spunto per un’annotazione personale: “Luigi è stata la persona più scontrosa e introversa che ho conosciuto. Qualche volta l’ho visto sorridere, quasi mai ridere. Però tutta la sua conversazione era sempre sul filo dell’ironia e dell’autoironia”.
La terza riguarda il rapporto tra cattolici e socialisti. Materia poco indagata, con pochi lavori di scavo importanti. Perché a un certo punto marginalizzata dalla meteora del rapporto tra cattolici e comunisti (pur naufragata dopo il caso Moro) e comunque perché tra i socialisti era prevalso un certo laicismo e tra i cattolici era prevalsa diffidenza per i socialisti. Eppure le storie degli anni ‘60’ che segnarono la creazione del primo centro-sinistra (negoziato da Nenni e Fanfani) vengono oggi considerate quelle di maggior spessore riformatore del dopoguerra (“una delle forme più evolute della nostra civiltà politica” ha scritto Marco Follini). E quelle degli anni ’70 (che per esempio portarono un ambito delle Acli guidato da un suo leader come Livio Labor, insieme a figure come Gennaro Acquaviva e Luigi Covatta ma anche fiancheggiato da personalità come Pierre Carniti leader della Cisl a scegliere l’interlocuzione con i socialisti e non i comunisti), che ridussero quel laicismo e ridussero quelle diffidenze. Formando un’area della nuova classe dirigente capace di capire meglio l’Italia profonda. Tanto che Covatta trovò il suo spazio al partito, al governo, in parlamento per l’apprezzamento della sua intelligenza, non perché era un signore delle tessere. Paolo Pombeni ha ricordato che questa radice corrisponde “alla riscoperta post 1945 della possibiltà/dovere di creare un’Italia diversa”. Le ACLI hanno ricordato la scomparsa di Gigi Covatta con un lungo commento che contiene in poche righe tutta questa storia: “Le ACLI gli avevano insegnato cose che non ha mai scordato: bisogna unire il pensiero all’azione, le idee all’operosità sociale; bisogna stare con il popolo senza dimenticare la cura per le istituzioni e stare nelle istituzioni senza dimenticare la cura del popolo. E, in ogni caso, bisogna tenere la schiena dritta. Gigi Covatta ce l’ha messa tutta per rispettare un mandato che le ACLI gli avevano affidato tanti anni fa”.
La quarta riguarda – sulla scia dell’ultima considerazione – l’emergere di politici in grado di avere un pensiero di rinnovamento in campo culturale senza mai perdere di vista il ruolo sociale determinante dell’educazione. Il contributo di Covatta (anche per un tratto di operosità che ricorda Giuliano Cazzola: “Covatta stava sempre sul pezzo”) fu rilevante al governo e al partito. E la dimostrazione del superamento degli steccati fu la sua convergenza con Claudio Martelli che rappresentava un laboratorio di riforme e di proposte di cui avevano invidia anche comunisti e democristiani pur essendo tra i due diversa la radice formativa (uno laico-repubblicana, l’altro cattolica-sociale). E Claudio Martelli, nel suo testo, ha segnalato il ritratto generazionale di un cammino comune: “Un intellettuale politico e un politico intellettuale con quel tratto esistenzialista e trasandato dei ragazzi degli anni sessanta, impastati di ideali e di passioni, di riunioni, letture, dibattiti, convivialità e sigarette per i quali la politica era una cosa tremendamente seria, vera, un dovere e una lotta”. E all’azione di governo si riferisce anche Bruno Zanardi ricordando che “Luigi Covatta è stato uno dei pochissimi ad avere realizzato ai Beni Culturali un’azione di tutela che avesse un senso”.
La quinta riguarda la mirabile esperienza di Mondoperaio, con il rischio di tener in vita un soggetto con gli occhi voltati al passato ma con sterile potenziale sulle condizioni della realtà. Cesare Pinelli, suo condirettore, evoca la dote principale: “Sfruttava così al meglio le risorse di cui disponeva, che non consistevano di truppe o di soldi, ma della capacità di sviluppare e diffondere una politica ragionata, composta di argomenti anziché di buone intenzioni o di chiacchiere”. La direzione di Gigi Covatta per questi ultimi dodici anni (a cui ho partecipato con fraternità) è stata di realismo selettivo, venato da ironia e reattività al peggio del presente. Ma anche elaborativo, grazie alla rete di chi ha risposto alla sua chiamata con ampia competenza, professionalità e visione per non far mancare mai quello che era stato in 70 anni il frutto migliore di quella pianta: argomenti per il rinnovamento, la modernizzazione, il governo del cambiamento. La Redazione della rivista nel testo di congedo, pubblicato nel n.4 di aprile, ricorda la chiave di quell’esperienza: “bisognava essere generosi nella ricerca e aperti, pronti ad accogliere una quantità di opinioni diverse”. Motivo per cui Mondoperaio – a rileggere le annate della “copertina rossa” – appare come una delle ultime riviste di cultura politica vitale e su carta, che ricorda e discute della trasformazione teorica della sinistra e del riformismo (a larghe intese) ma anche delle condizioni per governare società, economia, lavoro e questioni istituzionali. Che poi il grado di lettura fosse sceso nel ceto politico da cento a venti, non era colpa né di Covatta né di quella generosa redazione. Argomento questo che ritorna ampiamente nei commenti attorno alla sua scomparsa e che costituisce un nodo sfidante per chi vorrà continuare questa esperienza. Umberto Ranieri rilegge la “difesa, dopo il crollo del Psi, della storia del socialismo italiana fatta con più fierezza e intelligenza”. Zeffiro Ciuffoletti lo ricorda per “la coerenza di valori con cui annusava a distanza il dogmatismo e il massimalismo”. Giuliano Amato, la figura forse più significativa tra coloro che hanno risposto a quella chiamata (e che faceva ponte con il gruppo progettuale storico della rivista degli anni sessanta e settanta a cui pure apparteneva) ha espresso, nel suo necrologio, “l’affetto e la gratitudine a chi ha lavorato sino al suo ultimo giorno per tenere vivi i valori e la cultura che ci univano”.
La sesta riguarda il pluralismo delle commemorazioni che il Senato ha voluto riservare al senatore Covatta (per tre legislature, dopo una legislatura alla Camera). In tutti gli ordini dell’aula – da sinistra al centrodestra (Maria Elisabetta Casellati, Gianni Pittella, Gianclaudio Bressa, Riccardo Nencini, Vasco Errani, Stefania Craxi, Ugo Grassi) – si sono alzate voci di rispetto, talune di grande e sofferta amicizia, in ogni caso di accoglienza istituzionale di una storia vissuta nella generosità verso gli interessi collettivi. La sintesi della presidente del Senato è stata: “Intellettuale di carisma, sensibile e generoso, sempre schierato al fianco dei lavoratori. Un politico appassionato con una fede incrollabile nelle proprie idee ma sempre pronto al confronto e alla dialettica costruttiva nell’interesse dei cittadini e nel rispetto delle ragioni di tutti”. La fertilità del dialogo politico e culturale che il suo operato mostra è stata ricondotta da tutti gli oratori della commemorazione al carattere intrinseco di un’opzione politica precisa, che ancora la Redazione di Mondoperaio nel suo citato congedo identifica “nell’assenza di pregiudizio attraverso cui Gigi esprimeva il meglio del riformismo socialista”.
La settima riguarda la fiducia nella fertilizzazione della lunga recente esperienza di Gigi. Chi ne legge fragilità, chi ne avverte la fascinazione. Un dibattito che va comunque aperto. Gli esiti di questa esperienza possono ritrovarsi nel futuro. Tanto che Giulio Sapelli dedicando un ritratto senza fronzoli all’amico compianto (al contrario di Giampiero Mughini che “con la morte nel cuore piange l’amico ma considera inani i tentativi compiuti”) ha scritto: “La sua è stata una via riformista (“menscevica” sino in fondo, per questo ingrata e durissima). La rivista Mondoperaio è una delle ultime frontiere: forse l’ultima che bisognava e bisogna ogni giorno costruire e ricostruire nella ricerca sia sulle trasformazioni capitalistiche in corso in Italia e nel mondo, sia delle forme di resistenza morale e intellettuale, nel prepararsi ad affrontare prima che la nuova via del socialismo ritorni a riaprirsi per coloro che nel socialismo umanitario non hanno perduto la fede”. Il tema è ripreso nel contributo di Tommaso Nannicini: “In Gigi l’apertura al nuovo e ai giovani non era né nuovismo né giovanilismo. Delle nuove esperienze vedeva con lucidità tutti i limiti, spesso molto simili a quelli delle vecchie, nella sostanza se non nella forma: il velleitarismo, le ambizioni mal riposte, i personalismi, i passi falsi. Ma quei limiti non erano mai — come capita a tanti — l’alibi per dire a un giovane: lascia perdere la politica. Come se non possa più esserci la politica dopo di te, dopo quella che hai conosciuto, che hai fatto tu e che, pur con tutte le cicatrici che ti ha lasciato, ti ha reso felice”. Per poter concludere come scrive con affetto Alberto Benzoni: “lo stato di cose presente apparirà, improvvisamente, intollerabile, così da aprire la porta ad un futuro in cui il nostro Gigi si ritroverà finalmente a suo agio”. Per la ragione semplice che ricorda Mario Raffaelli: “Perché penso che non sia possibile che tutto ciò che una persona ha fatto nella vita, ciò che ha pensato, detto, trasmesso possa finire semplicemente nel nulla”. E ancora per la constatazione, altrettanto semplice, di Mimmo Cacopardo: “Chi l’ha conosciuto non lo dimenticherà. Come non potrà tralasciarlo chi scriverà di storia repubblicana”.
Al dossier confezionato sui quattro primi giorni di commenti è stato posto in incipit un brano semplice di un editoriale di Gigi dell’agosto dello scorso anno, scritto in occasione della scomparsa di Sergio Zavoli. Che contiene la cifra del pragmatismo operoso e coraggioso dell’esperienza editoriale e culturale svolta ormai controcorrente da Covatta e dalla sua vivacissima banda: “Un anno Sergio volle darmi una mano in campagna elettorale: senonché, come talvolta capita, trovammo la piazza vuota. Ovviamente volevo annullare la manifestazione: ma lui mi convinse a salire comunque sul palco. “L’importante è la qualità di quello che hai da dire, non la quantità di quelli che ti ascoltano” mi disse: e forse anche per questo dieci anni fa non mi mancarono il suo incoraggiamento e il suo sostegno quando ripresi le pubblicazioni di Mondoperaio”.
Un modo di Gigi di concludere gli editoriali – per sbarazzarsi del problema di dettagliare storie fastidiose, per altro note ai lettori – era di scrivere “sappiamo tutti come è andata a finire”. Chissà che questa volta il finale di una lunga traiettoria che stava a cuore a lui, a molti di noi, probabilmente in minor solitudine rispetto al nostro vissuto, potrebbe prendere un’altra piega. Un giorno un ragazzo intelligente, mettendo ordine in carte aperte ad interrogativi, potrebbe anche leggere nessi con la storia ancora da scrivere.
Gigi ne sarebbe stato felice. Grazie, Stefano, per questo bellissimo necrologio
Cara Simona leggo ora il tuo commento. la cosa più confortante di tutta questa triste vicenda. Grazie per il tuo riscontro. Affettuosamente.