Pandemia, entra in scena l’ipotesi del controllo comunicativo istituzionale.

Riflessioni sul “realismo” del tema. Ma anche sull’inaccettabilità del paragone con la guerra. Criticando piuttosto l’inazione finora di un cruciale piano di “governo pubblico della spiegazione”.

Stefano Rolando

Sul giornale online L’Indro (29-11.2021)

https://lindro.it/pandemia-entra-in-scena-lipotesi-del-controllo-comunicativo-istituzionale/

E così anche nella famosa “prima serata televisiva” è arrivato il tema che l’andazzo mediatico di incrociare approccio scientifico e visibilità al negazionismo sta producendo alcuni cortocircuiti.

Tema che ricorre tra opinionisti da un pezzo. Ma è la prima volta che la questione diventa centrale nella discussione in uno dei talk show di prima serata tv, quelli in cui in un modo o nell’altro il doppio binario è stato finora un criterio editoriale. A volte magari sbilanciato sulle tesi istituzionali, ma mostrando poi in modo vistoso e colorato anche il carattere sommario e persino sgangherato del negazionismo e finendo così per dare basi emotive d’appoggio a riserve, dubbi, sentimenti di deprivazione delle libertà. Questione che esiste solo nei paesi in cui la costituzione e le prassi politiche sono ispirate alla democrazia liberale. Perché ovviamente i paesi regolati da dichiarato dirigismo hanno modelli di riferimento in cui vige la velina di Stato, o comunque vi è esperienza di subordine agli approcci censori.

Dunque “In onda”, sabato 27 novembre, sulla 7, condotta da David Parenzo e Conchita De Gregorio. L’attacco comincia dal virologo prof. Marco Bassetti che lamenta che le notizie rilevanti la comunità scientifica le apprende ormai prima dai media briffati da fonti internazionali o altre volte da lobbismo, così da non poter più esercitare una mediazione narrativa predisposta per tempo. Ma è l’ex presidente del Consiglio e senatore a vita Mario Monti a introdurre una cornice di ragionamento con una retorica deduttiva. Se siamo in guerra – dice, legittimando l’uso di una parola controversa in tutto il periodo della pandemia – dobbiamo prendere atto che i rischi individuali e collettivi sono fortemente aumentati. E che pertanto le regole di guerra devono essere applicate anche a ambiti che sollecitano opinioni, convincimenti e soprattutto comportamenti sociali.

Essendo il sistema dell’informazione e della comunicazione in prima linea dal primo giorno della pandemia, essendo un collante tra i soggetti narrativi in campo ed essendo cornice partecipativa di una grande parte dell’opinione pubblica, anch’esso deve entrare nelle logiche “di guerra”, adattando scelte giornalistiche e di impaginazione a questa crucialità.

Ma chi spetta questo controllo?

Nessuna indignazione preliminare nello studio. Ma immediata la domanda: ma a chi va in capo il controllo? Risposte al momento prudenti che tuttavia non si arrischiano di profilare istituzioni emergenziali di vigilanza. Immaginando che sia piuttosto un compito di governo, possibilmente esteso al quadro di governi alleati in un contesto definito (gli stati membri dell’Unione europea, per esempio). E sulla base di una stretta connessione con gli esponenti istituzionali della comunità scientifica. Quindi portando la gerarchia scientifica a farsi carico di accertamenti preventivi e soluzioni correttive, in parallelo con le funzioni già esercitate dal Comitato tecnico-scientifico che affianca le opzioni strategiche di governo. La conduzione della discussione – viste anche l’elaborazione del tutto preliminare della proposta – saggiamente non ha forzato né il gioco delle parti, né il passaggio ad una soglia di verosimile dispositivo.

Molti ascoltatori avranno così avuto il tempo di mettere a fuoco l’argomento in una fase di crescita della vistosità internazionale e nazionale di dubbio militante rispetto alle vaccinazioni e ai green pass. Ma al tempo stesso molti avranno anche sentito un fremito per la porzione di “sovranità individuale e professionale” (ad essa si è riferita l’ipotetica “cessione”) in un periodo in cui la situazione in Italia non è tra le più catastrofiche e in cui il governo è più affidabile che in altri tempi rispetto alla responsabilità non viziata da interessi elettoralistici o interessi di parte nella gestione della crisi.

Così che, nel riferire qui l’accaduto per ampliare la discussione pubblica sull’argomento, anch’io non vorrei partire da reazioni apodittiche. Accettando che si sia slatentizzato un tema che soprattutto non può procedere all’oscuro. E immaginando che, al di là della “sede giornalistica” di primo apprezzamento, proprio un governo che si richiama all’esprit républicain abbia il modo di svolgere un’istruttoria meditata assistita dalle culture sociali, giuridiche, comunicative e filosofiche necessarie perché non si creino né sovrapprezzi predicatori, né derive anarcoidi, né slavine censorie.

Proviamo a discuterne un po’.

A questa istruttoria sarà permesso fornire brevi spunti.

Prima osservazione. L’argomento posto è: se è una guerra, per il tempo di guerra non si regolamentano solo le vaccinazioni e i distanziamenti, ma si cerca di ridurre anche lo spazio di comunicare una cosa e il suo esatto contrario, di tener conto ma anche no dei vincoli scientifici, di mettere sullo stesso piano di audience la prescrizione e il diritto di delegittimarla. La mia proposta sarebbe quella di non considerare la crisi in atto, pur con tutta la sua gravità, come una “situazione di guerra”. Ovvero facendo entrare nel linguaggio popolare la denominazione di “stato di guerra”. Per quello che parola evoca.  Fatico ad omologare la parola “guerra”, che nel peso dell’immensa esperienza degli esseri umani rinvia alla legittimità di uccidere tra gli umani stessi. Essendo piuttosto una pandemia la base del riconoscimento di una condizione comune senza distinzioni di età, ceto, reddito. E quindi alla base di ipotesi solidali. Ed essendo proprio quell’immaginazione della “solidarietà” necessaria oggi per facilitare il trasferimento dei vaccini nei paesi più poveri del pianeta, in funzione della vita di tutti, noi vaccinati e altri non ancora vaccinati.

La seconda osservazione la derivo da un mio saggio che sta uscendo con Editoriale Scientifica e che sarà oggetto di una prossima discussione professionale al CNEL, in fondo su questi temi. Il titolo è “Comunicazione pubblica come teatro civile. Governare la spiegazione”. La questione è che non si può immaginare il campo di gioco dei media – nel loro posizionamento teso ad organizzare competitivamente ascolto – come l’unico player comunicativo di massa. L’ora della riorganizzazione efficace del “governo della spiegazione” – creando alleanze e sinergie importanti (scuola, università, servizi pubblici Rai compresa, eccetera) – non è rinviabile, non è riducibile alle pur serie e corrette conferenze stampa del premier, non è limitabile ad atti di accompagnamento di norme. Insomma, un piano di accompagnamento sociale del carattere comunicativo pubblico di una vicenda che ci ha dato 21 mesi di lezioni preparatorie è ora importante quanto il PNRR.

La terza osservazione è immaginare che la stessa attenzione partecipativa riguardi l’Europa che ormai sta adottando, nell’approccio alla crisi, lo stesso paradigma dei governi nazionali sotto elezioni:  dimostrarsi sorridenti e ottimisti; selezionare le notizie in ordine al potenziamento dell’immagine risolutrice e benefica dei flussi finanziari che la stessa UE adotta; trascurare quasi sempre le contraddizioni interne dei paesi,  l’inciampo sociale (come è quello delle migrazioni, come lo sono in generale i “conflitti”) considerato un campo del non dicibile. Perché si presume che attorno ad ogni conflitto – peggio se conclamato –  si spacchi il fragile europeismo di convenienza che regge fin qui una maggioranza di attese di beneficiari non di soggetti che condividono in modo maturo una sofferenza collettiva. Da tempo questo è il maggior limite della politica istituzionale europea. Far finta di niente, sui mal di pancia dei conflitti sociali.

Infine aggiungo la citazione che, leggendo un mio breve post che ha annunciato su FB questa notizia, l’amico Giovanni Pavone, imprenditore siciliano,  ha scritto attingendo a Umberto Galimberti: “Bisogna allargare l’orizzonte, espanderlo all’infinito, senza arrestare il continuo domandare in quella palude dell’ovvio, così massicciamente distribuito dai media affinché gli uomini non si interroghino troppo e, come pecore ben allineate, seguano senza inciampi i percorsi ben definiti che altri hanno approntato per loro“.

A me non spaventa un popolo che interroga. Mi spaventa che l’oracolo (oggi gestibile nella trasparenza bidirezionale della rete) abbia i battenti chiusi.

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