
Un saluto e un ringraziamento a tutti i partecipanti.
Una dozzina di anni fa prendeva le mosse qui a Milano – con nessi vivi con altre città e comunità – qualcosa rimasta, nel corso del ’900, dentro la mitologia di figure speciali che si impegnavano fuori dai partiti ufficiali per scopi civilmente o socialmente importanti, spesso in controtendenza di sistema o di avanguardia.
Ogni tempo ha visto alzarsi – e poi magari anche spegnersi – questo vento.
Parlo del civismo. Storia che viene da lontano, lontanissimo.
Quando all’inizio del secondo millennio dopo le ex-dimensioni imperiali e il nomadismo dei popoli viene scoperta l’importanza delle città. E nelle città si scopre che tra principe e popolo si costruivano tessuti intermedi (dalle università alle corporazioni) in cui sapere e saper fare fondavano culture politiche diverse dall’autocrazia e – oggi diremmo – dal populismo. Culture partecipative, fondate sulla responsabilità.
Non ripasso certo ora mille anni di storia. Dico solo che, nel clima di già evidenti segnali di crisi dei partiti, quel che avvenne nel 2011 a Milano e poi nel 2013 in Lombardia costruì un modello di civismo progressista, che proponeva un patto ai partiti, per sviluppare politiche in cui contava avere legami forti con il territorio ma anche capire il mondo, capire le cose buone e quelle cattive della globalizzazione, fronteggiare l’era già iniziata delle transizioni. A Milano (campagna Pisapia) ci fu un recupero del municipalismo, che risaliva al riformismo di Emilio Caldara, che teneva in tensione culture laiche e cattoliche, popolari e borghesi per un’alternativa al modello esaurito del centro destra. In Lombardia (che con la campagna Ambrosoli sfiorò la contendibilità) la campagna fu basata su un “patto civico” a traino civico. “Patto” che purtroppo non riuscì a mantenersi nella legislatura, alla fine evaporando. Ma quelle esperienze contaminarono molti contesti. Alcuni partivano da storie proprie, a forte carattere locale cioè sulle dominanti diverse dei territori. Altri si erano posti il problema di rigenerare competenze e capacità amministrative che la sparizione di alcuni partiti con lunghe esperienze di governo avevano emarginato e che tornavano in forma di responsabilità individuale al servizio di città e territori. Anche oggi il sindaco di Milano Sala e una parte qualificata del governo della città non sono espressione di partiti e fanno richiami al civismo.
Negli anni attuali dell’emergenza
Questa onda infatti è arrivata fino a oggi. In cui la crisi della politica italiana ha avuto prima la convulsione del legame tra sovranisti e populisti, un vero fondo toccato a proposito delle soglie minime di competenza. Poi il limite di non trovare soluzioni di governabilità con nessuna maggioranza possibile. Infine, l’insostenibilità di questo vuoto con lo scoppio della crisi sanitaria e da lì la dichiarazione formale di crisi dei partiti e la creazione di un governo di emergenza. Nell’emergenza, ogni paese europeo ha vissuto e sta vivendo una relazione di ansia che tiene in bilico sulla bilancia sia evoluzioni peggiori, sia potenzialità di riequilibrio e di rigenerazione.
Potenzialità a cui ognuno risponde rivisitando le proprie storie, le proprie radici, le proprie esperienze.
- Lo devono fare, se vogliono avere futuro, i partiti rappresentati.
- Lo devono fare, per esistere come soggetto interlocutore nella crisi ultra-nazionale, anche i civici provando a saldare dinamiche dei singoli nuclei nella scoperta di una dimensione nuova e diversa.
Una dimensione che pure ha fatto parte delle culture civiche di scopo sociale del ‘900 (dall’ambientalismo al rinnovamento educativo, dai diritti civili ai movimenti per la legalità).
E che ora risponde a una constatazione: il localismo fa vedere da vicino i problemi, ma spesso mette in posizione lontana e inafferrabile le vere soluzioni.
Il sentimento che questo vento si alzava per riproporre a singole esperienze locali e al loro interno a singole coscienze individuali una nuova aggiornata chance, nell’epoca di emergenze che danno vita alla necessità di governare le principali transizioni del nostro tempo (ambiente, tecnologia, modelli produttivi e di consumo, energia, occupazione, lotta al nuovo analfabetismo), comporta una scelta: cambiare il modello di far politica.
E con esso il modo di concepire la cultura delle alleanze, di organizzare la richiesta del consenso, di condizionare la politica ad avere idee a misura di bisogni reali. Non condizionare i bisogni reali a continuare a sperare che sia la politica a fare regalie per cacciare i sintomi senza affrontare le cause.
Anche se dalle storie dei partiti politici vanno ben riguardate alcune pagine ammaestranti. Il mio compianto amico Gigi Covatta ha dedicato forse con nostalgia il suo ultimo libro alla ruolo della politica come pedagogia civile (dentro questo tema c’è molto servizio, c’è l’etica del cursus honorum, c’è un sintesta che a suo modo conteneva e frenatava inutili personalismi).
Nel 2020 – a pochi mesi dall’avvento della pandemia – per antica frequentazione, collaborazione, amicizia, tenni per alcune ore il registratore aperto in una ampia conversazione a tutto campo con Piero Bassetti, che è tra chi ha più ha sostenuto il percorso che ci porta qui oggi e che interverrà verso la fine dei nostri lavori.
Parlando di molte cose, in quella riflessione a tutto campo sulla pandemia (Glocal a confronto era il titolo di un piccolo ma intenso testo che vedeva le cose evidenti senza retorica e vedeva le cose non evidenti senza dimenticare la responsabilità di una scelta), arrivò anche la domanda sul civismo. La domanda era:
I valori invocati tradizionalmente dal civismo che rapporto hanno con questa crisi?
Questa la risposta: Più volte, in ricorrenze che ci riportavano a Cattaneo, abbiamo fatto ritorno a una scuola di pensiero che mostra i suoi anni. Bisogna stare attenti, perché l’etimo di Civis era proprio del mondo di allora. E civile era il miglior mondo politico possibile. Ma la dimensione del nostro trattamento era sostanzialmente “local”. A fianco, a lato, oltre a ciò, la trascendenza. Che nel farsi della storia è ridiventata “global”. Chi da tempo, chi da ora (nel senso sulla scia della lezione di questa pandemia), comprende che separando i piani non si capisce la mutazione delle cose. Il campo di battaglia è quello di ricomporre la frazione tra il demos globale e il momento locale. Ed è il valore del trattino quello che conta. L’idea dell’illuminismo era di portare “sapienza” nel denominatore (il local). Ma il panta rei degli eventi ha logorato, se non distrutto, l’idea che il grande sia più importante del piccolo. Anzi, ha riposizionato il piccolo in un nuovo rapporto con il grande. Così siamo arrivati a leggere persino i limiti di Cattaneo: un forte pensiero per il piccolo, un pensiero più debole sul grande. Cioè fragilità percettiva sul global.
Il quadro delle responsabilità di questo movimento
Il movimento di dialogo e apertura di ipotesi nel sistema dei radicamenti soprattutto del Nord si deve alla cocciutaggine, forse anche alle delusioni, comunque al pragmatismo operativo e alla capacità di giudizio di Franco D’Alfonso. Franco ha recuperato, in un tempo che avrebbe potuto essere infinito e che invece è stato in sintonia con la “macchia d’olio” esperienziale che si andava formando, soprattutto i cambiamenti che intervenivano in alcuni contesti. Cito tra tutti e come esempio vistoso Torino, che ha portato la sua lista civica nell’alleanza di governo della città. Francesco Tresso e Paolo Verri sono tra di noi. Poi ambiti della Lombardia, ovviamente Milano che ha continuato a vedere questo approccio svilupparsi. Del Veneto, dell’Emilia-Romagna, della Liguria, di altre parti del Piemonte. Poi l’apertura all’Umbria. Infine, nella crisi e nell’involuzione della politica della Capitale – dopo gli anni irraccontabili della giunta grillina – anche una tessitura locale a Roma e nel Lazio. Con un’organizzazione politica che ha avuto in Giampaolo Sodano un altro diesel capace di riunire in una strategia regionale orfani di molte storie che la trans-territorialità la avevano già sperimentata in altri tempi. In questi giorni Giampaolo ha presentato il suo “diario” in forma di libro di questa esperienza di capacity building. Il terzo segmento è stato una sorta di movimento ispirato ad una Teano immateriale dei nostri tempi, dico scherzosamente, quando Claudio Signorile, con lungo lavoro tutto rivolto al Sud, dopo il suo protagonismo di partito e di governo, ha creato le condizioni partecipative di Mezzogiorno Federato che oggi si profila come forza civica di contesa della stessa Regione Sicilia.
Vorrei dire che non facciamo né illazioni, né sospiri di nostalgia, sul fatto che questi tre soggetti di spinta vengano da una riconosciuta esperienza politica di un partito ormai minimizzato, come il Partito Socialista. Nessun reducismo. Questa non è la fase di restaurazione di modelli in cui sono cresciute generazioni e classi dirigenti, modelli che hanno poi arrestato la loro capacità creativa conservando in tante persone relazioni fraterne ma soprattutto gli strumenti di adattamento e di riconoscimento dei contesti di nuove progettazioni.
In realtà il pluralismo delle provenienze è complesso.
Si è completata così quella tenaglia territoriale che integra molte storie già in evoluzione convergente.
E ciò nel quadro di crisi – prima quella sanitaria ora quella della guerra in Europa – che spingono verso la ripresa vocazionale comune di un rinnovamento federalistico e integrato dell’Europa. Obiettivo che ha messo in atto l’ultima fase di ampliamento delle convergenze. Mi riferisco all’intuizione di fine 2021, all’atto della formazione del governo tedesco attorno a tre chiare spinte di discontinuità.
- Cercare una maggioranza che ponesse al lungo ciclo di traino democristiano il giusto momento di alternativa, rinunciando all’eccesso di mediazioni di quella pur lodata guida della cancelliera uscente.
- Assumere le priorità sociali legate sia al welfare che ai salari minimi.
- Esprimere uno guardo strategico alla transizione ambientale. E al tempo stesso alla velocizzazione del progetto di un vero piano di revisione del modello di sviluppo industriale sulla base dei cambiamenti che le crisi avevano e hanno ingenerato.
Come si sa, è il modello Semaforo che dà il nome a quell’alleanza programmata nei dettagli tra il rosso dell’SPD, il giallo dei Liberali e il Verde di un forte partito ambientalista.
Le situazioni non sono paragonabili e il terreno di trasferimento, di allusività, diciamo nel nostro caso è determinato non da partiti politici di tradizione, ma da movimenti civici in grado di rigenerare rapporti e alleanze. Tuttavia questa allusività ha ispirato una fase di interlocuzione (anche con esponenti delle forze di governo in Germania) e confronti in cui si è aperta l’opportunità di ricerca di ambiti omologhi da parte dei movimenti ispirati dalla cultura della sostenibilità: Fare Eco (con a capo Lorenzo Fioramonti ex-ministro e Rossella Muroni già dirigente di LegaAmbiente, entrambi parlamentari del gruppo misto) e Alternativa per la Transizione Ecologica ispirata da un ex-ministro dell’Ambiente che ha costruito in modo non sciupato come altri l’opzione ambientalista e le normative in questo campo, parlo di Edo Ronchi.
E parlando di Europa e di nuove dinamiche fatemi almeno citare il risultato confortante delle elezioni francesi e l’approccio alle possibilità di nuova integrazione a cui il premier italiano Mario Draghi (a suo modo un civico istituzionale) ha dato (nel suo ottimo discorso al Parlamento europeo del 3 maggio e nell’approccio tenuto successivamente alla Casa Bianca) una sollecitazione forte a nome dei Paesi Fondatori immaginando bilancio, forze armate e garanzie sociali come ambito di revisione dei Trattati. Questo – sia detto qui per chiarezza di posizione – in un riconoscimento senza veli del coraggio e della necessità della resistenza ucraina e del dovere dell’Europa di promuovere da ora il negoziato di pace con un Paese che chiede tuttavia di stare nella nostra Europa da vivo. È questa la rete dei soggetti (non mi riferisco a Draghi, ben inteso…) che sta procedendo con congressi separati ma connessi verso una fase che corrisponde al periodo più complesso e difficile del rapporto in Italia tra politica ed elezioni. Le crisi producono un nuovo terreno di rapporto tra domanda e offerta ma cresce anche vistosamente l’astensione. Tema su cui il civismo, per definizione e storia, offre alla democrazia italiana un contributo di ragionevole contenimento.
Per una nostra discussione di qualità e di proposta.
Spero di avere fatto adeguata sintesi delle ragioni lontane e vicine che creano opportunità e possono avere robusta evoluzione positiva verso soluzioni che apparivano irraggiungibili, dove le relazioni dei partiti politici si vanno facendo più conflittuali. C’è chi chiama questo “un campo aperto”. Non posso e non voglio entrare nella dinamica di discussione che è propriamente quella congressuale. Posso e voglio invece ringraziare di cuore tutti i rappresentanti di diverse esperienze – a cominciare dai partiti italiani rappresentanti in Parlamento – che hanno accolto l’invito e che partecipano a un confronto che ci onora, nel senso che lo valutiamo come ricerca di opportunità democratiche finora rimaste in ombra a livello nazionale.
Ho portato un filo di esperienza nella scrittura dei documenti di base e mi è stato chiesto di aiutare la discussione interna, spiegando il nostro percorso di avvicinamento. Auspico che le commissioni ovvero i gruppi di lavoro tematici interni sappiano fare emergere per poi farne sintesi tante cose che questo mio contributo lascia solo intravedere.
La preghiera ai congressisti, che sono espressione dei soggetti civici a cui ho fatto cenno, è che provino in questa occasione a mettere a punto linguaggio e riferimenti concettuali diversi dal professionismo del posizionamento politico (sto un po’ più a destra/sto un po’ più a sinistra; mi alleo con questo/mi alleo con quello) – una cultura del marketing che è ormai la più diffusa nei militanti organizzati – per aiutare un processo a cui stanno a cuore altre cose: il consolidamento identitario; la genuina capacità di studiare e gestire soluzioni concrete; l’amore per le proprie comunità e per i propri territori; un pensiero aggiornato su un’Italia in cui la crisi democratica è di pari peso di quella sanitaria e sociale.
Lo spazio di analisi in cui si muove questa nostra aggregazione civica, che ci impegna da anni, è ora una condizione libera da ipoteche del passato e capace di tenere in tensione territori radicati e territori ideali.
Provo a dirla così: la condizione in cui le nostre comunità devono essere governate senza malaffare e la nostra Europa deve rigenerare presto condizioni valoriali condivise contro le ipotesi antidemocratiche.
Il nostro programma è fitto. Il ringraziamento a chi ci ha lavorato è sentito. La locandina scandisce un diritto di parola che riguarda molti che non firmano cambiali in bianco ma che hanno accettato con generosità di fare cantiere. Sapendo che la coabitazione che sperimentiamo deve indurre a saggezze, regolate non solo da prudenze ma anche da coraggi.
Quanto ai giovani – questa la mia conclusione che considero l’unico messaggio attuativo – il dovere della mia generazione non è quella di considerarsi occupatrice di spazi, ma responsabile di una testimonianza che faciliti per i giovani quella prudenza, quel coraggio e soprattutto la severa libertà di sentirsi utili.
