Articolo pubblicato sulla rivista Mondoperaio n. 5/2021 (1)
Stefano Rolando

Mondoperaio ha puntalmente scritto sul primo volume, anch’esso curato da Paolo Soddu, dedicato agli anni in cui Maccanico è stato segretario generale al Quirinale con Sandro Pertini Presidente (Con Pertini al Quirinale, 1978-1985 – prefazione di Eugenio Scalfari, Il Mulino, 2014)[2]. Ora il diario quotidiano, parimenti fitto e costante, riguarda i primi quattro anni della presidenza della Repubblica di Francesco Cossiga (Il tramonto della Repubblica dei partiti, 1985-1989 – prefazione di Sabino Cassese, Il Mulino, 2020) fino al compimento del governo De Mita e con la travagliata decisione da parte di Maccanico di assumere la presidenza di Mediobanca (e poi lasciarla per far parte del governo).
Il 1985 è uno spartiacque vero nella storia repubblicana italiana. Così come il 1995 lo sarà nella storia globale della rappresentazione del mondo (grazie all’avvento dell’era internet).
Apparentemente è un anno di continuità, governo Craxi prima e dopo. Apparentemente è un anno di scorrimento di sistema (la Repubblica dei partiti). Apparentemente è un anno caratterizzato dal rialzo di reputazione internazionale del Paese e da segnali di tenuta socio-economica (reddito, consumi, ascensori sociali). Nella sostanza l’ingresso nella seconda metà degli anni ’80 si misura con elementi di corrosione: a fine decennio – come intitola questo secondo libro – il quadro politico sarà minato, il ciclo subentrante sarà di tensione e declino esplicito, in quella seconda parte degli anni ‘80 si innescheranno processi internazionali che toglieranno di mezzo la guerra fredda e il sistema radicato delle alleanze. Il confronto politico interno, infine, verterà su sue impossibilità, sia quella di comporre il duello a sinistra in un riformismo progressista di tipo europeo; sia quella di mantenere una coalizione moderata in capo alla Democrazia Cristiana. Non a caso dal caso Moro al ripristino di reputazione delle nostre istituzioni la cornice sarà quella della presidenza Pertini, mentre la cornice delle turbolenze del settennato successivo sarà quella della presidenza Cossiga.
Nello scorrere – anzi nel leggere, riga per riga, nome per nome, relazione per relazione – il diario di Antonio Maccanico non si trova una lettura “di processo”. Né questa qui, fatta in estrema sintesi, né altre. L’autore di un’agenda quotidiana di memoria non è per lo più premuto da istanze interpretative. E’ sempre sui fatti quotidiani non sui processi di arco medio-lungo. Non è una critica alla “povertà” sociologica di questo scritto (a cui sopperiscono un po’ la prefazione e la perizia del curatore, con note apparentemente adagiate ai fatti, ma utili a capire anche il mutamento dei fatti). E’ un elemento strutturale di questo genere di letteratura d’archivio. Appassionante per alcuni versi, deludente per altri.
Insomma non saranno questi diari a rivelarci fino in fondo la chiave di pensiero analitico dell’autore. Ma saranno questi diari a dirci molto di una figura architrave del sistema di potere di quel ciclo storico.
Maccanico è un alto funzionario che, scalata la Camera dei Deputati e il Quirinale, trova un posizionamento originale e indispensabile che era stato di figure di alto rango funzionariale (istituzioni centrali, Ragioneria generale, Banca d’Italia, eccetera) del primo quarantennio sostanzialmente a riporto dell’egemonia democristiana. Antonio Maccanico si smarca da quella storia per ragioni di proprie appartenenze (filo-repubblicane), trova una modalità relazionale verticale nuova (tra la politica e l’amministrazione) e orizzontale (in un ampio spettro del quadro politico che comprende un po’ tutte le forze che contano).
E’ quotidianamente attratto dal coinvolgimento con il ceto politico tout court, ma sceglie anche quotidianamente il ruolo di tramite, non quello di essere soggetto di indirizzo. Suggerisce non propone. Pensando tuttavia di non solo di proporre ma anche di scegliere. Quindi accarezzando giorno per giorno anche la possibilità di trasferire alla sfera politica tutto il suo lungo apprendimento. Ma non facendolo mai fino in fondo, forse nemmeno da ministro, da membro di governi. Occuparsi di trama, di ordito, di controllo, di smussamento, di riporto, di incitamento, di ammorbidimento ha bisogno di caratteri molto speciali, apparentemente morbidi, nella sostanza molto tenaci. Maccanico occupa con sicura centralità un segmento di storia dei nostri istituti democratici avendo in parallelo della sua esperienza il modello che Giuliano Amato propone dall’inizio degli anni ‘80 (ma con la capacità, di Amato, di leggere anche con originalità lo spartito della politica e di interpretarlo quando serve) e lo riaffida poi – negli anni di egemonia del centrodestra – ad una figura come quella di Gianni Letta, ancora un altro livello – puramente relazionale – attorno alla “alta trama”.
Nella lettura di una montagna di annotazioni emergono tuttavia accenti che vanno colti.
Non esce veramente una passione per il paese, la società, il popolo (che certamente Maccanico aveva in sé stesso). L’impressione che avevano dato i diari degli anni della presidenza di Pertini di raccontare una sorta di “vera regia” sita nel segretariato generale, è lettura che si scontra con l’evidente monumentale differenza tra chi passa il tempo a pensare a paese&popolo e chi passa il tempo a doversi occupare della trama di uno stretto e limitato sistema elitario da tenere in continua tensione nell’interesse dell’istituzione servita.
In qualche modo questa distinzione va anche fatta rispetto agli anni della presidenza Cossiga.
A suo modo, nelle sue culture politiche e territoriali, Cossiga è un politico pieno, pur con tutti i personalismi che sono stati raccontati (come sono stati raccontati quelli di Pertini) che segue un rapporto con il pensiero, la parola, l’esternazione. Maccanico segue un altro film e le sue annotazioni vanno dietro a questo ordito. Che non rende necessario spiegare indirizzi, inclinazioni, piani, obiettivi. Perché è la nota in sé, nelle persone accuratamente menzionate ora per ora, nella relazionalità a tempo pieno, che si consuma il grosso della mission.
Ripeto, non è una annotazione che diminuisce la qualità di una persona, ma essa riduce il campo di giudizio allo strumento oggetto dell’indagine. Che i fatti puntuali dominino rispetto ai processi si coglie soprattutto in quei passaggi che chi li ha vissuto li ricorda con un “tonfo”, una brusca virata, un titolone in prima pagina. La caduta del governo Craxi, ad esempio. O la caduta del governo De Mita. Ebbene le pagine del diario di Maccanico non hanno bisogno di ricordare al suo autore quel che succede. Così che quel giorno l’agenda annota altro. E solo pagine dopo si scopre che la quinta teatrale è diventata tutt’altra cosa.
Può essere che strutturalmente questo genere “letterario “(il diario) provochi un egocentrismo narrativo.
Per forza: sempre uno è quello che chiama, vede, introduce, saluta, accompagna, riceve, congeda.
Anche se, nel caso di Antonio Maccanico, la superficie di questa tessitura è così ampia, così delicata, così concepita come una naturale professionalità, da toccare raramente corde compiaciute. Nel senso che il genere stesso è un genere autocompiaciuto. Che si presta ad essere compreso, non ricamato o strattonato.
Emerge anzi più di una volta un punto di domanda sulla propria efficacia. Occasioni di interventi in pubblico o di prolusioni accompagnate dal punto di domanda sul buon esisto o la buona accoglienza. Che valgono anche per i testi scritti per i presidenti e che essi devono indossare. Provocando le apprensioni – che chi ha scritto testi per persone importanti conosce – circa l’efficacia finale (cioè sui destinatari) di quel trasferimento.
In più nel secondo diario di Antonio Maccanico – diciamo un ciclo dopo, l’età che un poco avanza – ricorre anche la domanda a se stesso di percepire una forte crescita di reputazione (e quindi di utilità) nello schema che i diari raccontano nulla die sine linea. Ma la domanda viene spesso inesorabile: quanto durerà?
Tutto ciò detto ci sono disegni della politica che stanno a cuore all’autore e altri meno; ci sono figure che sono parte di ogni giornata, altre meno; ci sono obiettivi da perseguire per indole e convincimento, altri meno.
Nel diario di questi anni ci sono figure di interlocuzione assai frequente
Pertini è in dissolvimento e Cossiga in crescendo. Nel quadro specificatamente politico emergono: Giuliano Amato, Giorgio La Malfa, Spadolini, De Mita, Andreotti, Battaglia, Craxi, De Michelis, Visentini, Berlinguer, Forlani. Nel quadro della mediazione politico-istituzionale: Andrea Manzella, Fabiano Fabiani, Franco Piga, Giuseppe Carbone. Nell’ambito economico e del credito: Cuccia, Maranghi, Romiti, Prodi, Cingano, Rondelli, Ciampi, Braggiotti; ma anche Agnelli, Pirelli e De Benedetti. Nel sistema mediatico-culturale Scalfari, Agnes, De Rita; un po’ staccato Montanelli.
La tessitura laico-democratica è un sogno personale che tuttavia Maccanico vive come tutti i protagonisti di quella impossibile evoluzione: facendo e disfacendo, ogni volta perché c’è un interlocutore che si irrita di più, che alza la voce di più, che ha istanze identitarie più forti, eccetera (di solito il suolo del rompiscatole viene attribuito a Pannella)[3]. Craxi è rispettato, criticato e in certi passaggi anche in diretta condizione di verifica. Normalmente gli interlocutori frequenti sul fronte socialista sono Amato e De Michelis (non tanto Martelli di cui è segnalato talvolta un posizionamento impreciso, per esempio su questioni economiche). Rispetto alle interlocuzioni riservate nella quotidianità non ci sono barriere rispetto a quelle dei vertici comunisti.
La presidenza Cossiga è vissuta come una preoccupazione. Perché è esplicita (ed è forte su di lui quella del suo concittadino De Mita e dei suoi relatori, cioè Fabiani, Misasi, Gargani) la pressione circa la sorveglianza sul Presidente finalizzata a fargli compiere l’estromissione di Craxi da Palazzo Chigi. Argomento che Cossiga vive con noncuranza e che lo stesso Maccanico coglie poco dal punto di vista procedurale. Ma quando nasce la questione di un’altra pressione – che viene dal sistema economico-industriale – di portare Maccanico alla successione di Cuccia, la questione della necessità (per la DC e i repubblicani soprattutto) che Maccanico conservi invece la sua posizione al Quirinale domina l’agenda.
La battaglia interna repubblicana ha un posto nei diari. Le intemperanze di Spadolini e di Giorgio La Malfa sono mitigate dalla considerazione del loro valore personale, così che le preferenze sembrano piuttosto andare per i caratteri stabili come quelli di Battaglia o persino di Visentini.
Anche con i socialisti la molla a capire e non capire tensioni e nervosismi (proprio nella fase finale del governo Craxi) appaiono con un andamento che, per natura, preferirebbe convivere con il sangue freddo di Andreotti e Forlani o con i caratteri quieti e allusivi di certa dirigenza comunista, a parte il ruolo istituzionale di Nilde Iotti.
Ma la maschera di una certa bonomia e una disponibilità larga all’ascolto ne fa comunque una personalità “indispensabile”. Di questo, il diario di Maccanico è al tempo stesso cosciente anche se ciò non impedisce – qui e là – il ritorno della stessa questione: fino a quando?
Si staglia l’amicizia con Romilda Bollati di Saint Pierre (moglie di Bisaglia), certamente l’affetto per la moglie Marina (ma anche la segnalazione di incomprensioni), ruolo non primario di figure femminili della Repubblica, come Suni Agnelli, Domietta Del Drago, Sandra Verusio.
La prefazione di Sabino Cassese periodizza, interiorizza, schematizza.
Coglie la definizione di sé “politico dilettante”. Coglie “lo spaccato di istituzioni pubbliche e private inteso come un mondo in briciole”. Soprattutto coglie “il contrario dei tanto favoleggiati poteri forti o della sempre evocata stanza dei bottoni”. Ecco il fattore che fa la differenza con il primo diario.
Essendo lo stesso Cassese avellinese, questa radice di provenienza è naturalmente sottolineata, in un certo senso come “fattore di equilibrio”, così come sente la pervasione di “un illuministico desiderio di vedere funzionare meglio ll macchina dello Stato”. E infine segnala la “versatilità” dell’autore, al di là della dominante dei diari, “il passaparola”, che si esprime nella capacità di cambiare quattro volte in poco tempo ruoli che altri hanno svolto linearmente e monotematicamente per tutta la vita: l’alto funzionario, il crocevia istituzionale, il presidente di banca, il politico e ministro. E infine – in evidente condivisione con un carattere del tempo che risultò decisivo nell’esperienza di Giuliano Amato – il ruolo di shockabsorber ovvero di troubleshooter della prima Repubblica, ovverosia di “solutore”. Un esito che si legge in filigrana ma facendo qualche sforzo in più rispetto alle compilazioni degli appuntamenti. Da ultimo, nelle parole di Cassese, il giudizio lapidario sul rapporto con Cossiga, che ”ne aveva bisogno ma non lo voleva”.
[1] Con il titolo “Maccanico. Il tramonto della Repubblica”.
[2] Stefano Rolando, Mondoperaio – n. 1 / gennaio 2015 – Simboli e poteri. ”Con Pertini al Quirinale”, i diari di Antonio Maccanico – http://www.andreac223.sg-host.com/index.php?option=com_content&view=article&id=1415:simboli-e-poteri-i-diari-di-maccanico-qcon-pertini-al-quirinaleq-mondoperaio-1-2015&catid=39:testi&Itemid=63
[3] L’argomento fu al centro di un’intervista a Antonio Maccanico che chi scrive ebbe nel 2011, pubblicata da Mondoperaio, nel quadro di un ciclo di colloqui sul 150° dell’unità d’Italia. Mondoperaio n.1/gennaio 2011 – 150° a prova di unità/3 Colloquio con Antonio Maccanico – Manca la percezione del destino comune.