Pubblicato sul n. 3/2018 della rivista di cultura politica “Mondoperaio”
La rete produce populismo e gerarchizza messaggi.
Ma anche potere in carne e ossa?
Stefano Rolando
Appena dopo l’accertamento dei risultati, è cominciata la ruminazione sui perché.
C’è chi lavora ancora sul livore dello scontro, c’è chi deve salvare qualcosa dal terremoto, chi deve costruirsi il piedistallo intanto guadagnato, c’è chi sta nel disconoscere meriti e rinfacciare colpe.
Poi c’è un ambito del dibattito che ha il distacco per fare emergere argomenti più strutturali. La sociologia politica, per esempio, entra in campo ora. Da un lato ad analizzare i flussi. Dall’altro lato ad osservare nuovi percorsi comportamentali in cui il rapporto tra messaggi e convincimenti, ovvero tra impulsi e decisioni ha agito in contesti cambiati. Il contesto che appare più trasformato rispetto alle precedenti elezioni politiche nazionale è quello della rete, allora fattore di novità e quindi coadiuvante in un teatro ancora dominato dalla televisione, oggi chiamata in causa per la trasformazione stessa del ruolo.
Scrive Aldo Cazzullo, nel breve incipit in prima pagina del Corriere della Sera (8 marzo)[1] di una analisi che poi occupa l’intera pagina dedicata a “Politica e media”: “Non è stata solo la prima campagna giocata in rete, senza comizi e senza manifesti né confronti tv. È stata la prima elezione decisa in rete”.
Aprendo questa pagina in un consiglio di facoltà di un ateneo specializzato nelle scienze della comunicazione (nel mio caso lo IULM a Milano, convocato in mattinata) è facile polarizzare rapidamente tanti sguardi che compongono il puzzle disciplinare che può dare argomentazioni alle diverse sfaccettature del tema sollevato.
La rete dunque presenta infiniti percorsi a zig zag, che si muovono orizzontalmente, apparentemente senza una vera e propria gerarchia. In questo “caos calmo” essa introduce dei restringimenti di campo – ovvero format prestabiliti – molto più dirigistici, molto più incanalanti, di quel che la rete stessa vuole narrare di sé. Per esempio: il format della brevità (al centro i tweet); quello della assertività (non importa argomentare); quello della magicità (una cosa semplice che può accadere come una magia). Il “reddito di cittadinanza” dei grillini e la “cacciata biblica degli immigrati” della Lega corrispondono largamente a questo format. Un format che tende a promuovere forme incontrollate di propaganda.
Leggendo Cazzullo sembrerebbe che i vincitori dello scontro siano – come lo sono – Lega e Cinquestelle perché, con racconto di sé come movimento e quindi non coinvolti dalle responsabilità narrative di chi governa (e noi non ci dimentichiamo che invece si tratta di soggetti alcuni di lungo corso nelle responsabilità di governi, altri che ormai devono anche “rendere conto” e non più soltanto “invocare al futuro” per la responsabilità già assunte), sono stati soggetti capaci di liberarsi da ogni maschera governativa assumendo quella movimentistica e fondamentalista di poche proposte rivolte alla pancia del paese. Dall’altra parte uno sconfitto per eccellenza, il centrosinistra di governo (con al centro il PD); anche perché si è fatto carico identitario e narrativo della responsabilità di spiegare e contestualizzare, non ha trovato formule semplificate e ha depositato poco nella memoria frettolosa dell’elettore.
Già su questo il dibattito improvvisato davanti alla pagina del Corriere offriva qualche spunto.
Nessuno ha impedito al PD e ai suoi alleati di avere una creatività più sviluppata per semplificare una narrativa “realistica” dandole carattere comunicativo. Nessuno ha obbligato i leader del PD a fare anche loro e a getto continuo comunicazione tweettara, dello stesso segno di quella più impattante della Lega e di Cinque Stelle (da Renzi che annuncia temi più complessi nel rigore delle 140 battute a Calenda che sceglie l’ingresso da “problem solver” nel PD con altre 140 battute salutate dalle 140 battute di applauso dal primo ministro Gentiloni). Tanto è vero che Cazzullo ad un certo punto constata che di fronte al sorgere di nuovi processi e nuovi protagonisti della democrazia digitale “se ne è accorto anche Renzi, che è stato capace all’inizio di deviare nelle proprie vele il vento dell’antipolitica da cui alla fine è stato travolto…mentre Minniti rivendica con orgoglio di non essere sui social anche se è stato il protagonista della svolta sull’immigrazione andato nel deserto a trattare con i capi beduini ma senza farsi neppure un selfie”.
In più qualcuno avrà letto in questi giorni il resoconto del “laboratorio volontario” dell’esperto tecno del New York Times, Farhad Majoo, che è stato fuori da ogni contaminazione dei social per due mesi – lui! – per dichiarare: ”Sono più informato, ho letto più libri, sono pure diventato un papà migliore”[2].
A parte questa rivincita morale dell’editoria che appare come un “onore delle armi” di una battaglia segnata, il tema che va maturando non è di audience, è di “produzione di potere”. Dunque la rete “protagonista e decisionale” obbligando a soluzioni populiste, farebbe la differenza; mentre i canali argomentativi (giornali e tv, certo più presidiati dalle forze sconfitte a sinistra come il PD e a destra come FI), condannano queste forze a restare al palo. Quella stessa rete, va ricordato, che ha voluto Brexit e che ha voluto Trump.
Il laboratorio disciplinare sulle comunicazioni che oggi pensa e propone letture di sistema considerando ormai imprescindibile la rete è scosso ma non convinto. Ed è per ciò che questo articolo viene scritto al ping pong, da me che pongo un problema generale di trasformazione della comunicazione pubblica e politica e da Andrea Carignani, che in IULM insegna innovazione delle tecnologie della comunicazione, che non si arrende e sceglie la via del ricordare le potenzialità inespresse – anche rispetto alla politica – del sistema. Ecco la sua opinione.
La rete “ospita” populismo, potere e di tutto un po’.
Ma ci sono condizioni alternative.
Andrea Carignani
L’affermazione che si tratti della “prima elezione decisa in rete”, scritta da Aldo Cazzullo, non mi convince fino in fondo.
Se da un lato i numeri evidenziano un ruolo crescente di elettori che “provano” ad utilizzare la rete come strumento per informarsi sulle questioni politiche, dall’altro lato la formulazione di un’opinione politica in Italia sembra essere caratterizzata da una dieta mediatica molto equilibrata in cui giornali e TV svolgono ancora un ruolo chiave soprattutto in alcuni segmenti socio-demografici, e da un ruolo determinante delle relazioni sociali (non digitali) rappresentate dai rapporti con amici e familiari.
In tal senso la sensazione è che il ruolo della rete fosse stato molto più rilevante e determinante cinque anni fa quando rappresentò il palcoscenico innovativo per un movimento nato dal nulla e (auto)censurato in televisione. E contemporaneamente un contesto di prima reale sperimentazione per gli altri protagonisti della politica.
La realtà delineatasi (anche nel recente periodo di campagna elettorale) è che in rete, grazie ai social media, tutti parlano e tutti vogliono parlare. Non tanto spinti dal desiderio di contatto e relazioni come il fuorviante termine “social” indurrebbe a pensare, né tantomeno per l’interesse al contenuto che si dichiara di voler comunicare; ma fondamentalmente perché si è interessati a sé stessi, anzi peggio, alla propria presenza digitale e alla sua valorizzazione.
Un “vizio” in cui cadono tutti: dalle firme autorevoli ai politici più digitalizzati, dal militante aggressivo al contributore occasionale.
Nessuno osa alzare il livello. E chi, “sdegnato dal populismo dilagante”, dice di provarci, lo fa cercando di condensare in 140 caratteri su Twitter pensieri che richiederebbero ore di approfondimenti.
Un totale appiattimento verso il basso. Uno scopiazzamento (spesso mal riuscito) di tecniche di marketing digitale che ormai hanno fatto il loro tempo e da cui anche i grandi brand stanno pian piano allontanandosi.
Vengono chiamate “vanity metric” (e mai nome fu più azzeccato). Follower, like, fan e condivisioni. L’unico vero obiettivo per cui chiunque posta, twitta o contribuisce online. Da un lato facile e rapido strumento di espressione di un’opinione o di uno stato d’animo (basta un click) dall’altro oggetto del desiderio di chiunque voglia ottenere o mantenere visibilità digitale.
E così la competizione politica sul digitale si trasforma in una gara a chi ottiene più follower tra Salvini e Berlusconi o più retweet tra Renzi e Di Maio e poco importa (o viene compreso) se i follower siano fake, semi-fake o quasi fake e se si stia comunicando la posizione del Governo rispetto ai trattati di Dublino o le tecniche per fare bonifici online e poi cancellarli.
Così non può sorprendere se uno dei tweet più apprezzati sotto l’hashtag #elezioni2018 sia quello di una foto di pennuti in uscita da un pollaio accompagnato della descrizione “Exit Poll”.
Nessun format innovativo, pochissimi sforzi di dirottare il dibattito su contenuti alternativi la cui assenza è eclatante sia in termini di forma che di sostanza.
Basti pensare che i programmi elettorali delle prime cinque forze politiche in campo (lascio a colleghi più esperti la valutazione di merito sull’efficacia comunicativa) siano stati resi disponibili in formato PDF. Un’oscenità digitale, per la quale è difficile anche trovare paradossi efficaci: un passaggio in radio in alfabeto Morse? un’ospitata “mimata” ad un dibattito politico?
Scenari surreali ma tuttavia non sufficienti a rappresentare l’attuale inadeguatezza della politica rispetto all’evoluzione dei modelli di comunicazione e condivisione digitale. Insomma quello del digitale appare un terreno inesplorato con enormi opportunità di crescita e innovazione, e contesto di riflessione obbligatoria per la comunicazione politica e istituzionale.
Tra non usare i Social Media lamentandosi del livello inadeguato delle conversazioni e postare banalità ogni quindici minuti vi è una vasta scala di possibili utilizzi della rete che sembra essere ad oggi quasi totalmente inesplorata da parte della politica italiana.
Vi è uno spazio enorme per produrre contenuti di valore, adattarli ai target di riferimento, semplificarli per renderli fruibili sui canali che gli elettori prediligono utilizzando formati che hanno dimostrato di essere efficaci in altri contesti. Una infographic sui reali dati dei flussi migratori o un breve video tutorial sul funzionamento del sistema pensionistico (giusto per citare due dei format più apprezzati tra gli utenti della rete e quasi completamente assenti dalla recente campagna elettorale) forse non avrebbero cambiato gli esiti della competizione elettorale ma di certo avrebbero contribuito ad introdurre gerarchie alternative rappresentando allo stesso tempo un utile strumento di approfondimento per i più curiosi, un’arma di dialogo per gli attivisti, e un prezioso set di contenuti da condividere e valorizzare anche per i fondamentalisti delle metriche vanity.
[1] Aldo Cazzullo, Perché tutto si gioca in rete, Corriere della Sera 8.3.2018
[2] Farhad Manjoo, Due mesi senza social rinato grazie ai giornali, la Repubblica, 11.3.2018