
Paolo Giacomoni
In questi giorni scorre molto inchiostro e si consuma molta saliva, da questa parte dell’Atlantico, perchè la Corte Suprema ha deciso di occuparsi della legge promulgata nel Mississippi, che vieta l’aborto dopo la quindicesima settimana di gravidanza. Tra i più accesi oppositori si trovano, mescolati in disordine, i religiosi più conservatori e i liberals più indemoniati.
Il fatto è che si teme o si spera che la Corte Suprema, composta in maggioranza da giudici conservatori, voglia revocare la decisione detta Roe vs Wade, che dichiarava costituzionale l’aborto.
Quello che alcuni, in Europa, non sanno, è che cinquant’anni or sono (1973) nella sentenza Roe vs Wade, la Corte Suprema dichiarava che gli stati avevano la facoltà di regolamentare gli aborti dopo il sesto mese di gravidanza. Tutti gli stati tranne il Texas (6 settimane) e il Mississippi (15 settimane) hanno un limite posto a 22 o 24 settimane (e otto stati non hanno limite).
E si ricomincia a parlare di considerare il momento in cui il feto può sopravvivere fuori dal ventre materno (24 settimane all’incirca), come limite per l’interruzione legale della gravidanza, ….limite al di là del quale gli interessi di una donna possono essere distinti dagli interessi del feto (non sono io che lo scrivo, è una giornalista del Washington Post).
E la signora Sherry Colb, professore di Giurisprudenza alla Cornell University, ha recentemento scritto quanto segue:
Se il limite della legalità dell’aborto è posto ad un momento anteriore alla possibile sopravvivenza, allora non c’e modo, per una donna, di proteggersi contro una gravidanza indesiderata senza por fine alla vita del feto. Ma se il limite posto alla legalità dell’aborto è posteriore alla sopraggiunta possibilità di sopravvivenza, allora la donna può raggiungere lo scopo di non essere incinta pur permettendo al feto di sopravvivere.
E allora ci si può chiedere perchè non ricominciamo con l’uso di partorire e di abbandonare il neonato sulle scale di una chiesa