Taccuino Ucraina. La guerra e la distorsione intrecciata tra destra e sinistra.

Siamo ancora al buio.  Quando non si sa né come andrà a parare, né se nella crisi matureranno un’Europa e un’Italia migliori.

Testo pubblicato sul fascicolo n. 5/2022 della rivista mensile Mondoperaio (in circolazione dal 25 maggio 20220)

Stefano Rolando

La fase dei bombardamenti russi sulla capitale Kiev

È in corso un nuovo scompaginamento delle categorie di analisi e produzione della politica più invalse nei due secoli che hanno fatto seguito prima alla Rivoluzione francese e poi alla Rivoluzione russa, quella di “destra e sinistra”.

Che si mescola con una sorta di scomposizione e brutale ricomposizione dei tempi della storia e delle forme della modernità (tra sprezzo dell’umanità e stereotipi religiosi). Soprattutto in una arbitraria derivata imperialistica che connette le varianti del dispotismo russo, dallo zarismo allo stalinismo.

Parliamo, ovviamente, della vicenda della guerra scatenata da Vladimir Putin (“senza ragioni e senza giustificazioni” per tre quarti della popolazione europea occidentale) varcando i confini di uno stato libero e democratico come l’Ucraina.

Il Cremlino ordina, come è noto, il 24 febbraio l’invasione dell’Ucraina all’insegna di una sorta di ineludibilità per gli eredi della Stalingrado assediata dai nazisti: attuare la “denazificazione” della stessa Ucraina. Nell’idea comunque che l’Ucraina, come identità statale, “non esista”.

Gli ucraini invece, dimostrando un patriottismo di tradizione europea, affondano il progetto di “blitzkrieg” di Putin e costruiscono – con il sostegno delle democrazie occidentali – un progetto popolare di resistenza all’invasore.

La frustrazione per il fallimento militare del rapido assoggettamento di un paese che già si immaginava di sottomettere, come un’altra Bielorussia, produce lo scatenamento nelle truppe russe in ritirata dall’assedio alla capitale Kiev di un sentimento se non ordinato certo condiviso dal tiranno a Mosca: punire i riottosi.

E da Bucha a Mariupol a Kharkiv si apre l’inventario del dossier della Norimberga dei russi.

Che ci sarà o non ci sarà diventa relativamente importante. Perché mediaticamente essa è già stata celebrata.

Come ormai si sente e si legge diffusamente, il ruolo della NATO (le cui barriere missilistiche sono collocate “a scopo difensivo” ai confini di questo territorio ormai di guerra) e del suo principale soggetto di governance, gli Stati Uniti d’America, agisce nel dibattito pubblico anche dell’Occidente (e quindi anche dell’Italia) creando varianti interpretative e modificando la gerarchia delle valutazioni.

Cioè introducendo tanti “se e ma” che, salvo alcuni utili approfondimenti seri,  la valutazione ormai non derogabile dell’invasione russa non dovrebbe prevedere.

Una componente (sia detto con chiarezza, non prendendo in blocco)  del pacifismo organizzato – di per sé valore civile e politico  – si salda giorno per giorno con elementi della nostalgia comunista,  con elementi del nazionalismo antiglobalista, con elementi del radicalismo negazionista (tanto da introdurre il meme “no vax, no tax, no pax”), che costituisce un’acqua amniotica in cui si muovono anche le scomposizioni del quadro politico rappresentato, quelle orientate al nuovo posizionamento di partiti o di correnti (o di aspiranti) verso la scadenza elettorale del 2023.

Si comincia a sentire, soprattutto negli animati dibattiti televisivi, che ormai “è evidente” che sia Biden il promotore della guerra; per altri è la NATO che ha “evidentemente” provocato la guerra; per altri ancora è la forza che il sovietismo aveva di assicurare deterrenza ed equilibrio internazionale il fattore storico da rivalutare (almeno accordando così la ragione delle funzioni sostitutive introdotte dal gruppo dirigente russo attuale non casualmente formatosi in quella storia).

È stupefacente che la ampiezza del dibattito pubblico non abbia prodotto finora una voce altrettanto persistente e influente che sostenga che la crisi dovrebbe fare evolvere un robusto passo avanti dell’integrazione europea occidentale, favorendo anche nel quadro di un ripensamento del federalismo, il consolidamento di ciò che manca all’Europa per essere soggetto istituzionalmente coeso: bilancio, sicurezza, politica migratoria, costituzione.

Ecco, in breve, come utilizzando antiche implicazioni delle categorie “destra e sinistra”, con incursioni del nuovismo populista, di una sorta di agitazionismo situazionista di derivata sessantottina, di sbandamento progettuale a scopo di riposizionamento elettorale, di scorrimento da sinistra e da destra verso un centrismo di comodo (perché ci sarebbe invece bisogno di un centrismo strategico di origine qualitativamente liberale), la confusione provocata dalla guerra russa in Ucraina diventa avvolgente. Complice spesso il format da ring dei talk show televisivi e la convivenza esasperata di vero e falso che appare dai socialmedia, tanto che mai come in questo momento si soffre la perdita di peso dell’informazione interpretativa della carta stampata professionale.

Ben altro rilievo ha, in questa fase, l’analisi di chi ripercorre la storia delle speranze dell’Europa, introducendo anche elementi di autocritica di una generazione della nostra cultura politica, rispetto alla forma delle relazioni intessute tra Europa occidentale e Russia. Penso a una figura – che è anche bandiera storica di questa rivista – come Giuliano Amato che parlando del suo recente “Bentornato Stato, ma” con Simonetta Fiori sul Venerdì di Repubblica (29.4.2022), esprime un netto giudizio sulla deriva di Putin (“irriconoscibile, gonfio, che dice cose deliranti e compie azioni terribili”) ma ripercorre le vicende di venti anni fa in cui vi erano condizioni di dialogo e di avvicinamento tra UE e Russia “che profilava interessi comuni che non siamo riusciti a valorizzare”. Va anche più in là, ricordando un disegno preliminarmente abbozzato da Javier Solana, il socialista spagnolo che era capo dell’Alta Rappresentanza UE per la politica estera: “Che l’Occidente sia stato molto superficialmente preda di pulsioni conservatrici è innegabile. Uno storico militare dovrebbe raccontarci perché è fallito quel tentativo di partnership nella difesa tra russi, europei e americani. Alla fine, si preferì affidarsi alle vecchie misure piuttosto che a un diverso disegno che avrebbe cambiato il profilo del mondo”.

Ancora due parole sul logoramento dei paradigmi. Nel Novecento due figure storiche rimangono, quasi per tutto il secolo e in modo quasi indiscutibile, i più forti archetipi di ciò che la polarizzazione destra-sinistra aveva significato non solo in termini ideologici ma anche stressando l’approccio umanitario, la gerarchia valoriale, i riferimenti filosofici. Sono Adolf Hitler e il Mahatma Gandhi. Due vite quasi parallele (anche se con 30 anni di differenza alla nascita), due scie rimaste con forti significanze oltre il loro tempo. L’interpretazione simbolica della figura di Vladimir Putin finisce per essere sfuggente e ambigua: post-stalinismo, fuoriuscita dal comunismo, post-zarismo, formazione poliziesca, evoluzione autoritaria. Così che si ritrova oggi caso mai schiacciata su quella di Hitler, addirittura con il suo discorso del 24 febbraio ricalcato sulle argomentazioni di Mein Kampf (“siamo accerchiati, ci vogliono distruggere”, eccetera).

Gandhi qui è fuori partita e gli Ucraini – lo stesso Zelensky – vengono riportati al parallelo con le “lacrime e sangue” di Churchill.  Così che da questa semplice sovrapposizione, si intuisce che la facilità di trattamento della configurazione di destra e sinistra, ormai pienamente fuori dal Novecento, può generare allusioni, ma sostanzialmente anche molte imprecisioni.

Nel dibattito di questi ultimi tempi

Questo schema confuso ed esplosivo, con radici lontane e provocazioni vicine, si presta insomma a rendere molto complicata l’applicazione ad uno scenario violento – a tratti forti – dello schema interpretativo “destra e sinistra”.

Ma la complicazione evolve al quadrato quando si osservano i posizionamenti dei soggetti della tradizione di destra e di sinistra in svariati paesi occidentali, segnatamente in Italia riguardo a questi eventi.

  • A destra è un fuggi fuggi diffuso rispetto alle implicazioni filo-putiniane fino all’altro ieri. Il sindaco (di destra) del villaggio polacco di confine che ridicolizza Matteo Salvini mostrandogli davanti ai media la sua sfacciata cortigianeria per lo “zar”, diventa virale. Mentre Berlusconi fa la parte di un’anziana signora brianzola che non si era accorta che il fidanzato della nipote era un malvivente piuttosto noto a tutti. Intanto va in frantumi l’alleanza tra il PD e Cinquestelle perché, in pieno duello finale tra il liberalsocialista Macron e la ex-fascista Le Pen, il capo degli ondivaghi grillini Giuseppe Conte – per recuperare proprio la sintonia con Grillo – tenta l’equidistanza tra i due candidati francesi riservando tuttavia il suo interesse per le “argomentazioni sociali” della Le Pen.
  • A sinistra, in Italia e in Francia, in una beata amnesia della storia stessa della resistenza italiana e francese, l’attivismo antirusso della Casa Bianca (preoccupata di ricacciare indietro il putinismo dell’ex presidente Trump), produce sentimenti di irritazione diffusi, che hanno avuto per esempio da parte della presidenza cossuttiana dell’ANPI il non riconoscimento del carattere “resistenziale” del diritto degli ucraini a difendersi. Posizione poi corretta dopo la netta dichiarazione sul 25 aprile svolta dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Non “riconoscimento condiviso” anche da una quantità di personaggetti in cerca d’autore (da intendersi come spazio mediatico e investimento politico) che nel gioco del ring perenne dei talk-show televisivi hanno sempre un posto garantito per creare sorpresa (cioè “ascolto”) stando per esempio a sinistra e non condannando l’invasore criminoso. Quello che Anna Politkovskaja nel suo libro “La Russia di Putin” (Adelphi) scritto nel 2004 (poi assassinata dal regime a Mosca nel 2006) chiamava “il tipico tenente colonnello del KGB sovietico, con la forma mentis angusta e l’aspetto scialbo di chi non è riuscito a diventare colonnello, con i modi di un ufficiale dei servizi segreti sovietici a cui la professione ha insegnato a tenere sempre d’occhio i colleghi, quell’uomo vendicativo, quel piccoletto che ci ricorda così da vicino l’Akakij Akakievic gogoliano in cerca del suo cappotto, tornerà a insediarsi nei prossimi giorni sul trono di tutte le Russie”.

Ecco solo qualche pennellata dell’inversione dei ruoli, dello scavalcamento reciproco, del camaleontismo comportamentale, della dietrologia degli interessi rispetto alla coerenza delle dichiarazioni, che fa ormai – attorno ai casi di ineludibile posizionamento (questo della “quasi guerra mondiale” lo è per definizione) – il “passaggio di fase” o meglio la trasformazione genetica della discussione sui caratteri di tradizione o di discontinuità delle categorie di destra e sinistra.

Anche in questo caso destra e sinistra, intese come ambiti caratterizzanti la polarizzazione, faticano a trovare una posizione coerente con i rispettivi valori e al tempo stesso con una interpretazione accettabile dell’interesse nazionale nel quadro dell’interesse europeo.

Il dibattito tra politologi e storici degli ultimi tempi tende a riportare l’analisi della validità permanente di questa categoria attorno al permanente dato delle disuguaglianze e delle forme di non equità dello sviluppo, sia economico che socio-culturale, connesso anche all’evoluzione dei diritti civili.

Riesce meglio, nel quadro politico, il trattamento dell’interpretazione degli avvenimenti relativi alla guerra al leader del PD Enrico Letta, che pure vive con preoccupazione lo sgretolamento di alleanze nel centrosinistra e che tuttavia dovrebbe e potrebbe spingere a riattivare altre sollecitazioni.

Ma riesce in questa fase anche ai vertici delle nostre istituzioni – tra la misura delle parole e la prudenza me anche la fermezza degli interventi – con la sostanzialità delle decisioni del presidente del Consiglio Mario Draghi che recupera l’equilibrio tra la decisione di sostegno militare all’Ucraina e lo sviluppo di un percorso diplomatico verso il negoziato. E attraverso le dichiarazioni ferme e meditate del 22 aprile (dunque tre giorni prima del citato intervento del 25 aprile) contrarie all’arrendersi alla prepotenza pronunciate dal Capo dello Stato Sergio Mattarella. Lo stesso presidente della Corte costituzionale Giuliano Amato aveva in precedenza esposto il combinato disposto costituzionale circa la legittimità della difesa sostanziale di popoli aggrediti rispetto al principio costituzionale del ripudio della guerra come strumento di soluzione delle controversie.

Le brevi considerazioni fin qui fatte tendono anche a segnalare che in Italia ci sarebbe stato bisogno di un più robusto e argomentato uso rigenerazionale e progettuale del dibattito pubblico interno sulla crisi pandemica e soprattutto sulla crisi geopolitica europea. Al di là della semplice lettura delle notizie di cronaca a cui lo confina il format televisivo. Esso avrebbe potuto sia accompagnare un elemento di maturazione sociale, sia co-produrre un salto di qualità nel tempo e nelle forme di “restauro” del nostro sistema politico.

Si dice che spesso il tempo di crisi e di guerra nella storia abbia formato nuove classi dirigenti, fatto elaborare innovazioni tecnologiche e di processo, messo in soffitta fattori di arretratezza vistosa nel governo delle amministrazioni e delle imprese. Alla luce di queste nostre rapide note non bisognerebbe considerare chiusa la partita, non andrebbe dato tutto per morto. Anche se al momento restano vive preoccupazioni sulla qualità del nostro dibattito interno, sia quello alimentato dalle forze politiche rappresentate, sia quello stimolato dagli intellettuali.

Il peso crescente della propaganda e le imprevedibilità dello scenario elettorale in Italia

Uno dei caratteri più importanti della distorsione intrecciata tra destra e sinistra, fino a creare collusioni tese a smontare la delimitazione storica dei concetti, sta nel fatto che le posizioni più polarizzate per loro natura sono più inclini alla narrativa apodittica, ovvero assertiva, ovvero intrisa più di certezze che di dubbi.

E in una parola sola, più sensibili alla cultura politica nutrita di elementi di propaganda.

In una guerra che sta mettendo quasi sullo stesso piano il potere letale delle armi e dell’informazione l’argomento contiene elementi dirompenti. Sia quelli che peggiorano le cose, perché aumentano la difficoltà – in cui cadono soprattutto i giovani – di distinguere bene il vero dal falso; sia quelli che anche le migliorano, per la forza che soltanto un telefonino nelle mani anche di un popolo disarmato può costituire non solo a rettifica delle distorsioni, ma come strumento di una lotta reputazionale che costituisce il secondo fronte di impreparazione a cui si è esposto Putin.

Al punto che – al di là degli esiti di questa guerra e delle forme che avrà il negoziato di chiusura dell’uso delle armi – Vladimir Putin resta un leader nazionale a cui sarà precluso a vita il dialogo e forse anche la circolazione per crollo di credibilità in metà del pianeta (in Italia il 76% dei cittadini – dati Demos, Repubblica 14.4.2022 – giudica l’invasione russa “grave e ingiustificata”). 

Anche se sarà bene tenere in considerazione il monito che scrive Dacia Maraini (Corriere della Sera,12 4.2022) per cui “non sono i russi che hanno invaso l’Ucraina, ma è un regime tirannico che sopprime anche la libertà dei propri cittadini”. Tra i quali tuttavia molti hanno avuto il coraggio di esprimere un dissenso che, appunto, forse salverà alla fine l’onore di un popolo.

La guerra in Ucraina, tuttavia, tende a scaricare le sue conseguenze socialmente critiche tra qualche mese all’interno dei paesi che non hanno subito il danneggiamento materiale ma che si sono esposti con le sanzioni e che debbono regolare aspetti di “economia di guerra” della quale il primo a parlare è stato proprio il premier Draghi, avvertendo in forma diciamo così elegante i cittadini dei contraccolpi prevedibili.

E questo aspetto potrebbe anche saldarsi con effetti frenati ancora a causa dell’evoluzione della “quarta fase” della non domata pandemia. Non solo. Ma saldarsi anche con le contrazioni per indebitamenti e ritardi nei piani di rilancio che potrebbero vedere conseguenze critiche per settori che, a differenza di altri, non hanno beneficiato delle forzate trasformazioni tecnologiche e innovative, restando invece schiacciati in rapide obsolescenze. Così come potrebbero misurarsi con insufficienze di equilibrio energetico.

Questo per dire che gli effetti sociali che, per semplificare, si faranno risalire al caso della guerra scatenata nel cuore dell’Europa, entrerebbero in una loro vistosità proprio nella fase acuta – dopo l’estate – della campagna elettorale. Così da sollecitare il frizionamento già in atto tra governo dell’emergenza e quadro politico della maggioranza.

Il primo guidato da un presidente che esprimerà ovviamente estraneità alle elezioni. Il secondo composto da soggetti che saranno variamente sollecitati a prendere le distanze, a polemizzare, ad assumere posizioni più dipendenti dall’interesse elettorale che dall’interesse nazionale.

Questa osservazione è svolta – nel trattamento qui riferito al carattere pasticciato dello sviluppo della discussione sul parametro destra-sinistra – a proposito dell’evoluzione dei chiarimenti identitari della situazione politica italiana nello scenario europeo.

A parte ogni considerazione sulle “spalle larghe” del presidente del Consiglio, che ha già avuto avvisaglie in un clima ulteriormente deteriorabile, vi è pure la necessità di mettere in conto l’incidenza sul percorso in ordinaria amministrazione della vicenda che dal febbraio del 2021 è rubricata in Italia come “emergenza” che, di ordinaria amministrazione ne ha vista poca fino a qui. E che le dinamiche scatenate dalla guerra potrebbero portare ad evoluzioni non solo straordinarie ma altresì involutive. Portando in primo piano la partita del fronteggiamento della crisi energetica che ha implicazioni enormi per i cittadini, per il sistema produttivo e di impresa e anche per il quadro delle relazioni internazionali in cui l’economia del petrolio e del gas è legata a problematiche pesanti di corruzione e di “realismo” delle relazioni stesse che aprono altre questioni complesse (alcune proprio specificatamente per l’Italia).

L’esito delle elezioni francesi può ora concorrere a migliorare alcune prospettive. 

L’esito del ruolo diretto della UE nella focalizzazione della soluzione dalla guerra (e in esso della parte che per i suoi punti di forza anche geopolitici riguardano l’Italia) è parte di una compensazione oggettiva dei rischi.

Il rapporto con le dinamiche convergenti ma anche concorrenti tra il nostro sistema produttivo e quello tedesco hanno in questo momento una condizione sospesa che non sarà più tale fra sei mesi.  L’esito della riorganizzazione del bilanciamento della copertura delle necessità energetiche avrà il suo peso.  Tutto ciò non è semplificabile in qualche battuta. Ma è anche traducibile in un rischio di maggiore evidenza dei fenomeni di pirateria dei percorsi di posizionamento di alcune forza politiche in cui la confusione dell’attuale quadro frastornato del parametro destra-sinistra potrebbe avere imprevisti e imprevedibili sviluppi.

Il coraggio di dire con qualche evidente pressapochismo se il destino dell’Italia sia di uscire “a destra” oppure “a sinistra” rispetto al quadro di crisi – quello che tra il biennio della pandemia e l’anno (per il momento diciamo così) della guerra nel cuore dell’Europa si è manifestato con ancora oscure conseguenze sulla qualità della nostra democrazia – lo può sfoderare ora solo chi ha la sfacciataggine dell’azzardo. Quello che è evidente è che la voce (corrente fino a un anno fa) di pensare all’allontanamento della scadenza elettorale per la certezza quasi condivisa da tutti del destino italiano di andare incontro ad un esito favorevole al centro-destra,  è oggi una voce se non rientrata, certamente alterata.

Ma la destrutturazione della politica italiana intesa come “sistema” non autorizza a proporre una voce diversa più attendibile.

Conclusione banale. Ma anche di estrema responsabilità per tutti coloro che, dentro o fuori le istituzioni, hanno figli e nipoti a cui lasciare un territorio morale e materiale su cui scommettere.

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