Versione in lingua italiana
Club di Venezia – 35° anno
Venezia, Palazzo Franchetti giovedi 2 dicembre 2021
Stefano Rolando
(Presidente del Club di Venezia)

Saluto tutti i partecipanti, amici e colleghi. Ringrazio chi ha lavorato al buon esito della conferenza. Un pensiero particolare va a Diana Agosti in un anno così difficile per lei.
Ringrazio il Sottosegretario di Stato Enzo Amendola, che torna a darci il suo competente contributo in un periodo in cui le relazioni tra Stati ed Europa sono veramente cruciali e rifondativi.
Non ho mai mancato all’appuntamento annuale a Venezia dal giorno della fondazione del Club.
35 anni è mezza vita. E infatti è la mia mezza vita. Considerato che i cicli comunicativi (soggetti, tecnologia, linguaggi, percezioni) non sono mai più lunghi di cinque anni (ormai anzi, tendono a essere di due/tre anni), possiamo dire che abbiamo tastato il polso alla comunicazione istituzionale europea, cercando di decifrare i cambiamenti maggiori, non meno di sette volte.
E’ stata una grande esperienza. Soprattutto perché libera, indipendente, informale.
Se non abbiamo capito la realtà, se non abbiamo detto la verità, è solo colpa nostra. Nessuno ci ha mai obbligato a selezionare le cose da dire e da discutere in base a interessi politici, economici o professionali.
Un clima di così grande libertà, costa qualcosa, ben inteso. Costa, per esempio, la decisione assunta fin dall’inizio di “non decidere”. Soprattutto di “non decidere” con le bandierine nazionali a designare se stare da una parte o dall’altra.
Per questo tutte le istituzioni europee – iniziate a tre, oggi a dieci, se si contano anche alcune agenzie tematiche – hanno avuto fiducia in noi, in questo tavolo informale ma non cieco o nemmeno così miope da non vedere e non segnalare criticità e rischi.
In un sistema molto disomogeneo e con evidenti gelosie nazionali (questa è ancora la comunicazione istituzionale in Europa) questa base informale ha avvicinato modelli organizzativi, ha mostrato esperienze da ampliare rispetto al loro cantiere iniziale, ha disegnato una mappa geo-culturale che non corrisponde esattamente agli stereotipi della geopolitica europea.
La sessione che si apre oggi è dedicata a questo 35° compleanno. Non è un compleanno importantissimo, ma nemmeno trascurabile. E nella vita delle persone corrisponde a un lungo, complesso percorso. Per qualcuno di noi, ancora a questo tavolo, e’ stata una inevitabile grande lezione.
Noi. E ciascuno di noi
Ho sempre parlato di “noi” a questo tavolo. E ho sempre fatto riferimento alla storia comune. Quella segnata dall’essere stati in guerra gli uni contro gli altri, una guerra in cui la comunicazione contò come la bomba atomica. E poi – a poco poco nel lungo dopoguerra – avere scelto la via dei principi irrinunciabili: mai più la guerra, cioè creare legami preliminari prioritari per essere intrecciati nei valori fondanti, nell’economia, nel mercato, nel rapporto tra diritti e doveri.
Permettetemi per qualche minuto di fare oggi una eccezione. Permettetemi – ma solo per pochissimo tempo – di parlare di me stesso. E parlando di me, anche di parlare di quegli amici e colleghi che, interloquendo tra la fine del 1985 e l’inizio del 1986, resero possibile passare dalla separazione senza dialogo (questo era stato dal 1945 al 1985 il rapporto reale tra i servizi di informazione comunicazione istituzionale europei) al confronto apprenditivo, spesso convergente, comunque emulativo. Ricordo giovani come me (per esempio il collega francese Joseph Daniel) e colleghi di una generazione più matura (come il direttore del COI Neville Taylor o il direttore del Bundespresseamt Franz Froschmaier, poi alla guida della DG10 della Commissione).
Nel ricordare quei primi tempi vorrei anche far riferimento (tra rappresentanti dei paesi fondatori) a Colette Flesch (lussemburghese), a Philippe Caroyez (belga), a cui vanno almeno aggiunti Hans Brunmayr (essenziale per radicare l’esperienza nel Consiglio UE) e Gerardo Mombelli (altrettanto essenziale nell’ambito della Commissione). E ancora Aurelio Sahagun Pool (spagnolo), Mike van den Berghe (belga) a Cristina Figueredo (portoghese).
Nessuno scaldava una sedia per avere un posto o uno stipendio.
La visione degli stessi processi comunicativi era riformatrice, la tensione era a cambiare e comunque modernizzare gli Stati. Era una tensione europeista (in un certo senso lo era anche per il collega britannico, in quel momento così particolare; e lo saranno certamente per i suoi successori, penso a Mike Devereau, penso a Mike Granatt, penso anche ad Alex Aiken, che pure si è dovuto misurare con il vento della Brexit).
I più giovani di noi percepivano l’impetuosa trasformazione del sistema multimediale (che dieci anni dopo portò alla rivoluzione di internet sapendo che essa non poteva riguardare solo il mercato e i commerci, ma dove anche riguardare le relazioni sociali tra istituzioni e cittadini). E non a caso fu il secondo dossier dell’agenda del vertice europeo di Milano del 1985, quello su cui si fondò la premessa costitutiva del Club di Venezia. Il cosiddetto “dossier Adonnino” che prevedeva moltissime misure per avvicinare istituzioni e cittadini (tra le quali l’invenzione di Erasmus).
Io assunsi l’incarico di direttore generale dell’informazione del governo italiano l’1 settembre del 1985 e trovai sulla scrivania quel dossier con la scritta del sottosegretario che aveva la delega politica del settore (che era Giuliano Amato) che si limitava a una sola parola: “ATTUARE”.
Sarà dunque anche vero che il Club di Venezia scelse la via di non decidere. Ma è che, decidendo la propria vita, decise di farci condividere un atto comune che aveva bisogno a lungo di presidio, di creatività, di ascolto sociale e di informalità.
Questo ricordo non è né di compiacimento né celebrativo.
Serve a ricordare che la visione che aggregò rapidamente una generazione di operatori aveva alcuni punti fissi:
- avere il coraggio di un esame criticò di disfunzioni, inadeguatezze e insufficienze (sia nel quadro delle istituzioni europee che nel quadro degli sviluppi nazionali);
- non avere un idea asettica della politica, considerandola invece una chiave del sistema decisionale e del relazionamento tra apparati e leader, ma avendo chiara la linea di demarcazione tra comunicazione politica e comunicazione istituzionale;
- la necessità di trasferire nella sfera pubblica profili professionali che si erano formati prevalentemente nelle condizioni di mercato ma che non erano interessati solo ai temi commerciali e che disponevano di sensibilità per l’etica pubblica.
Questa memoria serve a capire l’evoluzione del presente
Noi abbiamo più volte detto, nel corso degli anni, che la demarcazione tra comunicazione politica e comunicazione istituzionale stava perdendo di chiarezza. E che in alcuni paesi stava determinando una dinamica di dipendenza non salutare. Per quel che riguarda il mio paese – limito a questo l’osservazione – in certi momenti essa ha assunto aspetti di degenerazione. Come dimostrano gli episodi di interi apparati che hanno svolto compiti di squadrismo digitale e non di informazione al cittadino per conto dei loro capi che mantenevano ruolo istituzionale e ruolo politico. E mi limito solo a questo tema, sapendo che ve ne sono altri, di varie parti politiche e con dinamiche nazionali e territoriali.
Abbiamo anche detto – e questo è stato addirittura un coro, in più di un’occasione – che anche nelle istituzioni europee si sarebbero dovute sviluppare di più le funzioni comunicative. Non per costruire immaginario a scopo propagandistico, ma per accompagnare i cittadini nel processo di spiegazione e di interazione su bisogni informativi concreti. Ma un po’ dappertutto stava crescendo l’idea di dare un vantaggio alla visione giornalistica intesa quasi sempre come assicurazione della soglia della visibilità, più che della trasparenza e della comprensione dei problemi.
Ciò nonostante si sono formati molti giovani operatori bravi e civilmente formati. C’e’ anche chi ha invocato – con ragioni – la svolta della digitalizzazione come soluzione in sé di ogni deficit. E’ più che evidente che la transizione digitale pone scommesse alte e forti a tutti i sistemi, creando logiche di interazione tra le banche dati e logiche di accesso e servizio che devono rispondere a standard generalizzati e presidiati. Come è altrettanto evidente che la presenza pubblica nella rete può significare miglioramento della responsabilizzazione a fronte di processi manipolatori e di disinformazione, agendo anche in territori difficili come i “social media”. Quello che non pare molto sensato è proporre un mezzo come un fine. Cioè non mettere al centro il tema del raggiungimento di obiettivi sociali nella comunicazione pubblica mostrando un prioritario interesse per le crisi di alfabetizzazione che dipendono da piani specifici e da obiettivi dichiarati.
In verità non è del tutto esatto dire che la comunicazione politica ha invaso integralmente la comunicazione istituzionale. La comunicazione istituzionale resiste – e resiste bene – negli ambiti tecnico-specialistici, soprattutto di carattere inter-istituzionale. Quelli che per lo più non hanno il cittadino come destinatario diretto. Quello è l’ambito rispetto a cui la comunicazione pubblica tende a mantenere primato assoluto, mentre avrebbe senso un patto collaborativo e complementare.
La lezione della pandemia
La lunga pandemia, che ci ha collocato in un setting di emergenza da 21 mesi, ha prodotto una certa elaborazione su questa transizione, che riguarda anche la comunicazione pubblica.
La domanda di spiegazione affidata solo e unicamente ai media ha significato spesso la convivenza di una comunicazione correlata all’approccio scientifico al contrasto; ma molte altre volte ha anche generato modelli di allarmismo corrispondenti al criterio storico del rapporto tra i media e il mercato: “bad news is good news”.
La politica del governo della spiegazione passa attraverso strategie, alleanze, tecnologie e filosofie in cui si gestisca l’adeguamento e il cambiamento della comunicazione pubblica in tutti i nostri paesi.
La riduzione delle soglie di analfabetismo funzionale e di ritorno è parte di questo cambiamento.
Così come ne è parte un piano adeguato per mantenere la soglia della comunicazione scientifica all’altezza della quotidianità della capillarità della suo servizio. Non rimandandola a casa – ovvero al chiuso dei propri laboratori – il giorno dopo che sarà debellata l’ultima variante del Covid-19.
E ancora: sentire che la prevenzione e il contrasto alla pandemia corrisponde a una guerra, porta ormai diffusamente a ritenere che in guerra è legittimo controllare severamente l’informazione depotenziando il rischio di dare spazio sia al contrasto scientifico che al negazionismo. Mi rendo ben conto della complessità e del realismo della questione. Ma se fossimo in presenza di una comunicazione istituzionale all’altezza di potenzialità anche sociali metteremmo paletti a questa riflessione. Dicendo che usare la parola guerra per definire pubblicamente la pandemia significa riconsegnare all’immaginario collettivo il significato della legittimità dell’omicidio contro altri esseri umani purché definiti “nemici”. Mentre qui è dovere proprio della comunicazione istituzionale costruire modelli di narrazione in cui tutti gli esseri umani – senza distinzione di età, reddito, genere e appartenenza etnica – sono uguali di fronte alla patologia e pertanto in condizioni solidali tra di loro, una qualità da promuovere anche a scopo di diffusione planetaria strategica dei vaccini.
Le tre volées della conferenza di oggi e domani riguardano questo approccio.
Il tema della pandemia, il tema della conferenza sul futuro dell’Europa e il tema della transizione ecologica come problema della condivisione strategica degli Stati e della consapevolezza dei cittadini. Il quarto nodo – su cui CdV ha portato a compimento da poco il quarto appuntamento euro-mediterraneo insieme a ICMPD e Euromed (spero che Vincenzo Le Voci, che è l’artefice di questo accordo permanente, possa riferivi in queste giornate) – è quello delle migrazioni, come fattore di lunga evoluzione demografica e di nuovi approcci nei processi di integrazione e ibridazioni profondamente strutturati sull’accompagnamento comunicativo di tutti: migranti e non migranti.
E’ facile dire che tutti e tre i temi hanno a che fare con la soglia di coinvolgimento, di partecipazione informata e di ascolto anche sensibile alle diffidenze che ognuna delle questioni profila.
E’ come se fosse sempre più chiaro che senza una strategia ultra-nazionale e ultra-disciplinare di tipo comunicativo oggi le istituzioni non possono mettere in agenda niente di risolutivo per temi che sono ormai a scadenza circa l’irreversibilità involutiva. Credo che il nostro tavolo di lavoro abbia abbastanza esperienza e maturità per mettere in campo approcci di metodo che non si limitino all’aspetto salvifico di una norma o di una tecnologia. Ma che ripartano dal carattere strategico delle politiche cognitive ed educative, in cui il nostro settore professionale non fa bene ad accettare la minimizzazione di ruolo purché sia assicurato posto e stipendio.
Un’ultima cosa vorrei dire. So che c’è stata marcia indietro. So che una “bozza” scappata di mano va presa per quel che è. Ma, per concludere, fatemela dire in modo un po’ scherzoso.
Da tempo alcuni eurottimisti incalliti chiedono all’Europa un risveglio comunicativo, orientato socialmente e in grado di stimolare la cultura istituzionale della “spiegazione”, anche negli ambiti nazionali, a fronte della crisi sanitaria, della crisi occupazionale, della crisi di mobilità e della crisi migratoria.
Siamo certi che molti lavoreranno in tante proficue direzioni. Ma il sistema mediatico è impietoso. Fa notizia la “bad news”. Che pare dirci che il dossier su cui si stava piuttosto lavorando era quello. di vietare di dire “Buon Natale”, perché potrebbe turbare qualcuno.Sono sicuro di interpretare il pensiero di voi tutti a questo riguardo, dicendo che l’imprevisto rimetterà in movimento le cose importanti e che più ci premono.

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