Articolo pubblicato sulla rivista Mondoperaio n. 2/2021
In parte è ancora la storia dei torti e delle ragioni ideologiche, come allora. Ma i contributi migliori servono a capire chi vedeva meglio o peggio la trasformazione in atto.
Stefano Rolando
Al XVII° congresso nazionale del Partito Socialista Italiano, tenutosi a Livorno dal 15 al 21 gennaio del 1921, le tre forze in campo costituivano la reale tripartizione delle forme ideologiche e delle prassi politiche in cui il ‘900 ha visto evolversi e cambiare, nella parte finale dell’800, il pensiero emancipatorio e l’ideale di giustizia di un vasto ambito sociale. Quel movimento internazionale del lavoro e dei diritti dei più sfruttati e dei meno legittimati (donne e uomini, operai e contadini, precari e anziani) che aveva una narrativa molto ben simbolizzata nel famoso affresco di Pelizza da Volpedo. Una narrativa poi scompaginata dalla guerra, dalla crescita di violenze, dal passaggio dell’economia industriale non verso il sogno del positivismo trasformatore ma nel senso della produzione di guerra e in condizioni più drammatiche. E soprattutto scompaginata dalla rivoluzione bolscevica che faceva della Russia, senza storia né borghese né democratica, l’incubatore di un comunismo che Marx pensava possibile caso mai nell’Inghilterra evoluta o nella Germania, ma certo non nel paese del “dispotismo orientale”.
Quell’affresco di un popolo che marcia fiducioso, fermo e tranquillo verso il cambiamento positivo del ‘900 era, all’inizio degli anni ’20, un brandello ridotto al 10/15% della tela, ancora guidato dal fondatore Filippo Turati e da figure rispettate come Claudio Treves. Una corrente chiamata “concentrazionista”.
Il grosso (più del 50% dei consensi interni al PSI) era formato dai “massimalisti”, guidati da Giacinto Menotti Serrati, già contro l’intervento in guerra, già sensibili al ribellismo, poi terra feconda per gli annunci comunisti, che volevano una forte accelerazione dei processi non fidandosi della collaborazione con le forze liberali e borghesi. Mussolini ne era stato esponente focoso, poi passato all’interventismo, quindi espulso. E interprete, nello scontro della sinistra addirittura contro i reduci, dell’intuizione di un “socialismo nazionale” che crescerà rapidamente verso il “nazionalismo fascista” e che sarà anni dopo il modello di analogo processo in Germania con il “nazional-socialismo”.
Una forza attorno al 35% delle deleghe era quella dichiaratamente “comunista”, con a capo il napoletano Amedeo Bordiga, attaccato al telegrafo con Mosca (capitale dal 1918) durante il congresso, con l’ordine di premere sui massimalisti per ottenere l’espulsione dei riformisti e impadronirsi del partito. Sarà Serrati a opporsi, pur nemico politico di Turati (il quale continuava a non capire cosa significasse in concreto “tutto subito”), cioè a non ritenere possibile estirpare dal socialismo italiano il suo fondatore.
Il “piano B” di Lenin fu allora quello della scissione, rispetto a cui a nulla valse la perorazione dello stesso Turati che il “faremo come in Russia” invocato dai comunisti avrebbe compattato la borghesia italiana (grande e piccola, agraria e industriale) a mettere al riparo economia e proprietà con chi al momento si presentava con un piano di ordine, cioè il fascismo. Tutto il resto del congresso (a parte Matteotti) non colse questo punto del dibattito. La passione politica era nel ’21 quella che resterà per anni nel dibattito interno a tutte le varianti della parola sinistra: dai socialdemocratici ai rivoluzionari, dai democratici ai brigatisti (per stare all’album di famiglia di Rossana Rossanda). L’ossessione della verità (“pravda” in russo) e dell’errore, l’eccitazione per la colpa e per la purezza, l’attaccamento alla regola ideologica ovvero al diritto alla revisione.
Sotto la parola “unitevi”, prevale la scissione

Eccola, sfuocata e nebbiosa, la fotografia storica della sala del Teatro Goldoni di Livorno, sovrastata, come una chiesa dall’immagine di Marx al posto di Dio con la scritta “Proletari di tutti i paesi unitevi”.
Era la scenografia dei socialisti, non ancora quella dei comunisti. Disposti alla più dura disunione per affermare l’interpretazione autentica oppure l’interpretazione revisionata di quel motto.
Si sa come andò a finire, si sa come il ‘900 manterrà le tre trincee di quel congresso su strade diverse, caso mai unite tatticamente negli anni ’30 e ’40 dall’avvento del fascismo e dal nazismo. Ma sempre con sospetti, scontri, visioni alternative e soprattutto con una passione prevalente a discutere attorno a questa disputa piuttosto che per esaminare, con strumenti via via nuovi, i dati e i cambiamenti della realtà.
Tanto che – condividendo la lotta antifascista ma non la priorità assoluta di queste dispute – si formerà in Italia (e in Europa) “un’altra sinistra”, come la chiamava Piero Gobetti.
Che da, principi non irriducibilmente marxisti (a loro volta liberali, radicali, mazziniani, repubblicani e anche per una costola socialisti), andavano formando visione e gruppi dirigenti concentrati anche su altro. Per esempio ciò che a Livorno nel ’21 non consentiva neppure di alzare un ciglio, tentare una valutazione. Ovvero le dinamiche interne alla società borghese; le correnti e a un certo punto anche gli scontri in seno agli orientamenti liberali. Un’attenzione a cui prendeva parte anche un settore in evoluzione del pensiero cattolico (con Luigi Sturzo) e che l’esperienza dell’antifascismo, vissuto in condizioni di esuli (soprattutto in Francia), provò a promuovere con una certa efficacia. L’efficacia per esempio con cui si diede vita a Giustizia e Libertà (i fratelli Rosselli e altri come Lussu e Tarchiani) con 30 mila aderenti militarizzati, reputati per coraggio e dedizione, che agivano in frequente sinergia con le formazioni comuniste e socialiste ma distinguendo l’interpretazione del contesto e soprattutto delle prospettive. Esperienza che avrebbe dato vita con pluralità interna (pur se breve, dal 1942 al 1947) al Partito d’Azione.
I turatiani a Livorno avevano vissuto l’esperienza di prime forme di collaborazione con alcuni governi liberali. Mettendo così in campo una cultura di governo indispensabile per affrontare la complessità dei problemi dell’Italia che usciva dalla guerra. Ma il grosso dei socialisti del tempo considerava ciò una attitudine disprezzabile di “servi della borghesia”. Lo stesso Pietro Nenni, che usciva dalla focosa esperienza insurrezionale repubblicana e socialista della “settimana rossa” che caratterizzò la lotta politica in Romagna nel giugno del 1914, nel suo “Il Diciannovismo” scritto negli anni ’20 e poi ripubblicato nel 1960 – in cui racconta, in modo palpitante e analitico, le vicende dalla fine della guerra all’arrivo del fascismo concentrandosi nel difficilissimo anno in cui il dannunzianesimo a Fiume offre benzina alla crescita del fascismo avviando l’affossamento dell’area liberaldemocratica – non fa alcuna distinzione tra i governi del tempo. E chiama allo stesso modo Giolitti (liberale) e Nitti (radicale) “politici di polizia”, cioè coloro che, pur nelle note diversità, vollero nel loro governo i socialisti. Nitti, volendo difendere la democrazia, aveva modernizzato le forze dell’ordine (polizia e carabinieri) che erano sfasciate. Non pareva questo un buon motivo. Per il tempo, insomma, erano “tutti servi della borghesia”. Nenni avrà poi importanti evoluzioni di pensiero e di posizione, guidando alla fine nella più feconda trasformazione l’area riformista della sinistra e impegnandosi nella battaglia per le riforme come vicepresidente di un governo guidato da Aldo Moro che qualcuno, nella dirigenza socialista di quel tempo, ha considerato il “Giolitti italiano della seconda metà del Novecento”.
Il dibattito in corso
Nel seguire l’intenso dibattito di questo periodo sul centenario dell’evento, si sentono molte cose interessanti. Ma in uno spazio mediatico che si barcamena tra la ricostruzione storica (facilitata da ormai buone basi di analisi) e un presente che lascia nel vuoto la proiezione di quello stesso dibattito in un tempo in cui le parole “comunismo” e “socialismo” sono in Italia politicamente archiviate. Così che l’occhio va di necessità più al passato.
Sarà per questo o per una certa sindrome di continuità della drammatizzazione, anche questo dibattito vede largamente prevalere il giudizio – di comprensione o di rimprovero – per posizioni allora assunte all’interno dello scontro identitario. Assai meno evidenti sono le analisi attorno a chi vedeva chiara oppure non vedeva l’evoluzione del contesto sociale, politico ed economico nel secolo e quindi con lunghe proiezioni (fatta salva sempre la posizione di Turati e del suo “Rifare l’Italia” del tempo). E dunque si mostrava capace di discutere di sé (il socialismo), ma anche dei cattolici, dei liberali, dei radicali, della monarchia, della borghesia, del capitalismo eccetera, non nello schematismo d’obbligo ma nella distinzione di chi intende far politica.
In verità, Ezio Mauro e Claudio Martelli hanno dedicato accenni a questo risvolto, finendo per fare emergere qualcosa in più della mera rievocazione dei fatti del lontano ’21. Non voglio dar pagelle e mi limito solo a questo cenno perché vi si vede lo sforzo di guardare largo.
E’ evidente che, nascendo il Partito Comunista Italiano nel 1921, una certa parte dell’attuale discussione finisce per essere assorbita, più che dallo scenario tra classi sociali e opzioni della politica, dal rapporto tra autonomia e dipendenza di quel partito dall’internazionale comunista (e quindi da Mosca). Tema che resta dominante per discutere su come Togliatti liquidi la dirigenza fondatrice, poi su come tra Togliatti membro del Comintern per vent’anni e Gramsci dal 1926 fino alla morte nelle carceri fasciste, proprio sul tema dello stalinismo si esprimevano – ma anche si reprimevano – differenze importanti. Fino a proseguire nel tempo del berlinguerismo, per datare – per alcuni mai, per altri nel 1977 – lo sganciamento dei comunisti italiani dalla sfera della etero-direzione. Anche questo è un discorso importante. Non c’è dubbio. Che ha avuto in questo frangente contributi interessanti. Per il tratto post PCI, anche qui una sola citazione, all’apprezzato scritto di Claudio Petruccioli “Rendiconto”.
Ma più in generale anche questo dibattito viene spesso condotto per regolare conti, quelli storici e talvolta alcuni più attuali, in sostanza nello stesso spirito delle ragioni e delle colpe che animò Livorno. E forse proprio questa è la “celebrazione” di cui, in questo 2021, si sente più il bisogno. Quella di un autonomia di giudizio e di valutazione che faccia i conti con la trasformazione sociale, economica e politica reale del tempo che fu e di quello che viviamo, così da non dipendere né dalle ideologie di una volta né dalle loro razionalizzazioni posteriori.
Questa virtù di valutazione e autonomia di giudizio – che ha avuto fortuna in contesti anglosassoni più regolati dalle culture immanenti del protestantesimo – in Italia ha certamente i suoi protagonisti e i suoi eccellenti interpreti. Ma al momento di andare in scena non sempre vengono valorizzati adeguatamente. Anche per quel clima – tra horror vacui e cupio dissolvi – che Filippo Ceccarelli (Robinson, 16.1.2021) individua come dominante ancora molto la scena di una discussione che, dopo il 1989, chiedeva più interpreti che testimoni.