Wembley, Wimbledon, Cannes. Tre spunti e una metafora.
Stefano Rolando
Articolo pubblicato sul giornale online L’Indro il 12.7.2021
L’11 luglio resta una data da ricordare nei rapporti reputazionali tra l’Italia e la sua Europa.
Parliamo di un’Italia creativa e laboriosa che convive con un’Italia smarrita e un po’ lagnosa che ha subito, come tutto il mondo del resto, la violenza dell’epidemia e i suoi riflessi socio-economici e psicologici.
Parliamo di un’Italia dedita alle performances, che tendenzialmente – per creatività, governo degli eventi, reattività – è più robusta abitualmente dell’Italia del metodo, della crescita lineare, dei modelli organizzativi.
Ma parliamo anche di un paese moderno che risente – anche quando politica e istituzioni sono lontane da quelle performances – della sua condizione di “sistema Paese”. Quella per cui le cose per funzionare debbono andare di pari passo nella società, nella vita delle famiglie e dei territori, ma anche nell’economia, nel sistema di governo e nella sua capacità di migliorare norme e di ridurre ingiustizie.
“Sistema paese”, un vanto per alcune nazioni, anche europee (certamente UK, Germania, Francia e per alcuni versi anche Spagna), sul cui concetto l’Italia appare sempre un po’ ondivaga. Un giorno sì, un giorno no. Una volta era meglio, una volta era peggio. Insomma una materia opinabile, su cui per lo più ha pesato la frammentazione storica delle culture territoriali e una certa difficoltà di esprimere a fondo la formula dell’unità nella diversità.
Ebbene l’11 luglio è stato il giorno della sofferta ma anche meritata vittoria dell’Italia ai campionati europei di calcio (dopo 53 anni dal suo unico successo in questo confronto) disputato nel mitico anello di Wembley a Londra.
Ed è stato anche il giorno in un cui un giovanissimo ragazzo romano, Matteo Berrettini, ha messo il suo nome e quello dell’Italia nella finale dell’altrettanto mitico terreno di Wimbledon, sempre a Londra, su cui da vent’anni il trio Federer (svizzero), Nadal (spagnolo) e Djokovic (serbo) ha lasciato solo due occasionali spazi al britannico Andy Murray. Berrettini ha perso, ma con onore, con un primo set guadagnato, con la convinzione espressa anche dallo stesso Djokovic di vedere la stoffa di qualcuno che sa prenotare il futuro.
E nello stesso 11 luglio, in una vetrina di un’arte in cui gli italiani hanno storia da vendere, quella del Festival cinematografico di Cannes, il nostro Nanni Moretti, con un ‘opera che ha caratteri mesti rispetto allo stesso nostro Paese e certamente rispetto alla capitale, “Tre piani” tratto dal romanzo di Eshkol Nevo e interpretato da Margherita Buy e Riccardo Scamarcio, ha avuto undici minuti di applausi dopo la presentazione alla sua “prima”. La stampa parla di “grande sincerità nel leggere il presente” con un ritorno del cinema italiano a discutere delle infelicità e dei drammi per dir così “borghesi”, che è stato nel ‘900 un terreno di confronto forte tra cinema europeo e cinema americano, in cui l’Italia – tolti Antonioni e Germi – non ha dato tantissimi contributi.
Tre storie non fanno una storia, tre occasioni di una domenica di luglio non fanno i caratteri della “ripresa” di un Paese in lotta, come gli altri, per ridurre la tara della pandemia e trovare i percorsi espressivi, comunicativi, metaforici della via di uscita collettiva.
Ma leggendo i giornali di questo lunedì mattina queste tre storie appaiono anche tra paradigmi di un Paese che interagisce in Europa con più reputazione, ovvero con ritrovata reputazione.
Che non significa che Mario Draghi sia l’allenatore della squadra campione o lo sceneggiatore di un Moretti che rimette in campo la sua introversione critica.
Significa che le ragioni per parlare con i linguaggi di un certo modo di fare impresa (lo sport e il cinema lo sono senza dubbio) hanno bisogno di una cornice di credibilità. Quella che questo 2021 ci segnala come un risultato non confutabile del rapporto tra l’Italia e l’europeismo.
Nel riconoscimento di credibilità c’è il lavoro di chi compete in Europa accettando quel metodo, quel rigore e quella pazienza organizzativa per la quale l’Europa ha finito per assicurare pace e prosperità a paesi dilaniati da secoli di guerre intestine.
Ed era – questa volta – la ragione per cui gli inglesi non meritavano di vincere un “campionato europeo”.
Ma creando, anche in quella leale disputa all’ultimo rigore di Wembley, gli argomenti per cui i giovani britannici, che sanno che la Brexit li punisce, troveranno la forza di motivare le nuove generazioni tornando così alla legittima aspirazione di vincere un campionato “europeo”.