Milano, prove di ritorno alla normalità

Per una conta – che ancora non scalda i cuori – tra il centrosinistra in campo  e il centrodestra rimasto a lungo negli spogliatoi

Articolo scritto ai primi di giugno e pubblicato sul n. 7/8 (luglio e agosto) della rivista Mondoperaio, diretta d Cesare Pinelli, nel quadro di analisi delle principali città italiane al voto per le amministrative in autunno.

Stefano Rolando

Milano (2 giugno 2021) – Uno sguardo esterno, impercettibilmente “straniero”, quello lanciato per questa volta da un milanese, in un weekend di fine maggio affrancato finalmente da nuvole e pioggia, ad una Milano senza indugi nel “liberi tutti” in qualche modo decretato dal governo con il consenso di regioni, territori e città. Un milanese riparato infatti a Roma nella lunga penombra dei due lockdown intervallati da un’estate sfrenatella (quella del 2020) che alla fine ha peggiorato le cose senza restituire all’economia che poche illusioni. Per Milano un anno livido e pesante.

Il “liberi tutti” in questa occasione non appare sfrenato, come una movida di massa che si mostri beffarda davanti a divieti e imposizioni.  E’ piuttosto un rispettare la logica dei piccoli gruppi (tanti, tantissimi). E’ il diffuso abbassare a lungo la mascherina nei dehors di caffè e ristoranti e tenerla distrattamente in disuso anche dopo la consumazione.  E’ il non curarsi del dettaglio del coprifuoco perché l’intesa sui limiti lunghi non è scritta ma è generalizzata. 

Dico alla collega di università che mi fa notare tutto questo che la vicenda del Mottarone dovrebbe incunearsi con un bel punto di domanda in questo panorama ricreativo. La ripresa nel segno del “tutto comeprima” è nel caso contraddetta violentemente. Per guadagnare due giorni di biglietti staccati grazie alla bella stagione (finalmente) al Mottarone, tre tecnici fino ad ora stimati e considerati per bene, non hanno battuto ciglio a diventare per un minuto dei “criminali” (due per ora negano e quindi la parola va tra virgolette). Quel minuto in cui hanno considerato fuori registro e fuori obbligazioni i temi dell’adattamento alla crisi: le revisioni, i controlli, le manutenzioni, le precauzioni, i divieti. 

La vicenda mostra, insomma, che il lavoro sociale del post-pandemia deve ancora davvero cominciare. 

E che Milano – locomotiva delle ragioni dell’economia – deve spiegare come ha metabolizzato seriamente il tema della convivenza tra ripresa e adattamento. Uno spunto che sembra qui applicabile a tutto: scuole, spettacolo, eventi, commercio, ritorno degli studenti fuori sede, trasporto pubblico. 

E anche all’imminente campagna elettorale.

Uno solo in campo. Ma i dati ancora incerti.

Già. Di quest’ultima cosa dobbiamo parlare in questo breve reportage. Quella che oggi appare a sinistra come un fuoco di artificio di liste tematiche (all’insegna di una certa rappresentazione semplificata dei conflitti contenuti nella agenda nel mondo, dai generi all’ecologia, dall’integrazione alle generazioni e all’anti-Covid). Si chiameranno – in un clima diciamo così post-politico – Lista Salute, Lista Giovani professionisti, Lista Verdi, Liste Civiche (potrebbero essere la lista Sala 1, generata dall’esperienza ancora ispirata da Franco D’Alfonso e la lista Sala 2, allo stato profilata come “salto generazionale”). Poi ci sarannoanche Pd, Volt, lib-dem (circa 700 firme di cittadini sostengono l’ipotesi di un unico raggruppamento, ma non è detto che si compongano secolari distinzioni). 

Si prova a stemperare, nelle parole in campo, l’idea che la sinistra macini rancori o insoddisfazioni. Mentre la destra è ancora negli spogliatoi. A fare e disfare candidati, a guardare al passato. Per 25 anni, fino al 2011, aveva regnato infatti senza neanche un’ombra di contendibilità, ma ora esprime una evidente evaporazione di classe dirigente. Nel mese di giugno una soluzione si troverà (1).

Malgrado questo, ancora oggi, a quattro mesi dal voto, i dati sono considerati incerti. 

Il centrodestra mitologico (quello cioè che viene considerato la sicura farfalla alla fine dell’impresentabile crisalide) è ritenuto, da alcuni, addirittura potenzialmente vincente. Albertini aveva – si dice – chances di vincere, ma si è accontentato di stare un solo mese sulla scena. E niente più.  Mentre la narrativa corrente, che consente al sindaco in carica Beppe Sala di dire “più a destra perdono tempo, più è un vantaggio per le mie 8 liste”, premia ora l’unico candidato in campo, fatta eccezione per rappresentanti minori senza speranze ma non senza ambizioni, almeno di visibilità. 

Tra il clima delle passeggiatine liberatorie (Arcodellapace, Navigli, Brera, Vetra, Castello, eccetera) e il giorno delle urne aperte sembra ancora scorrere un tempo infinito. Sono solo 120 giorni, in verità, con in mezzo l’evento milanese per eccellenza degli ultimi venti anni – reduce dalla dolorosa sospensione del 2020 – quel Salone del Mobile che attira migliaia di operatori da tutto il mondo (e non meno di mille giornalisti anch’essi internazionali) che vengono ora a misurare come le tracce ormai lontane di Expo e le tracce vicine di Covid-19 mescolano la loro influenza attorno all’equazione che sollecita ormai il Salone a cambiare nome. Un’equazione che ha il suo brand da più di mezzo secolo nell’espressione Bello&Utile. Sarà dal 5 al 10 settembre – il lancio è sui giornali proprio in questi giorni – per la verità senza sentire il bisogno di un vocabolario rivoluzionario. Così che persino Repubblica apre la pagina di lancio con due logorati aggettivi: “Sarà inclusivo e sostenibile”. Vabbè. A spigolare per ora non c’è molto di più: “Tra i padiglioni anche musica dal vivo, spazi per il cibo e biglietto di ingresso low cost”. Dopo il successo dei Måneskin all’Eurovision di Rotterdam, l’Italia deve organizzare la nuova edizione. E a Milano la voglia di eventite non è tramontata e quindi la città si candida, con in pista debolmente anche Bologna e pesantemente anche Roma con dietro la Rai. 

Ma intanto, in questo fine settimana, Milano riprova il dolore degli addii sofferti ma addolciti dai ricordi, che fanno titolare i dorsi della cronaca urbana “Milano abbraccia la sua stella” (Corriere), “La ragazza del tram 1 che volò alla Scala” (Repubblica). La ragazza, la stella che si è spenta a 84 anni, è – come tutti sanno – Carla Fracci, sublime ed elegante protagonista della danza fino al mito.  Figlia di Luigi Fracci, tranviere milanese dell’ATM, socialista militante, che passando davanti alla Scala alla guida della linea 1, scampanellava tre volte per salutare la figlia giovanissima nei tempi dell’apprendimento. Paginate. 

Il dibattito ancora non decollato

Tutto così si integra – la libertà riconquistata, il commercio all’aperto, la memoria delle milanesità che contano, lo sdegno per il Mottarone, l’Armani di basket in semifinale europea (che perde) – nel clima di questi giorni, pur di lasciare, verrebbe da dire, la politica sottotraccia. 

Così da far domandare a vecchi amici e compagni di entusiasmi e delusioni: ma le elezioni le avete rinviate? Ovvero le date per scontate? Insomma non dico infiammare dibattiti, ma perché neanche qualche battuta colta ai tavolini dei caffè?

Le risposte sono quasi tutte uguali. Alla fine scontate, anche se oggi non è così evidente. Tanto che sarebbe meglio non pensarci neanche, firmiamo qui e buonanotte. Parlare di cosa? Non c’è un tema divaricante sul tavolo, ovvero non c’è un piano per un grande disegno contro un altro piano per un altro disegno. Eppure al sindaco uscente, Beppe Sala, la complessità del momento non sfugge. Ristrutturare, riprogettare, rigenerare. Ha detto: “Il virus ha occupato la testa dei milanesi e dovremo essere bravi a cambiare velocemente le nostre attitudini sociali e il nostro approccio al lavoro, ciò che ha rappresentato insomma le chiavi del recente successo”. Per trasformare la percezione in un motore, serve – oltre ad un ascolto intenso e razionale dei cambiamenti – anche la dinamica partecipativa della “riprogettazione”. E per dir la verità, allo stato – questa è la voce diffusa in città – la politica stessa è tramortita. 

Nel 2011 si ballava in piazza Duomo, tutti saltando per Giuliano Pisapia al ritmo di Messico e nuvole, per chiudere la lunga stagione del berlusconismo e immaginando che la borghesia progressista (tra un tocco liberal e un tocco sessantottino) avrebbe ridestato partecipazione e rigenerazione. 

Nel 2016, quella borghesia aveva già fatto un passo indietro, a destra e sinistra era l’ora dei manager (maturati soprattutto nella P.A. e nelle istituzioni), con qualcosa persino di interscambiabile, ma con le bandiere issate della “Milano del fare” (primo copywriter Piero Bassetti).  

Quel fare – è meglio chiarirlo – non è stato finto. Ma ha evitato di sollevare e gestire dibattiti complessi (come fare la città metropolitana; quale disegno urbanistico immaginare attorno al riordino degli scali ferroviari; come costruire la sinergia industriale delle potenti aziende di servizio pubblico in un piano di nuovi investimenti nel patto pubblico-privato; come fare emergere il public engagement della maggiore azienda della città, cioè la rete delle università; eccetera). Una certa discussione sull’approccio all’urbanistica – che viene da lontano – resta aperta, rispetto a città che hanno mantenuto preferenzialedirigismo pubblico ma anche rispetto a città che hanno integralmente lasciato fare al mercato. Superata l’inevitabile regia pubblica degli anni della ricostruzione, Milano ha espresso flessibilità e approccio intermedio che ora, a fronte di grandi temi e grandi interessi in campo, può essere tema più conflittuale. Con l’aggiunta dell’ineludibile fattore “ambiente” che in questo campo ancora radicalizza.

Unica fonte adesso appare il sindaco stesso. Poche altre voci in campo. Svariati e un po’ occasionali gli spunti politici. Un giorno spunta l’idea di lustrare i vecchi argenti del riformismo socialista. Un altro giorno spunta l’idea di guidare il Pd alla milanese. Un terzo giorno quella di prendere le distanze dal Pd milanese e scegliere il non meglio identificato “soggetto verde europeo”. Pochi capiscono i sottintesi. E in questo ultimo caso il sottinteso potrebbe essere stato il patto con Grillo per rimettere al centro delle politiche pubbliche la “Green city” e la sostenibilità. Anticipando anche la linea di progettazione generale che l’Italia e l’Europa hanno poi imboccato. Ma Grillo alla fine è uscito di scena e la sostenibilità – per incanto – diventa parola di tutti e quindi di nessuno. 

Su tutto questo movimento di una “Milano a tratti” (che è il titolo di un libro-progetto scelto dal giovane capolista della lista civico-professionistica che Sala lancia al centro del suo “doppio poker”, l’apprezzato Emmanuel Conte, espressione della forte migrazione interna campana a Milano e figlio di un ministro socialista degli anni ’80 del rilievo di Carmelo Conte) sarebbe stato oggettivamente un’impresa miracolosa e difficilissima. Quella di ricucire tutto nel quadro del duro abbattersi della pandemia sulle sorti della città. E parimenti sulle sorti dell’Italia e del mondo. Una totalizzazione che ha fatto fare passi falsi un po’ a tutti e che ha spento a lungo il ruolo della politica, quella locale e quella nazionale. Come ben si sa, facendo perdere persino la possibilità di rimettere in linea a Roma una qualsiasi maggioranza razionalmente definibile nel quadro parlamentare. Intanto per l’eventuale Sala2 il sindaco ha in animo di congedare quasi tutta (ma un “congedato” del rilievo di Pierfrancesco Maran sarà lo stesso capolista del PD) la giunta della sua prima consiliatura. 

Fare e pensare

A valle di tutto ciò, si apre la corsa dei 120 giorni per portare i cittadini alle urne di un appuntamento elettorale che cadrebbe in un momento importantissimo della vita di Milano come di molte comunità: quello delle scelte per negoziare con il governo centrale e con l’Europa un vero piano strategico per la convivenza competitiva con i tempi lunghi della pandemia. E al tempo stesso per la seria riprogettazione di paradigmi che la pandemia ha obbligato a ripensare. 

In questo momento Milano (pur a conoscenza della cifra di 5 miliardi che il PNRR prevede per gli interessi soprattutto del sistema aziendale della città) non fa ancora la differenza rispetto ad una certa inerzialità delle città e dei territori. Rispetto al colpo di reni che il governo Draghi ha espresso per rendere credibile in Europa la proposta italiana senza avere dietro ancora l’intelligenza dei partiti, la volontà di futuro delle imprese, le scelte meditate delle città. 

Ma forse questa è la nebbiolina residua dei due o tre lockdown subiti. Che si vede appunto nei giorni del primo grande allentamento. Forse questa sensazione si manifesta soprattutto in alcuni soggetti che escono magari da vecchie battaglie, ormai poco pedagogiche per il presente. Forse tra poco lo sguardo ai temi che intitolano dossier rimasti un po’ elusi potrebbe riaccendere discussioni vere. Forse l’organizzazione in campo del centrodestra rilancerà una condizione competitiva che si è un po’ prolungata in forma autoreferenziale. 

Ma sì, va. Forse la “Milano a tratti” imboccherà la strada – come altre volte nelle storie che hanno fatto seguito a distruzioni, regressioni, rischi – di una adeguata declinazione tra il fare e il pensare.

Forse il diritto di parola tornerà ad abitare l’orgoglio delle generazioni che hanno scelto l’impegno pubblico e tornerà a riguardare gli ambiti di competenza dei centri produttivi (manifattura e conoscenza) che, nella loro voglia di mondo, puntano però a mantenere anche il senso e la vitalità delle radici. 

Alla fine dei funerali di Carla Fracci in San Marco, l’attuale maggiore étoile della Scala, Massimo Murru, ha detto anche metaforicamente: “Sul palco del teatro non si va per fare, ma per essere”.

(1) – Il 6 luglio la notizia della scelta di Luca Bernardo, pediatra del Fatebenefratelli a Milano, ha messo d’accordo tutti i partiti del centrodestra (ndr).

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