Un uomo di confine, un giornalista dei confini.
A novant’anni, nella Gorizia città materna (padre triestino, lui nato a Lubiana in Slovenia, dove i genitori si erano trasferiti durante il fascismo), Demetrio Volcic (nato come Dimitrij), per condizioni di salute peggiorate, oltre al suo storico “mal di schiena”, lascia la sua vivace, interessante, colta, curiosa vita terrena.
Un uomo di larga simpatia, un professionista acuto, uno spirito civile che ha fatto scelte perché abituato a fare analisi.
Laureato in Economia a Trieste, città da cui inizia la vita professionale in Rai nel 1956, solo due anni dopo l’avvio della tv in Italia, per diventare inviato speciale nel 1964 e corrispondente dall’estero dal 1968. Praga, Vienna, Mosca, Bonn. Il tema della “guerra fredda”, poi quello della “cortina di ferro”, infine quello del sistema est-ovest delle relazioni europee lo hanno visto come specialista di una grande questione anche italiana.
Tra il 1993 e il 1994 direttore del Tg1. Nel 1994 ha cominciato a insegnare in materia di politica interazionale all’Università di Trieste. Udine gli ha dato la laurea h.c. Poi dal 1997 al 2001 senatore della Repubblica, eletto in Friuli con il PDS e poi dal 1999 al 2004 europarlamentare con i DS, attento a tutti gli aspetti delle “due Europe”, fino ad essere relatore al Parlamento UE per l’ingresso dei nuovi dieci paesi membri e particolarmente responsabile del dossier di ammissione della Slovenia. Parlava e scriveva in sei lingue, giocando quasi da professionista a scacchi.
Illuminanti i libri nati dalle sue esperienze di corrispondente (L’autunno di Praga, pubblicato da Sellerio; il post-stalinismo nel suo Kruscev contro Stalin; l’analisi della guerra a Sarajevo; gli ultimi giorni del comunismo a Mosca. E molti altri).
Ci conoscemmo in Rai a cavallo tra i ’70 e gli ’80, nella mia stanza di assistente del presidente dell’azienda – prima Paolo Grassi, poi Sergio Zavoli – dove, quando tornava in sede dai suoi luoghi di corrispondenza che allora parevano così lontani, passava rapidamente per “fare il punto” su ciò che bolliva in pentola nell’azienda, diceva “prima che me lo spieghino i miei colleghi giornalisti che sanno tutto del mondo e poco della Rai”). E, confidenza per confidenza, nacque stima e amicizia. Capivo più da lui in pochi minuti di cose complesse che leggendo tante analisi di politica europea.
Così che gli chiesi, tempo dopo, verso la fine degli anni ’80, essendo lui corrispondente della Rai da Bonn e io, a Palazzo Chigi come direttore generale dell’informazione e dell’editoria, di fare il “centravanti” della squadra informale italiana che si sarebbe incontrata in tre giorni di colloqui appunto informali a Villa Adenauer a Cadenabbia sul lago di Como, con un’analoga squadra tedesca messa in piedi dal mio collega tedesco, l’ambasciatore Franz Keil (una delle tante cose inventate nel quadro del “Club of Venice”).

La foto (inedita) si riferisce a quelle giornata. Io sono esattamente tra loro due, l’amb. Keil alla mia sinistra e Demetrio alla mia destra. Scelgo quest’episodio perché è una metafora del suo senso dell’humor e del suo tempismo giornalistico. Tema (segreto) di quel dialogo: “La reciprocità di immagine tra Italia e Germania, tra italiani e tedeschi”. Punto di partenza: i tedeschi amano più l’Italia degli italiani, ancora vero? E gli italiani, rispettano la Germania ma parlano male dei tedeschi, ancora vero?
La prima giornata andò in lusinghieri e reciproci giudizi, gli uni con gli altri. Ma come siete bravi voi tedeschi, ma come siete trasformati voi italiani. Eccetera eccetera. Tra i tedeschi presenti diplomatici, intellettuali, imprenditori. Tutti entusiasti dell’Italia degli anni ’80. Tra gli italiani, chi diceva una virgola sugli stereotipi ancora invalsi sui tedeschi?
La mattina dopo, inizio puntuale alle 9. Demetrio prende la parola per primo. Gli viene da sorridere. Poi dice: “Volevo solo ricordare a tutti che oggi è l’8 settembre”. E si siede.
Lì è cominciato il vero “congresso”. Che con Keil abbiamo deciso di lasciare talmente libero da evitare persino la registrazione.
La sua è stata una vita molto interessante. Fare il mestiere come lo ha fatto lui rende ancora sensata la battuta (credo con paternità Barzini) che “fare il giornalista è sempre meglio che lavorare”.