Sessant’anni di battaglie radicali

A colloquio con Gianfranco Spadaccia[1] autore di

Il partito Radicale-Sessanta anni di lotte tra memoria e storia (pagg.758, Sellerio, 2021)

Stefano Rolando

Mondoperaio (rivista mensile fondata da Pietro Nenni, diretta da Cesare Pinelli) n. 1/2022

Nel breve testo di Angiolo Bandinelli, inteso come un forte ex-ergo, ci sono tre battute che sembrano compendiare tutto: “L’eredità di Pannella è il suo pensiero”; “La libertà del cittadino è garantita solo dalla salute delle istituzioni”; “Tutto il resto è volar di stracci”. Fine. Tu hai spalmato questa estrema sintesi in una  affollata storia di 758 pagine. Cosa ti fa venire in mente questa apparente contraddizione?

In quelle 700 e più pagine ci sono 60/65 anni di storia radicale e di storia italiana, la vita di tre generazioni. Ho voluto scrivere la storia di quella comunità e di quel soggetto politico e delle sue lotte nella sua realtà, complessità e mutevolezza, colmando una lacuna e assolvendo un dovere che avevo verso me stesso e verso quella comunità. Altrimenti un storia ricca e complessa, in alcuni momenti anche apparentemente contraddittoria, si sarebbe ridotta a una idea, a una immagine fissa e stereotipata e quindi falsa del Partito Radicale. E’ vero, a proposito delle parole di Angiolo Bandinelli, che ho fatto lo sforzo di riportare in primo piano il pensiero e l’azione rispetto alla prevalenza che si tende ad attribuire sia al “personaggio” Pannella sia agli aspetti più esteriori e “folcloristici” dell’azione politica radicale (senza nulla togliere all’importanza che il “personaggio” Pannella ha avuto nell’esercizio della sua leadership e che quel folclore ha avuto nella lotta per sconfiggere l’esclusione, la cancellazione dalla vita politica cui i radicali sembravano condannati). Però bisogna stare attenti: quella di Angiolo è una immagine poetica. In quel “volar di stracci” ci sono cose importantissime come l’eutanasia, l’antiproibizionismo e perfino le garanzie del diritto e il funzionamento della giustizia, Ma anch’esse e non solo i nostri impegni e le nostre povere persone rischiano di volar via come stracci senza il rafforzamento della democrazia e delle sue istituzioni, oggi non solo gravemente minacciate ma profondamente in crisi.

Nella prima parte (1955-1963) – capitolo essenziale perché dedicato alla “ri-nascita” dei radicali – l’epicentro è nella vicenda del settimanale Il Mondo di Mario Pannunzio. Per quale ragione essenziale?

“Essenziale” perché Il Mondo di Pannunzio nelle sua breve vita ha avuto un funzione importantissima nel difendere e affermare la cultura laica di questo paese, influenzando giornalismo, pubblicistica e università e contrastando le influenze contrarie. Un funzione culturale prima che politica, leggevo Il Mondo senza essere liberale, mi sono formato insieme a molti altri su quelle pagine. Non a caso su quel giornale si sono trovati a scrivere in quegli anni Benedetto Croce e Gaetano Salvemini, Guido Calogero e Carlo Antoni, Ernesto Rossi e Mario Paggi, Leo Valiani e Mario Boneschi, Giuseppe Saragat e Ugo La Malfa.

In realtà il Partito Radicale aveva avuto un ruolo storico nell’unità italiana, in particolare a cavallo tra l’800 e il 900. Per intenderci esprimendo classe dirigente del livello di Francesco Saverio Nitti capo del governo e di Ernesto Nathan sindaco di Roma. Cinquanta anni dopo che nesso era rimasto – se era effettivamente rimasto – tra queste vicende?

A Nathan e alla sua amministrazione ci rifacemmo nella nostra campagna degli anni 55/56 “Capitale Corrotta=Nazione Infetta” per contrastare lo scempio della crescita disordinata e abnorme della città determinata, al di fuori di ogni piano regolatore, dalla speculazione edilizia incontrollata e lasciata libera di operare. Solo dopo quella campagna si tornò a parlare anche a sinistra di piano regolatore. E all’esperienza di quei primi radicali guardammo quando decidemmo di adottare quella denominazione. Da Salandra a Malagodi la parola liberale ci sembrava logora e usurata, confusa con il moderatismo e il conservatorismo.

Sempre nel mettere in chiaro le radici (anche quelle che riguardano il tuo personale approccio alla politica) prevalgono i riferimenti all’azionismo, alla sinistra liberale, ai repubblicani e a una costola socialdemocratica. E’ così?

Sono i riferimenti essenziali della mia formazione: guardavo al liberalsocialismo di Carlo e Nello Rosselli, al socialismo non solo liberale ma liberista di Gaetano Salvemini (la sua lotta al protezionismo), a Guido Calogero, a Ernesto Rossi, a Aldo Capitini. Al contrario di coloro che vedevano in quelle definizioni e in quei tentativi solo incompatibilità ideologiche (il crociano “ircocervo”) io vedevo invece non solo positive contaminazioni ideali ma una straordinaria e fertile possibilità di costruire insieme con nuovi strumenti risposte efficaci ai problemi del nuovo tempo.

Presto – nella tua stesura storiografica – arriva in campo la sigla trasversale e al tempo molto forte nella generazione di una classe dirigente della politica post-bellica. La goliardia italiana. Soprattutto l’UGI e la rappresentanza nazionale dell’UNURI (di cui Pannella fu presidente). Legami a vita di quei protagonisti. Ma anche primo banco di prova di elaborazione politica dopo il laboratorio della Costituente. Che legame c’è tra la ri-nascita dei radicali e questa storia?

La forza dei laici nelle Università degli anni 50 a differenza di quanto accadeva nel Paese derivò dall’intuizione che alcuni ebbero (Franco Roccella, Sergio Stanzani, Bobo Rossi, Giorgio Festi, tutti dell’Università di Bologna) di partire proprio dalla tradizione goliardica e dalle associazioni della goliardia. Vi fu uno scontro con i tradizionalisti. Ma questo permise all’UGI di proporsi come forza unitaria e di nascere non da trasposizioni partitiche nella vita degli atenei ma da qualcosa di preesistente che aveva il suo ancoraggio nella tradizione studentesca e nell’università. Senza questa coraggiosa intuizione e questo iniziale scontro politico interno alle associazioni goliardiche, i laici sarebbero stati minoritari e pressoché irrilevanti anche negli atenei. Invece l’UGI divenne per la sua laicità quasi naturalmente la casa prima di liberali repubblicani e socialdemocratici, poi dei socialisti e infine, con lo scioglimento del CUDI, anche dei comunisti.

Ti chiedo qualche parola di verità sul tuo stesso punto di partenza. Perché lasci l’ambito socialdemocratico, per approdare a una mescolanza che pareva avere il colore prevalente della sinistra liberale?

A questa domanda credo di aver già risposto. Ma tieni conto che uno dei nostri punti di riferimento allora era il repubblicano ed ex azionista Ugo La Malfa (fu il primo con Parri a riproporre in una sua corrente la parola radicale), che allora poneva a tutti l’obiettivo dell’unità dei partiti laici, che li facesse uscire dalla condizioni di minorità rispetto a democristiani e comunisti cui gli avvenimenti del dopoguerra li avevano condannati.

Il grande spartiacque degli anni ’50 si profila con il 1956, come in verità fu. La difesa senza se e senza ma da parte dei comunisti italiani dell’invasione sovietica in Ungheria, pur mettendo in movimento il distacco importante dei socialisti dall’alleanza, profila quella che qualcuno definirà “un’altra sinistra”, diciamo per semplificare quella dei laici. Era questa la percezione condivisa?

Più che una percezione era una aspirazione, un obiettivo da perseguire con determinazione, nella consapevolezza tuttavia delle difficoltà, degli ostacoli, della realtà dei rapporti di forza che erano contro di noi. A questo poi bisogna aggiungere la “persistenza degli aggregati” che spinge sempre a conservare l’esistente, a contrastare ogni forma di nuova unità, a favorire scissioni e divisioni e avversare invece ogni tentativo e proposta di unità.

Il secondo spartiacque in cui si rimodellano i rapporti tra i partiti italiani avviene nel 1960 e questa volta sotto attacco è la DC, a causa del governo Tambroni. Che percezione avevano i laici progressisti italiani (tra cui i radicali) del cambio generato dai nuovi anni ’60?

Eravamo la generazione che aveva vissuto immersa nella ricostruzione del dopo guerra. Difficile dire quanta consapevolezza ci fosse non solo nella nostra generazione ma anche in quelle precedenti del cambiamento epocale verificatosi in quegli anni. Il nostro paese ha conosciuto nell’arco di una generazione un cambiamento che altri paesi hanno conosciuto nell’arco di uno o due secoli: non solo la crescita dell’industrializzazione e dell’urbanizzazione della società ma il trasferimento di molti milioni di persone dalla campagna alle città, dall’agricoltura all’industria, dal sud al nord. La rivolta del 1960 fu per molti la rivelazione di questo cambiamento che non era solo sociologico, era anche antropologico. Prima, molto prima, della guerra del Vietnam ci siamo sentiti in sintonia con il movimento dei neri d’America, con Martin Luther King, la disubbidienza civile, la nonviolenza gandhiana.

Qui inizia la seconda parte del tuo imponente saggio (1964-1976). Pannella lascia definitivamente il giornalismo professionale (a Parigi, per il Giorno) e il tuo titolo è “I radicali alla prova di partito”, con l’aggiunta dell’annotazione “non solo diritti civili”. Cosa in più, allora?

Era una scommessa quasi impossibile, la stessa in cui non era riuscita la generazione precedente alla nostra: poche persone a Roma, formatesi in maggioranza nell’UGI (Pannella, Roccella, Stanzani, Teodori, Mellini, Bandinelli e pochi altri), non più di un centinaio in tutta Italia con l’avallo di Elio Vittorini, che divenne in quegli anni il nostro presidente (“essere radicale è un modo di essere ‘più a sinistra’, di essere oltre la sinistra”). Sostenevamo che i diritti civili, a cominciare dal divorzio, dovevano essere il terreno di confronto per costruire una alternativa laica alla DC e rimettere in discussione l’art.7, votato all’assemblea costituente da democristiani e comunisti. Gli anni 60 furono gli anni della guerra d’Algeria, della riforma gollista, della crisi del partito socialista francese e della rifondazione mitterrandiana. Guardammo a Mitterrand e alla sua Rosa nel Pugno come a un modello. E in Italia, con Loris Fortuna e con la LID, il divorzio divenne il grimaldello che avrebbe innescato la rivoluzione culturale, legislativa e politica, dei diritti civili.

Nell’incedere della lettura – in questa spaziosa seconda parte – si affacciano due parole che sono molto costitutive del clima per alcuni versi anti-ideologico ma non anti-teorico della fine degli anni ’60 in cui in scena non c’era solo il libretto rosso di Mao. Le parole sono: libertario e federalista. Quanto dureranno queste due parole nel mezzo secolo che viene dopo?

Eravamo federalisti europei e lo siamo tuttora, nella consapevolezza che quel tanto di Europa che abbiamo conquistato è ancora insufficiente ad assicurare il futuro dei nostri popoli. E al nostro liberalismo gobettiano abbiamo unito due potenti fattori di rinnovamento: una concezione libertaria senza sconfinamenti anarcoidi e la nonviolenza gandhiana. Questa ci consentiva di perseguire i nostri obiettivi con intransigenza ma con spirito di apertura e dialogo nei rapporti con i nostri interlocutori, con le istituzioni, con il potere. Mi auguro che sia un patrimonio ideale e politico che rimanga vivo e vitale anche nel futuro.

Viene da dire dopo la precedente domanda: e allora come fu il ’68 dei radicali? Furono spiazzati? Si sentirono anticipatori? Come si posizionavano rispetto all’oceano ideologico in movimento?

Non “ci sentivamo”. Ne eravamo stati, in qualche modo, gli anticipatori: il primo Movimento di Liberazione della Donna è nato in seno al partito radicale di allora, che era anche una organizzazione politica federale. E così il FUORI. Poi per un breve periodo ebbero il sopravvento i movimenti marx-leninisti (Pdup, DP, Autonomia operaia, Lotta continua, maoisti di diversa denominazione).

Entra in campo ora la figura di Emma Bonino. Sulla scia di Pannella? In un possibile dualismo con Pannella? Come espressione di un gruppo di donne in politica diverse da quelle maggioritarie nei partiti tradizionali?

Emma arriva al partito attraverso l’esperienza del CISA, fondato da Adele Faccio nel 1973 per creare le condizioni della disubbidienza civile sull’aborto. Nella promozione che il PR ha fatto in quegli anni della partecipazione femminile alla vita e alla lotta politica, nella sua generazione Emma si è affermata, come Adelaide Aglietta, per le sue doti e capacità. Dualismo con Pannella a mio avviso non c’è mai stato in termini di leadership. Però è stato il volto femminile della politica radicale in Italia e, per il ruolo di commissaria europea, all’estero.

In un periodo storico che ha molti aspetti globalizzati, molti conflitti ideologici, molti scontri sui rapporti sociali e di produzione legati alla fine di un certo ciclo industriale, molte astrattezze, molte inquietudini (con l’avvio del terrorismo), i radicali si “radicano” a una battaglia nazionale, una battaglia poco rubricata come “politica”, una battaglia che evade dalle camicie di forza della sociologia allora corrente: il divorzio. Con quale pensiero strategico?

Negli altri paesi europei quasi ovunque il divorzio fu introdotto con l’affermazione della rivoluzione borghese. L’Italia fece eccezione: nello scontro fra lo Stato unitario e il Papato un tacito compromesso fece sì che il principio dell’indissolubilità del matrimonio non fosse rimesso in discussione, lo scontro fra clericali e anticlericali avvenne sempre su altro. Il divorzio in Italia rimase un tabù anche dopo la Resistenza e la seconda guerra mondiale. Riuscimmo a romperlo con Loris Fortuna e la Lega Italiana del divorzio nel 1965, coscienti del fatto che i cambiamenti sociali avevano messo in crisi e sconvolto molte famiglie soprattutto nei ceti più deboli. L’indissolubilità aveva prodotto decine, centinaia di migliaia di fuorilegge del matrimonio. Il divorzio non era più un privilegio borghese, era diventato una grande e spinosa questione sociale. Con Fortuna abbiamo trascinato prima laici e socialisti in questa battaglia, convincendo nel 1968 anche i comunisti. Ci sono voluti cinque anni perché divenisse legge dello Stato e altri quattro perché fosse confermata dagli italiani nel referendum, ma poi – come avevamo previsto – creò le condizioni della rivoluzione dei diritti civili: obiezione di coscienza, riforma del diritto di famiglia, parità di diritti tra uomo e donna, legalizzazione dell’interruzione di gravidanza, abolizione del manicomi, voto ai diciottenni, riforma dei codici e dell’ordinamento giuridico militare. Ciò che invece non si verificò fu l’alternativa laica alla DC. Il PCI si servì di questi successi, a cui aveva contribuito e di cui fu il principale beneficiario, per portare avanti la fallimentare, per sé stesso e per il Paese, politica del compromesso storico.

E un’altra “bizzarria” in un clima in cui il modello di partito è – un po’ per tutti – territorializzato, a sezioni, con filiere burocratiche, eccetera, il Partito Radicale quasi lascerà il posto alla sua creazione: Radio Radicale. Eterea, smaterializzata, sburocratizzata. Eccetera.

Sì, è vero. Però Radio Radicale, oltre ad essere stata un importante elemento di rottura nell’informazione politica italiana, è stato anche uno strumento fondamentale di aggregazione non solo associativa ma militante per il Partito Radicale. Avevamo una rada organizzazione territoriale ma la radio forniva a tutti uno strumento di comunicazione istantaneo. Nella sua immaterialità la radio produceva effetti non burocratici ma niente affatto immateriali.

Eccoci alla terza parte (1976-1984), giustamente intitolata “I radicali in Parlamento”, aiutando ancora con queste tue periodizzazioni (un merito metodologico del libro)  a leggere le dominanti  di una storia complessa e accavallata. Qual è il ricordo dominante di quell’esperienza di vita parlamentare – rispetto ai partiti più tradizionali – che fu anche la tua esperienza personale?

Da una parte il ruolo che ebbe la primissima Radio Radicale con i suoi fili diretti nel farci superare due sbarramenti del quorum (400mila voti) e del quoziente pieno da conseguire almeno in una grande città. Averli superati ci consentì di portare per la prima volta in Parlamento quattro parlamentari. Dall’altra la decisione, presa allora con venti anni di anticipo rispetto al dibattito sulle quote, di presentare (eravamo nel 1976) capilista tutte donne: furono elette due donne, Adele Faccio ed Emma Bonino e due uomini, Marco Pannella e Mauro Mellini. Quei quattro furono l’unica opposizione alla scelta in quella legislatura dei governi di unità nazionale, che dovevano essere la prima sperimentazione del compromesso storico. E dovettero confrontarsi con il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro e con la rivoluzione resa possibile, dopo il divorzio, dagli altri referendum radicali.

In questo arco di tempo si torna a parlare di riformismo contro conservatorismo (una parte di quest’espressione coinvolge anche l’anti-riformismo di una certa sinistra). La domanda (senza malizia) è: ma ai radicali non è che a volte sembra più comodo avere a che fare con i governi “conservatori” – che li rendono più visibili come “innovatori” – che i governi riformisti che li obbligano ad abbassare un po’ la suoneria?

Mi scuserai ma – con la sola esclusione della riforma Brodolini e del suo statuto dei diritti dei lavoratori – io di governi riformisti o riformatori non ho memoria. Bisognerà attendere il Governo Craxi per averne uno in pieni anni 80. E con quel governo collaborammo dall’esterno e dialogammo produttivamente, senza per nulla abbassare la suoneria. Come dimostrano i referendum sul nucleare e sulla giustizia giusta, promossi insieme ai socialisti, o la politica del dialogo che contrapponemmo sia alla politica della fermezza sia a quella della trattativa e che trovò nel “caso d’Urso” il suo più importante banco di prova.

Inquadrata nella precedente domanda è la rivisitazione sintetica che ti chiedo della posizione dei radicali in generale riguardo al governo Craxi, nel quale alla fine non andò in porto l’idea di ciò che appariva ancora come una interdizione di sistema: portare in qualche modo Pannella al governo, sia pure – si disse – come sottosegretario sul tema dei “diritti umani”.

No, il problema non si pose minimamente in quella legislatura durante il governo Craxi. Sarebbe stato invece possibile nella legislatura successiva con il Governo De Mita. Pannella propose a Bettino di entrare entrambi al governo per condizionarlo dall’interno: ma Craxi riteneva una diminutio per lui entrarvi anche come ministro degli Esteri e naturalmente si guardò bene dal sostenere l’ingresso nel governo dei radicali e in particolare di Pannella. Quel che posso assicurarti è che mai avremmo accettato la nomina di Pannella come “semplice sottosegretario”. Più avanti negli anni quando la proposta fu fatta ad Emma Bonino come sottosegretaria agli Esteri del governo Ciampi, declinammo l’invito ed Emma si dimise. Non eravamo disposti ad entrare dalla porta di servizio.

Entra in scena Leonardo Sciascia. Tua breve descrizione del senso, della novità, degli eventuali vincoli.

Uscivamo da tre anni di dura opposizione ai governi di unità nazionale. Il 1979 era un momento per noi decisivo per mettere alla prova la nostra politica di alternativa democratica. Per farlo presentammo non liste di partito, ma liste per l’appunto di alternativa, raccogliendo parlamentari e intellettuali che si muovevano nella nostra stessa direzione, dai comunisti Alessandro Tessari e Maria Antonietta Macciocchi ai socialisti Aldo Aiello e Franco Roccella, da Gianluigi Melega a Pio Baldelli, da Marco Boato a Mimmo Pinto. Leonardo Sciascia completò il quadro con la sua autorevolezza di letterato e scrittore politico. Era stato per due decenni, da liberale e da illuminista, vicino ai comunisti senza mai essere iscritto al partito fino ad accettare dopo il referendum sul divorzio la candidatura nelle liste del PCI per il consiglio comunale di Palermo. Negli ultimi due anni aveva rotto con i comunisti proprio sulla politica della fermezza e per le scelte compiute durante l’affaire Moro con motivazioni molto simili a quelle dei radicali. Per una intera legislatura lo abbiamo avuto al nostro fianco, impegnato nel nostro stesso gruppo parlamentare e nella commissione parlamentare costituita per indagare su caso Moro e terrorismo.

In questa parte su anni molto pesanti, c’è ancora naturalmente posto nel tuo libro per il caso Tortora. Cosa portò e come incise sulla cultura politica dei radicali?

Prima di Tortora ci fu il “caso Toni Negri”, candidato radicale alla Camera nel 1983. Il processo 7 Aprile fu il capostipite di una serie di processi che definire “macelleria giudiziaria” non è affatto esagerato, fondato su un teorema inquisitorio privo di qualsiasi riscontro probatorio e che i fatti e lo stesso processo hanno dimostrato inesistente e falso: la pretesa di attribuire a Toni Negri e agli altri dirigenti dell’Autonomia operaia il ruolo di “direzione strategica” delle Brigate Rosse. Il caso Negri aveva a che fare con il terrorismo rosso, il caso Tortora con la lotta alla criminalità organizzata (nel caso specifico alla Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo).  Negri era antipatico e Tortora era simpatico, ma per noi entrambi erano il simbolo di un giustizia ingiusta che pretendeva di combattere due gravissimi problemi travolgendo le garanzie e i principi del giusto processo e dello Stato di diritto. Tortora alla fine del suo processo fu assolto con formula piena e lo stesso avvenne per la grande maggioranza degli imputati del 7 Aprile (Negri fu condannato ma per due reati specifici, due delitti comuni che nulla avevano a che fare con le BR). Per combattere terrorismo e mafie, lo Stato democratico non può e non deve abbassarsi al livello di chi deve combattere.

Sintetizzo la tua quarta parte (1985-1989) in una sola domanda che sta nel titolo stesso che hai dato: “Dai diritti civili ai diritti umani”. In particolare ti chiedo il senso che dai all’espressione “Dall’alternanza alla riforma democratica”.

Furono gli anni prima della lotta per la fame nel mondo e poi della trasformazione del partito da nazionale in transnazionale e in transpartito. Si sono espressi molti giudizi anche molto negativi su questa scelta. Rispetto le opinioni di tutti ma consentimi di dire che –qualsiasi cosa se ne possa pensare- quelle scelte hanno avuto il merito di anticipare ciò che in un breve lasso di tempo si sarebbe verificato: l’implosione del mondo comunista, il prevalere del rapporto Nord-Sud su confronto/scontro Est-Ovest, la liberalizzazione degli scambi, l’accesso allo sviluppo di tante parti del mondo prima condannate alla povertà e al sottosviluppo, tutto ciò insomma che oggi definiamo con il termine globalizzazione. Era nostra convinzione, poi confermata dai fatti, che questi processi sarebbero stati rapidi e che, per non produrre nuovi squilibri, nuove crisi e ingiustizie, chiedevano di essere governati. Avevamo consapevolezza della sproporzione dei nostri mezzi, delle nostre possibilità e perciò ci rivolgemmo ad altre forze politiche, in primo luogo al partito socialista e ai partiti laici, annunciando la nostra intenzione di non presentarci più alle elezioni invitando i nostri interlocutori a realizzare insieme a noi forme di unità che da terza forza li trasformasse se non in prima forza almeno in forza determinante degli equilibri politici e del governo del paese.

Torno sull’argomento del passaggio dall’alternanza alla riforma democratica. Era questo il progetto?

Ci arrivavo. Negli anni ‘60 e nei primi anni ‘70 avevamo pensato che l’alternativa si sarebbe potuta realizzare rebus sic stantibus, cioè nell’ordinamento politico uscito dalla costituente. Sul finire degli anni ‘80 ci rendemmo conto che, per realizzare una alternativa, era necessario procedere invece a una profonda riforma dell’ordinamento politico. Di qui la Lega per l’uninominale e i referendum per il cambiamento del sistema elettorale del Senato e per l’elezione diretta del Sindaco e dei Presidenti delle Regioni. Qualcuno ha pensato che tutto questo fosse riducibile a una sorta di mediocre gioco delle tre carte: che Pannella avesse messo in campo tutto questo per ricondurre tutto alla sua persona e sotto il suo controllo, avendo in mente da subito la Lista Pannella. Io penso invece che abbia vissuta quella soluzione se non come un fallimento e una sconfitta, sicuramente come un ripiego e una contraddizione. E penso anche che il transnazionale e il transpartito sia stato concepito anche per ritagliarsi un ruolo complementare e rassicurare Craxi e gli altri leader dei partiti laici. Non solo il frazionismo, ma anche il liderismo è un vizio della politica italiana, che spinge alla divisioni piuttosto che a forme di unità: abbiamo sempre avuto e oggi più che mai continuiamo ad avere tanti candidati leader e poca leadership.

La quinta parte del libro (1989-1996) investe la fine della cosiddetta “prima Repubblica”. E giustamente tu la collochi nel quadro di due crisi: l’implosione del comunismo e la crisi di sistema (nel senso dei partiti) della Repubblica. Perché l’oggettiva “diversità” dei radicali rispetto a queste due crisi non trova una sua aperta e riconoscibile strada?

Già con Andropov e Cernenko e a maggior ragione con l’elezione di Gorbaciov alla segreteria era chiaro che, in breve tempo, sarebbero saltati gli equilibri di Yalta e che nulla sarebbe stato più come era avvenuto nel quarantennio del dopo-guerra. Si poteva ignorare quale esito avrebbe avuto, ma era evidente che il processo era in atto, si sviluppava con rapidità e imponeva a tutti ma soprattutto a un paese debole e di confine come era l’Italia di prepararsi al cambiamento, che a nostro avviso ci imponeva un rafforzamento democratico della governabilità del nostro sistema politico. In quegli anni abbiamo dialogato con tutti, non solo con socialisti e laici, che si sono rinchiusi in sé stessi, presto rinunciando perfino a quelle modeste forme di intesa che erano state possibili nella prima metà degli anni ‘80, ma anche con i comunisti di Occhetto e con gli stessi democristiani. Li abbiamo via via convinti ad alcuni cambiamenti, a sostenere i referendum elettorali, abbiamo concorso all’approvazione della legge Mattarella (storpiata con il nome mutato in latino maccheronico). Ma sono state vittorie parziali, processi rimasti incompiuti. Basta pensare che, nonostante Gorbaciov e i mutamenti già in atto, il PCI si guardò bene dal portare alle sue logiche conseguenze (il distacco dall’URSS) la scelta dell’eurocomunismo, compiuta molto tempo prima da Berlinguer e rimasta a metà del guado, sospesa nel vuoto. Quando Napolitano e Macaluso proposero di mutare il nome del PCI in Partito del Lavoro, Occhetto rispose che sarebbe stato un cambiamento solo nominalistico: era vero il contrario, era una scelta che ricollocava il partito autonomamente nella democrazia europea mentre solo nominalistici si sarebbero rivelati proprio i cambiamenti dei nomi del decennio successivo (PDS, DS, PD). Ancora peggio andò alla DC, che affidò troppo tardi al più integro dei suoi leader, Mino Martinazzoli, il compito di trasformarla e riformarla, nel ricordo di Sturzo, in Partito Popolare.

Aggiungo anche un’altra domanda “maliziosa”: perché i radicali in quella fase vanno verso parole difficili come “transnazionalità” o “transpartito”, come se fosse debole oppure marginale l’analisi del loro concreto riposizionamento verso le crisi in atto?

Siamo stati accusati di aver esagerato parlando di “regime” e nelle accuse di degenerazione partitocratica rivolte ai partiti della cd Prima Repubblica. Ma quei partiti non son stati messi in crisi e non sono morti per le nostre denunce. Sono morti di partitocrazia. Si sono esauriti per la pretesa di continuare a vivere di rendita nella difesa di vecchi equilibri che erano ormai saltati. Sono stati tutti incapaci di autoriforma e di riforma dell’ordinamento politico. Laici e socialisti sono rimasti inerti, immobili in attesa di essere travolti per primi da Mani Pulite, che, in assenza di altri cambiamenti, fu il primo effetto di quella crisi politica. L’ex PCI di Occhetto pensò di salvarsi affidandosi alla illusione della “via giudiziaria alla rivoluzione”. Il Partito popolare di Martinazzoli dovrà presto fare i conti con la discesa in campo di Berlusconi. Una incapacità, un ritardo, un fallimento di cui ancora oggi paghiamo le conseguenze. Di fronte a questo quadro desolante trovo ingenerose e ingiuste le critiche rivolte a Pannella e alle sue (“nostre”) scelte politiche. Nessuno, in una crisi di quelle dimensioni, si salvava da solo.

E dunque, al momento, che piega prese, attorno a questa analisi, l’orientamento politico dei radicali?

Proprio per quel che ho detto alcuni di noi guardarono con speranza alla proposta, poi rivelatasi illusoria, di una “costituente democratica” proveniente dal gruppo dirigente dell’ex PCI. Non ci siamo riusciti ma ci abbiamo provato in tutti i modi e dialogando a 360 gradi con tutti i protagonisti della Prima Repubblica. Il Pannella che vince contro tutti la rivoluzione dei diritti civili non è meno nobile e meno rispettabile del Pannella sconfitto nell’opera, rivelatasi perfino più ardua, della riforma delle istituzioni democratiche e dello Stato di diritto.

Arriva internet nel frattempo e nel tuo ampio trattamento non ci sono apparenti nessi tra il fatto e la situazione di un gruppo politico abituato in realtà alla sua fisicità, al suo vivere nei luoghi, nelle piazze, nei suoi digiuni, nelle sue proteste, in forme non propriamente virtuali.

Perdonami ma neanche questo è del tutto vero. Negli anni 90 “Agorà telematica” fu il primo social network politico che consentiva un rapporto informativo istantaneo e un continuo scambio non solo con iscritti e sostenitori ma anche con semplici cittadini e potenziali elettori.

Siamo al finale. La sesta parte (1996-2005) riguarda la lunga assenza dei radicali dalla vita parlamentare, poi un grande successo delle liste radicali – con l’immagine di Emma – alle europee. Ma in realtà il quadro politico tra l’Ulivo e Berlusconi è stretto. Andò tutto bene? Tutte le scelte di quella navigazione erano necessarie?

Se alludi al rapporto con Berlusconi, ritengo che sia stata una scelta quasi obbligata. Dopo dieci anni di dialogo e di alleanze (nei referendum, in molte elezioni locali), i “democratici” di Occhetto con la gioiosa macchina da guerra ci sbatterono la porta in faccia, scegliendo di cavalcare l’ondata moralizzatrice di Mani Pulite in alleanza con Leoluca Orlando e con i giustizialisti di tutte le risme. Ma anche con Berlusconi Pannella tentò di parlare di riforme. Con lui e con Bossi firmò perfino un documento che li impegnava ad assicurare al Paese una riforma basata sulla triade “Presidenzialismo-Federalismo-Uninominale”, immagino sull’esempio francese. Poi, come spesso accade in Italia, in particolare con Berlusconi, non se ne fece nulla. E ci vollero anni e più legislature per recuperare i rapporti con il centro sinistra, che nel frattempo aveva conosciuto le importanti novità di Prodi e dell’Ulivo.

Perché fu debole e non ebbe lo sperato successo il progetto della “rosa nel pugno”?

La riproposizione nel 2006 del simbolo della “Rosa nel Pugno”, per la presentazione di una lista comune radicale e socialista, consentì ad entrambi i raggruppamenti di superare le condizioni di isolamento cui entrambi sembravano condannati rispetto al centro sinistra e le difficoltà dei rapporti con il gruppo dirigente dei democratici di sinistra. Non fu un grande successo elettorale ma il milione di voti raccolti dalla Rosa nel Pugno fu determinante per la formazione del secondo governo Prodi. Sarebbe stato necessario un salto di qualità, una più impegnativa proposta politica, che nonostante la collaborazione di Pannella e Boselli non si verificò. C’era un ostacolo strutturale, era difficile tenere insieme ciò che rimaneva del Psi che si arroccava in alcuni residui del vecchio potere locale (quello che Nenni chiamava il “partito degli assessori”) e un partito d’opinione e di azione militante sempre proteso verso obiettivi politici di riforma qual era il partito radicale. Ma determinante fu, io credo, l’azione di logoramento condotta da alcuni nello SDI (soprattutto Nencini e Del Turco) e nello stesso PR (l’ex segretario Capezzone, che ho sempre ritenuto estraneo alla cultura radicale).

I radicali spostano un’altra volta su un tema difficile, ma cruciale riguardo alle sviste di una classe dirigente che su questo misura la sua non modernità: la giustizia e le carceri. L’opportunità era di recuperare e consolidare la politica per i diritti. Ma il rischio era anche di scivolare verso l’invisibilità. Come andò?

La rigorosa concezione della giustizia fondata su garanzie del diritto e sulla presunzione di innocenza e l’impegno per un carcere finalizzato alla rieducazione e al reinserimento sociale del condannato sono sempre stati al centro delle scelte e delle lotte radicali. In un certo senso hanno fatto parte sempre del nostro DNA politico e ideale. Altra cosa sono state nel 2013 le liste “Amnistia, Giustizia e Libertà” formate quando già era in atto negli ultimi tempi della vita di Pannella la crisi del Partito Radicale e che porterà, qualche tempo dopo la sua morte, alla divisione consensuale del Congresso di Rebibbia del 2016 e, successivamente, alle divaricazioni in diversi gruppi. Non a caso il libro finisce con la fine della legislatura 2008-2013 e, senza censurarli, si occupa lo stretto necessario di questi avvenimenti. Cerco di lasciarmi coinvolgere il meno possibile nelle divisioni polemiche tra radicali.

Mentre va crescendo una domanda populista e si profilano svolte che un giorno porteranno addirittura ad una maggioranza parlamentare e di governo populista, il Partito radicale appare pieno di ragioni ma al tempo stesso esausto. Da lì a breve il “volar di stracci”. Una tua opinione.

Una giornalista mi ha chiesto se oltre ad avere un passato è ragionevole prevedere per questa storia radicale anche un futuro: le ho risposto che l’ho scritta perché costituisce un patrimonio meritevole di memoria ma anche di riflessione per il contributo che ha dato alla vita politica e civile italiana ma l’ho scritto anche guardando al futuro perché penso che esista in questo paese un deficit di legalità, di democrazia, di riforme per affrontare il quale c’è più che mai bisogno di quel patrimonio di idee e di lotte, di democrazia e nonviolenza.

Ciò che dici apre ad una tua ultima riflessione sulla “settima parte”, che appunto il libro non contiene. Cioè sulle possibilità, le forme, le condizioni, di sopravvivenza della cultura politica di cui stiamo discutendo.

Il populismo e il sovranismo sono per il momento ridimensionati ma non sconfitti. Non sono fenomeni alternativi alla partitocrazia, sono al contrario forme di regressione gravi verso il nazionalismo e l’autoritarismo. Per sconfiggerli definitivamente dobbiamo riformare e rivitalizzare istituzioni democratiche e stato di diritto e far conseguire un salto di qualità in senso federale all’Unione Europea. Contrariamente a quanto pensano i sovranisti, i popoli europei o si salvano insieme o insieme periranno, retrocessi a nazioni di serie b rispetto alle grandi realtà continentali (USA, Cina, Russia, ecc.). Il Novecento è definitivamente terminato e non ci sono salvatori esterni che arriveranno come nel ‘43 e nel ’44. L’Europa deve imparare a fare da sola dando forza politica alla sua dimensione geografica e alla sua forza economica. La nascita di + Europa, di cui sono stato il primo presidente, è avvenuta in Italia tre anni fa, tra mille difficoltà e diffidenze. E forse è stata insufficiente, ma ha avuto il merito di porre questo problema all’intero Parlamento e al mondo politico nel momento più acuto del pericolo populista e sovranista.


Stefano Rolando e Gianfranco Spadaccia (2018)

[1] Gianfranco Spadaccia (Roma, 1935) laureato in giurisprudenza alla Sapienza, esponente dell’Ugi, giornalista professionista, nelle file giovanili dello PSDI, partecipa nel 1955 alla fondazione del Partito Radicale, di cui è stato due volte segretario (1967-1968 e 1974-1976), poi negli anni ’80-’90 deputato e senatore, dal 1989 al 2017 esponente del Partito Radicale Transnazionale, da cui esce partecipando con Emma Bonino alle sorti della formazione Radicali italiani che confluiscono nell’esperienza di +Europa, di cui è stato il primo presidente. Stefano Rolando (Milano 1948, docente all’Università IULM di Milano, con lunghe esperienze di management nelle istituzioni e nelle imprese, collaboratore dagli anni ’70 di Mondoperaio, è stato tra l’altro autore del libro-intervista con Marco Pannella, Le nostre storie sono i nostri orti, ma anche i nostri ghetti, edito da Bompiani nel 2009, alla cui precisione storica di note e riferimenti Gianfranco Spadaccia ha preziosamente collaborato.

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