Il virus come fonte di apprendimento sociale.

Pubblicato dal giornale online L’Indro (3-1-2022)

Il virus Covid-19 come fonte di apprendimento sociale

Fare l’elenco delle lezioni soprattutto sulle nostre insufficienze è legittimo e la critica resta utile. Ma è sbagliato negare che cresca anche una lezione civile che ha ripercussioni su ripresa e riorganizzazione. Proviamo (come il presidente Mattarella ha fatto a capodanno) a mettere insieme ciò che è in movimento reattivo nel campo sociale.

Stefano Rolando [1]

Didascalia per la foto di Sergio Mattarella [2]

Vorrei cominciare l’anno con un accento diverso sul tema Italia-Pandemia.

Dopo tanta scrittura attorno al perfido virus da parte dei commentatori (anche io tra questi), come un male, un pericolo, un oggetto da combattere, affiora ora qualche spunto di dibattito attorno all’idea che il virus, pur confermato nella perfidia, contenga elementi “donanti”.

Se non vogliamo dirla così, perché fa un po’ effetto perfino a scriverlo, meglio dire subito che la spinta a questo commento è di natura civile e segue una lezione storica. Le peggiori guerre hanno generato contraccolpi di incivilimento (restando ancora aperto il dibattito sulle contraddizioni del portato della prima guerra mondiale) che sono la condizione anche per una migliore politica.

Cosicché – senza essere troppo precisi sugli aspetti di copyright (chi dice questo, chi dice quello) – proviamo a fare un breve inventario di questa nuova onda interpretativa sul Covid-19. Sostanzialmente tesa a qualche riflessione sulle “lezioni” che il volubile, veloce, violento, vorticoso, velenoso Coronavirus, ormai alla sua ennesima variante, sta impartendo all’umanità.

Prescindo qui dagli aspetti tecnici, sanitari e farmacologici – l’attenzione a ciò in questi giorni resta giusta e cruciale –  guardando piuttosto alla socialità sia del contesto che delle conseguenze epidemiche.

Ogni giorno i media esondano sull’epidemia. Per lo più analisi e commenti sono su danni, rischi, lacune, disuguaglianze, incertezze. La tendenza “ideologica” dell’informazione secondo cui “bad news is good news” è naturalmente rispettata. E desterebbe inevitabili perplessità un’improvvisa sciorinata di cose che vanno bene, immaginando propagandismo (anch’io farei questi pensieri). Tuttavia è maturo il tempo per provare a ragionare a due piste. Da una parte le cose che non vanno bene per migliorarle, dall’altra parte le cose che stiamo positivamente apprendendo per migliorarci. Non a caso il presidente Mattarella ha scelto di ricordare i due approcci.  Questo equilibrio produrrebbe una spinta ulteriore alle responsabilità.

Qualche giorno fa, per esempio, una pagina del quotidiano Domani, a firma di quel brillante scrittore/pensatore che è Walter Siti, elencava le tante scoperte che abbiamo fatto attorno alla “aggressione pandemica”, preferendo fare l’elenco in negativo. Cioè l’elenco di ciò che costituisce insufficienza culturale, politica, scientifica e organizzativa dell’umanità. Considerando insopportabile il peso di un mondo ingiusto, immorale, inadeguato (sei colonne qui non riassumibili). Il titolo di questo elenco è tuttavia un po’ ingannevole: “Bilancio provvisorio di ciò che ci ha insegnato la pandemia”. Il contenuto (un elenco comunque utile) è che finalmente riconosciamo meglio il male e l’ingiustizia[3]. Il che va comunque rubricato negli apprendimenti funzionali, quale è il vedere in un colpo solo l’elenco della nostra fragilità o della nostra insufficienza nell’adeguare tutte le soglie di contrasto (ma WS ammette anche che in certi campi, come i vaccini, si sono fatti prodigi). E tuttavia, è giusto vedere che c’è un altro elenco, cioè quello degli apprendimenti positivi, attorno a cui merita sollecitare un po’ di dibattito pubblico.  Dopo quasi due anni di esperienza non è accettabile l’interpretazione di un flagello che avrebbe annichilito l’umanità senza aver prodotto insieme alla percezione dolorosa anche una percezione generosa. Con la nota, su cui ragionare meglio, che proprio il nesso tra le due percezioni è la forza del metodo scientifico e della ricerca. Che deve essere anche quella di un baricentro sociale in cui si capisce di più e ci si riorganizza di più. Limito al Belpaese questa sintesi, provando ad annotare qualche elemento di contenuto in una provvisoria gerarchia.

Su alcuni argomenti – collaborazione e amicizia di vecchia data – scrivo dopo un confronto con un sociologo di vaglia, già direttore del Censis, come Nadio Delai[4].

Dieci ambiti in cui il bilancio tra danni e rigenerazioni comincia a riequilibrarsi

  1. Abbiamo capito – il tema merita il primo posto – che apparteniamo a una stragrande maggioranza: l’85% di vaccinati. Una percentuale che ci saremmo aspettati in un paese autoritario e di polizia. Non nell’Italia individualista, sdrammatizzata, con scarsissima fiducia nelle istituzioni. Ci sarà paura, ci sarà uno stato di necessità. Ma è cresciuta una quota di rispetto e solidarietà verso il prossimo, che fa parte di una percezione acquisita e, forse, di una lezione della pandemia che potrebbe avere durata. L’uso della mascherina – che conoscevamo come un rito estraneo riservato agli orientali di autoprotezione e soprattutto di rispetto per gli altri – è parte di un apprendimento che può portare maturazioni civili. La rappresentazione recente dell’altra faccia della medaglia no-vax e no-pass (giusto segnalarla, meno giusto farne un carnevale continuo) rischia di alterare la percezione corretta di questo dato invece rilevantissimo.
  2. Ci siamo resi conto (in Italia) che la comunicazione scientifica era estranea alla domanda della maggior parte di noi. Salvo coloro che con la scienza mangiano. Insomma era parte di un mercato a spicchio (come il calcio, il teatro, la finanza, i necrologi, eccetera). Se a pandemia eclissata ci staccassero la spina della comunicazione scientifica – tutti noi, laureati, impiegati, precari, con studi finiti o interrotti, vecchi a rischio, giovani spavaldi – comprenderemmo meglio che questa soglia di confronto auto-organizzativo è una nuova trasversalità che qui proviamo a immaginare come irrinunciabile in una parte non irrilevante dell’opinione pubblica. Resta aperto il tema di come consolidarla, impedendo il rigetto alle prime luci della normalizzazione.
  3. Abbiamo intravisto che il vivere nel nostro “locus” – il localismo – non è per tutti il rifugio solo impaurito e allarmato a fronte dell’ennesimo pericolo della globalizzazione. Perché un giorno in fila per un tampone o un vaccino, abbiamo capito che tutto il mondo era in fila come noi, per lo stesso obiettivo, alle prese con le stesse modalità e le stesse domande. Un barlume di mondo-comunità[5].
  4. Il primo anno di confronto con Coronavirus ha segnato un’ebollizione dei rapporti inter-istituzionali in Italia. Stato, Regioni e Comuni a rinfacciarsi colpe in una crisi di coerenza tra l’ordinamento delle competenze sanitarie e la fragilità della medicina di prossimità[6]. Tolta di mezza (Draghi) una quota rilevante di pressapochismo delle competenze, di demagogia al governo e di invasione della politica per pura visibilità nel confronto tra le istituzioni, il malanno è abbastanza derubricato. E la lezione emergenziale potrebbe avere effetti rigenerativi in un momento di rialzo di fiducia nelle istituzioni.
  5. Sul fronte dell’economia familiare la crisi ha fatto crescere il risparmio e l’investimento nel rinnovamento esterno ed interno della case. Il mercato del mobile è esploso per la domanda di riorganizzazione che c’è stata e c’è. La stanchezza pure c’è, l’eccesso di ore consumate in casa c’è, il prezzo pagato dai giovani per il taglio forzato della socialità c’è[7]. Ma è anche in atto un comportamento reattivo diffuso, in questo caso trainato dalle donne, frutto di una cultura che non era in agenda: quella di adattarsi alle difficoltà, facendone una condizione riorganizzativa.
  6. Il balzo di apprendimento più interessante è quello delle imprese. Interrogo Nadio Delai (sociologo attento alle dinamiche tra imprese e territorio) e mi dice che “il capitale sociale è in movimento in tutta Italia mai come in questo momento con un rilancio produttivo fortissimo rispetto al 2020”. Che poi questo spingere sulla produzione (come i tedeschi) non abbia ancora messo in agenda il tema della produttivitàresta ancora argomento acerbo, per il peso che l’assistenzialismo ha avuto soprattutto nel 2020, ma la lezione di vivere e produrre in condizioni di emergenza ha rialzato la cultura di impresa come non si vedeva da un pezzo”. La coniugazione apprendimento tecnologico, apprendimento organizzativo e lancio di nuove forme di lavoro è parte di questo recupero che sta mettendo nelle mani delle imprese il maggior traino alla metabolizzazione culturale della crisi. “Stranamente di questo si parla poco – aggiunge Delai solo sulle pagine per gli addetti ai lavori”.
  7. Il dibattito del 2020 era paralizzato dal falso problema “tutto come prima, niente come prima”. Non erano però pochi gli intellettuali che, percependo l’aspetto falso del dilemma, dicevano che saremmo diventati più cattivi e rancorosi. “La quota di rancore è rimasta – è ancora Nadio Delai a parlare – ma la lezione appresa è che il processo della pandemia non finisce a senso unico, ma si sviluppa in una polarizzazione. Ci sono quelli, ma c’è anche un fenomeno contrario, alimentato dall’aumento di rispetto per le professioni sanitarie e di assistenza alla persona che hanno meritato il plauso collettivo”. Su questo sentimento di riconoscenza sociale nei confronti delle grandi istituzioni sociali del Paese, fa testo l’annuale rilevazione Demos[8] in cui la scuola italiana nei due anni di pandemia guadagna 5 punti di reputazione passando dal 54% al 59%, mentre sugli apparati di lavoro nella sanità e nell’assistenza, farmacie comprese, è ampia la testimonianza di riconoscenza.
  8. Più complessa è la “lezione” che ricaviamo dall’evoluzione del lavoro. Insieme a tagli, porte chiuse, precarietà dilagante (2 milioni di ragazzi in Italia non lavorano e non studiano; i guadagni dei giovani sono peggio di 30 anni fa; metà degli under 34 si è dimesso almeno una volta per preservarsi psicologicamente)[9], incalzati dalle restrizioni e dalla stessa pandemia, leggiamo ora – in parallelo alla ripresa e alla trasformazione produttiva di cui si è detto – un maggiore consenso attorno ai margini di dignità da ristabilire. Uno sforzo di ragionare sulla realtà. Forse si adatta meglio a questa ristrutturazione il pensiero della Cisl che spinge la sua cultura di miglioramento dei contratti rispetto alla Cgil a cui scattano come preferenziali le forme di protesta. Ma l’approccio di ricerca alle soluzioni indotte dalla spinta scientifica a salvarci la pelle, sta inducendo anche una rielaborazione collettiva attorno a un nodo duro finora affrontato fumosamente: arrenderci o urlare.[10]
  9. Attorno alla rappresentazione di questo dibattito, essendo il sistema dell’informazione e della comunicazione collocato nella piazza principale dell’agone (tra comunità scientifica, comunità economica e sistema dei decisori) esso ha accompagnato tanto la confusione quanto l’apprendimento, surrogando una quota imponente della cresciuta domanda di spiegazione da parte dell’opinione pubblica (in ordine a cui resta aperto il problema della chiara riorganizzazione generale dell’offerta istituzionale e dei servizi pubblici)[11]. In questo modo questo processo ha anche prodotto un – ancora insufficiente – apprendimento alla visione critica dei media e del loro ruolo, comprendendovi per alcuni una più chiara percezione di come la rete abbia incrementato la velocità di circolazione delle notizie utili ma anche la velenosità di penetrazione delle fake news. Regole sì, regole no. Siamo ancora appesi a un dibattito deontologico frammentato. Ma con temi posti, che soprattutto gli analisti (al centro le università) farebbero bene a far maturare.
  10. Se, alla fine di questo sommario, si volesse far luce sul teatro strategico di questo strano e complesso dibattito (in cui stanno infinite altre questioni, anche quelle che riguardano i prodigi della ricerca scientifica e le involuzioni di sistemi decisionali mescolati ad affari, egoismi e illegittimità) dovremmo anche chiederci se è più chiaro il ruolo dei responsabili delle attivazioni. Qui si colloca la domanda di rappresentanza, purché all’altezza della competenza. Argomento in cui si dovrà arrivare alle elezioni per capire se c’è miglioramento effettivo. In un certo senso anche di chi si sta promuovendo a padrone dell’andamento del pensiero collettivo. Chiudo, su questo argomento, il colloquio con Nadio Delai tentando qualche connessione sui punti accennati. “Se guardiamo a come le grandi piattaforme globali hanno saldamente operato per accompagnare questi processi – dice – percepiamo soprattutto in questo 2021, ben inteso nei suoi chiaroscuri, un’effervescenza rimasta un po’ in ombra rispetto alla totalizzazione dell’informazione sugli aspetti sanitari della crisi. Ci sono soggetti marginalizzati nella responsabilità di guidare il dibattito, tra cui la politica. Mentre altri – come le rappresentanze sociali e professionali – hanno un coinvolgimento nel percepire il senso e il carattere di questa transizione. Fondamentalmente perché a loro è più chiaro che il tema che regge una possibile evoluzione positiva della crisi (ecco il senso dell’apprendimento) è che la sbornia del sistema virtuale punta ora in qualche modo a rientrare per lo meno un po’ nell’economia reale”.

[1] Docente di Comunicazione pubblica e politica Università IULM Milano.

[2] Sergio Mattarella (31.12.2021): “Ho percepito accanto a me l’aspirazione diffusa degli italiani a essere una vera comunità, con un senso di solidarietà che precede, e affianca, le molteplici differenze di idee e di interessi”.

[3] Sul quotidiano Domani il 22.12.2021

[4] Tra molti lavori svolti insieme, il più recente e significativo è – Magistrati e cittadini – Identità, ruolo e immagine sociale dei magistrati italiani – Rapporto per Scuola Superiore Magistratura, con prefazioni di Valerio Onida, Gaetano Silvestri e Giovanni Legnini, Franco Angeli (open source) 2016 – https://www.francoangeli.it/Ricerca/scheda_libro.aspx?Id=23969

[5] La prima intuizione al riguardo, fin dalla metà dell’anno scorso, di Piero Bassetti in “Glocal a confronto. Piero Bassetti riflette sulla pandemia”, a cura di S, Rolando, Luca Sossella ed. (2020).

[6] Ai principali dualismi nel dibattito pubblico in Italia scatenato dal primo anni di crisi sanitaria – tra cui il conflitto Stato-Regioni – era dedicata l’analisi e la sintesi di quel primo anno in Stefano Rolando, Pandemia. Laboratorio di comunicazione pubblica, prefazione di Gianni Canova, Editoriale scientifica, novembre 2020.

[7] Mauro Magatti, Transizione e sviluppo: il nodo del «vincolo umano», Corriere della Sera, 3.12.2021.

[8] L’Espresso, 18.12.2021.

[9] Dati Ansa e Sole-24ore 2021.

[10] Nell’analisi di “un nuovo senso del lavoro” e “l’intelligenza sociale dell’impresa” un profilo in evoluzione fatto da Marco Bentivogli (l’Espresso, 2.1.2022).

[11] In prima circolazione, sull’argomento, Stefano Rolando, Comunicazione pubblica come teatro civile-Governare la spiegazione, prefazione di Giuseppe De Rita, Editoriale scientifica, novembre 2021).

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