Articolo pubblicato sulla rivista Mondoperaio n. 3/2022

Stefano Rolando
Questo breve testo è scritto per andare alla ricerca di radici, minoritarie ma significative, di una sorta di giustificazionismo che aleggia in alcuni ambiti del sentimento politico italiano (estendibile anche a parti dell’Europa) nei confronti di un attivo “ruolo forte” della Russia nello scenario internazionale. Che arriva a far cogliere talvolta più ragioni che torti nell’ingiustificabile attuale aggressione della Russia di Putin nei confronti di uno stato sovrano, rivendicato come cosa propria per intrecci storici e nostalgie della divisione radicale tra Occidente e Oriente europeo. Per vederne, dunque, il pur distorto continuismo, e per constatare che la lezione storica di grandi autori, che hanno riflettuto sulla vicenda di quel pur grande Paese e grande popolo (da Karl August Wittfogel nel suo “Dispotismo orientale” al più recente François Furet nel suo “Il passato di un’illusione. L’idea comunista nel XX secolo”), lascia aperti ambiti della nostra attuale cultura politica rispetto alla pur vasta azione pedagogica che questo genere di riflessioni ha prodotto.
Si deve certamente partire dallo sconquasso sociale della Prima guerra mondiale – popoli usati come carne da macello e cannoni per rettificare confini – per vedere in che modo la Rivoluzione russa si collochi come una forte narrativa di riscossa e di giustizia del Novecento, lasciando una scia indelebile per tutto il secolo.
Con l’uscita di scena di Trotzki, il leninismo perde tuttavia la complessità del pensiero modernizzante (“soviet più elettrificazione”) e l’imprevista morte dello stesso Lenin prepara la trasformazione burocratica e dispotica della Rivoluzione. Che tuttavia rigenera il suo simbolo di forza decisiva nella più grande resistenza umana al nazismo (pagando a Stalingrado il prezzo di un milione di morti per l’assedio affamatore della città da parte dei nazisti) e nella occupazione materiale e simbolica di Berlino, che pone fine alla Seconda guerra mondiale e costringe Hitler al suicidio.
Con la colonna sonora dell’Internazionale e la promessa secolare della futura Rossa Primavera, la bandiera sovietica sotterra le nefandezze criminali di Stalin e trasforma in una questione per studiosi il fallimento socioeconomico della dottrina marxista applicata ad un Paese ignaro di qualunque esperienza di democrazia e di articolazione delle classi sociali. Sventola dai pinnacoli del Cremlino fino al più remoto circolo operaio della Pianura padana come il più forte canto di emancipazione capace persino di competere con il cristianesimo. Tanto da vivere nel nostro Paese in un connubio empatico inventato da un sagace scrittore di destra, come Guareschi, sconfinando nel lungo dopoguerra dopo avere riscosso elettoralmente l’investimento del più alto tributo di sangue pagato (insieme agli azionisti) per la resistenza e la guerra di liberazione.
Il sostegno di una “comprensione” figlia di tutti gli stereotipi che per un secolo hanno identificato nella Russia valori che appartenevano solo alla sua propaganda.
I carri armati sovietici a Budapest nel 1956, e poi a Praga dodici anni dopo, faranno perdere qualche scheggia dei gruppi dirigenti, ma non faranno perdere fedeltà al posizionamento anti-occidentale dei comunisti e neppure un voto di provenienza popolare.
L’ambiguità e la doppiezza di una classe dirigente che si rivelerà dalla parte sbagliata della storia in tutti gli appuntamenti fatidici della democrazia repubblicana italiana, resterà un argomento per gli addetti ai lavori. Il popolo italiano non catturato dagli ideali cattolici della DC o dal più difficile progetto del gradualismo riformista, vi leggerà il rovescio della medaglia, cioè il fiume di parole speso a sostegno della povera gente.
E ci vorrà solo la caduta del muro di Berlino e l’impronunciabilità continentale della parola “comunismo” per mettere fine ad una mitologia coltivata per tutto il secolo.
Alla fine del quale, la sparizione di connotati popolari e operaisti nella politica rappresentata in Italia a sinistra (gruppi dirigenti in fuga dal proprio passato), sposterà una parte consistente del voto operaio verso il populismo leghista. Proprio quello che si ergerà a difendere i posti di lavoro dei “plebei garantiti” spostando sulla gioventù fascistoide la fascinazione per il vincitore della dura lotta per sostituire la romantica perestrojka di Gorbačëv nel ritorno del leader d’acciaio.
Quella figura di “capo” che il giudoka ed ex cinico membro del KGB Vladimir Putin, pur spostandosi politicamente di 180 gradi, alimenta meglio di altri. La alimenta in casa propria in nome della grandezza della Madre Russia e all’estero nel disprezzo per la furbizia spesso senza ideali della borghesia europea e, in generale, per il capitalismo verniciato da cultura liberale ma costruito ancora sul paradigma delle disuguaglianze. Tutt’altra storia ha, naturalmente, l’apprezzamento, il riconoscimento, l’amore di chi ha voluto culturalmente avere accesso appunto ai punti di forza di un popolo nel campo della cultura, dell’arte e della scienza. In quella creatività c’è stata anche molta sofferenza nei confronti di una storia e di un destino, che lasciano questa partita ben distinta dal giudizio politico.
Errori tattici, trascuratezze diplomatiche, strumentalismi connessi a convenienze economiche sono avvenuti nel modo con cui l’Occidente ha trattato il soggetto politico che esprimeva una certa continuità geopolitica con il nemico storico.
Se non si parte da questa parabola (qui espressa con la velocità della luce) non si può capire perché Putin abbia infatuato settori non marginali della politica italiana (e diffusamente in Europa) e ben inteso ambiti di un elettorato che ha trasferito in pochi anni il voto dalla sinistra alla destra dello schieramento politico. Destinato a irrilevanza va invece considerato il corteggiamento di Putin fatto da Berlusconi nel convincimento qualunquista che, in assenza di una vera politica estera, l’Italia mantiene il suo appeal mescolando soprattutto lusso e spaghetti.
A Putin andava bene sapere che gli Stati Uniti consideravano Berlusconi un parvenu da tenere marginale, per fargli credere un’amicizia con attaccato al più qualche affare. È nelle pieghe di questi ambiti di coltivazione di rapporti che si è cacciata la Lega di Salvini in fase di reinvenzione di ruolo.
Con l’idea aggiuntiva di sistemare anche i suoi conti scassati e i suoi ripianamenti di frequenti intrusioni personali del gruppo dirigente nelle casse del partito. E portando a beneficio, comunque, una miseria rispetto ai colpi grossi fatti da figure come Gerard Schroeder, passate armi e bagagli nel grande lobbismo russo. È all’interno di questi ambiti di destra, sommati a qualche nostalgia per l’antica storica dipendenza russofila di sinistra, che vanno cercate oggi le posizioni di chi – a fronte della plateale invasione antistorica dell’Ucraina da parte di un Putin violento, manovratore cinico di superiorità militare e di continuità propagandistica – cerca di rappresentare giustificazioni nel dibattito pubblico italiano su questa guerra.
Esprimendo il sostegno di una “comprensione” che è figlia di tutti gli stereotipi che per un secolo hanno identificato nella Russia valori che appartenevano solo alla sua propaganda. Il nervosismo di Putin diventa per costoro un fremito di un intero Paese che vive il ritorno ai confini dello zarismo e poi del sovietismo come una cosa ragionevole. Tanto ragionevole da giustificare anche l’aggressione a uno Stato sovrano bombardando case, scuole, ospedali e persino le centrali nucleari.
Lo sdegno per l’avanzata delle linee difensive della NATO fino a Paesi che, in realtà, sono parte integrante della UE e che aderiscono legittimamente alla NATO, viene vissuto, in chi ha maturato quel retroterra di condivisione, come una ragione inoppugnabile per scegliere la via barbarica di mettere a ferro e a fuoco un paese di 40 milioni di abitanti anziché aprire, con la diplomazia politica ed economica, i tavoli oggi esistenti per assicurarsi le garanzie di sicurezza necessarie.
Ben inteso questa breve riflessione riguarda ambiti di opinione politica, al netto del vasto coinvolgimento negli interessi della Russia putiniana di un lobbismo italiano ben retribuito, costruito in ambienti diplomatici, giornalistici e professionali di cui parla nel dettaglio, con nomi e cognomi, l’ultimo fascicolo dell’Espresso diretto da Marco Damilano.
Naturalmente errori tattici, trascuratezze diplomatiche, strumentalismi connessi a convenienze economiche sono avvenuti nel modo con cui l’Occidente ha trattato il soggetto politico che esprimeva una certa continuità geopolitica con il nemico storico. A cominciare, forse, anche dal voler troppo mantenere la demarcazione tra Occidente e Oriente, a volte con la stessa determinazione che ha la Russia putiniana, senza leggere adeguatamente che l’ampliamento verso est della UE dovrebbe aver fatto maturare una diversa percezione geopolitica.
Ma se, per non sopite infatuazioni, queste insufficienze danno luogo addirittura a riconoscere “ragioni” del muovere una guerra di occupazione,si ha il dovere di ricorrere a ciò che gli elementari valori delle democrazie liberali e delle dichiarazioni umanitarie internazionali considerano, senza remore, vere e proprie inaccettabilità. E per quanto ci riguarda, come europei, la lezione che ci viene proprio dal nostro passato colonialista mette al riparo da una impensabile inibizione a riconoscere, a tanti anni di distanza, qualunque neocolonialismo sostenuto dalla deterrenza nucleare e da una storica continuità dispotica.