Russia-Ucraina. I cento giorni (che alludono a quelli napoleonici) preludono alla fine di un impero o alla fine di una inutile e incerta guerra?

Gli esperti dicono di aspettare l’8 giugno, quando il ministro degli esteri russo Lavrov sarà ad Ankara e si scoprirà se si sta mettendo in movimento, oppure no, una strategia negoziale.

Ieri, intanto, grave recrudescenza militare che investe anche Kiev. 

Sul giornale online L’Indro (6.6.2022 – h. 7.00)

I 100 giorni della guerra russa in Ucraina, sono diventati il 3 giugno, un titolo unificato dei media di tutto il mondo.

Così da portare alla mente di chi ha fatto almeno discreti studi liceali, l’espressione invalsa dei “cento giorni” che non solo in Francia, ma anche nel sistema dei paesi tra loro alleati per porre fine definitivamente all’età napoleonica (UK, Austria, Prussia e Russia in coalizione), costituirono nel 1815 l’improvvisa condizione dell’Europa per arrivare alla resa dei conti.

Napoleone torna infatti a Parigi dall’esilio, sfuggendo all’isola d’Elba, il 20 marzo del 1815, mentre a Vienna si svolgeva il congresso delle nazioni anti-francesi che lo dichiara “fuorilegge”.

Nella vampata d’orgoglio nazionale e sfidando il malcontento popolare per una ennesima coscrizione, Napoleone prepara la battaglia finale che avverrà sul terreno di Waterloo, nei pressi di Bruxelles, in cui il generale Wellington avrà la meglio, obbligando le truppe francesi alla ritirata e Napoleone, alla fine, a cedere all’intimazione dello stesso Parlamento francese di farla finita.

La resa sarà definitiva e il suo esilio, questa volta nella ben più severa isola di Sant’Elena, sarà a vita. Una vita non molto lunga che, sei anni dopo, il 5 maggio del 1821, avrà termine.

Anche Napoleone faceva le guerre per difendere “l’integrità nazionale contro l’accerchiamento degli aggressori”. E con queste parole si arrende: “Francesi, intraprendendo la guerra per sostenere l’indipendenza nazionale, contavo sull’unione di tutti gli sforzi, di tutte le volontà, e sull’appoggio di tutte le autorità nazionali. Avevo dei motivi per sperare nel successo. Le circostanze mi appaiono cambiate. Mi offro pertanto in sacrificio all’odio dei nemici della Francia. Fossero davvero sinceri quando affermano di essere stati effettivamente ostili soltanto alla mia persona! Unitevi per la salvezza pubblica e per restare una nazione indipendente”.

Malgrado tutte le cose da cambiare per tenere in piedi l’allusione, i riferimenti per l’appunto allusivi che questo ricordo contiene, ci mettono in condizione di porre a noi stessi un quesito sui corsi e ricorsi della storia.

L’espansionismo militare dopo la caduta dell’Impero romano resta il sogno proibito di tanti capi di nazioni con istinti e poteri autoritari che immaginano di interpretare chi la “seconda Roma” (la Germania), chi la “terza Roma” (la Russia). I tratti paranoici appartengono a questo genere di sfide totali, sia che si esprimano sui vicini di casa, sia che si esprimano immaginando che la grande carta geopolitica del mondo possa abolire, in nome del proprio successo, i suoi storici confini.

Cosa può arrivare dopo questi tre mesi?

Il quesito è questo: può arrivare, dopo questi cento giorni, il segnale di cedimento dello zar, nel suo paradossale spirito di assumere lui stesso l’onore dell’Occidente, ritenuto ormai debosciato, in nome di una fierezza nazionale che poggia sul ruolo decisivo avuto dalla Russia nell’annientamento del nazismo a metà del ‘900?

L’accoglienza che il presidente Putin ha fatto delle istanze che gli ha espresso il presidente dell’Unione Africana (e suo omologo del Senegal) Maky Sall, attorno al tema di “lavorare insieme in modo che cereali e fertilizzanti siano rimossi dalle sanzioni”, non corrisponde al carattere dell’indomito guerriero che guida di persona l’attacco militare supremo contro tutte le potenze europee coalizzate nella decisiva battaglia campale nel cuore dell’Europa.

È un passaggio tutto politico di chi mantiene una residua forza internazionale, che fa leva su istanze drammatiche (lo spettro della carestia connesso a quello della guerra) attorno a cui abbassa la soglia di aggressività nei confronti del mondo e della stessa Europa.

Ma ciò cosa nasconde?  Il doppiogioco di approfittare di questa pagina distensiva per sferrare il massimo attacco territoriale all’Ucraina (come gli amministratori di Odessa continuano a temere)? Oppure per aprire la strada ad un negoziato in cui la mano tesa agli africani può preludere a un coinvolgimento politico cinese al fine di ottenere i tre risultati che lo stesso Putin può vantare come un successo militare: la conferma della Crimea, l’occupazione dell’intero Donbass, l’esenzione da ogni punizione amministrativa per le distruzioni compiute sul suolo ucraino (salvo una partecipazione multinazionale al processo di ricostruzione)?

I commenti degli esperti dicono di aspettare l’8 giugno, quando il ministro degli esteri russo Lavrov sarà ad Ankara e si scoprirà se si sta mettendo in movimento, oppure no, una strategia negoziale. Rispetto alla quale l’Europa mantiene oggi il profilo sanzionatorio. E gli Stati Uniti mantengono oggi la programmazione di sostegno militare hard, sia pure nelle mani di un esercito coraggioso, quello ucraino, che però è in condizioni sfiancate, con un bilancio complessivo di 600 morti al giorno tra civili e militari e, stimati al centesimo giorno di guerra, con 16 milioni di cittadini che hanno perso tutto.

Insomma, gli europei (Italia in prima fila) chiedono al Cremlino assicurazioni sull’energia, gli africani – andando al Cremlino (anzi a Sochi) – chiedono assicurazioni sulle derrate, i turchi tengono aperta la corsia preferenziale per una trattativa con un partner della NATO che si vuole intestare una “soluzione”. Tutto sembrerebbe profilare il “momento giusto” per abbassare l’influenza della crisi reputazionale che ha fino a qui colpito la Russia più di quanto si aspettasse. E in relazione a cui ha svolto una guerra parallela di propaganda che il controspionaggio soprattutto inglese ha messo a nudo giorno per giorno. Alla fine, è partita la stampa occidentale (Newsweek, con tutte le garanzie delle controprove) a raccontare la fase avanzata delle malattie fisiche di Putin, per incrementare l’idea del “momento giusto”.

Opinioni contrastanti

Già, il “momento giusto”. Ma se poi Putin nascondesse nella sua testa pensieri non del tutto diversi dallo scatenamento d’orgoglio del Napoleone dei “cento giorni”? Quando dice “schiacceremo come noci le armi fornite dagli americani” non sembra che si sia tolto l’elmetto.

Alcuni commenti sui “cento giorni” naturalmente continuano a propendere per “la guerra lunga”, in cui trova posto anche il pensiero di Biden sulla non sopita ambizione di Putin di rovesciare Zelensky rigenerando il piano originario. E trova posto anche la centounesima giornata di guerra con le dichiarazioni ucraine sulla “35° armata russa distrutta” proprio nel Donbass.

Alexander Stille fa un’analisi interessante su Repubblica, attorno al tema del perché le grandi nazioni perdono le piccole guerre. E cita Kissinger (1969, dunque con riferimento al Vietnam): “Abbiamo combattuto una guerra militare; i nostri oppositori ne hanno combattuto una politica. Nel processo, abbiamo perso di vista una delle massime cardinali della guerriglia: vinci se non perdi. L’esercito convenzionale perde se non vince“. È il principio della guerra asimmetrica. Che tuttavia regge fino ad un certo punto perché – tendendo conto del coinvolgimento di USA, NATO e UE – qui l’asimmetria non è proprio la stessa cosa del Vietnam. Ma siccome lo sfilacciamento apre problemi agli ucraini, apre problemi agli europei (che vedono allentarsi la propensione delle opinioni pubbliche), apre problemi alla tenuta di sistema dei russi, non è da scartare che da qui all’8 giugno sul tavolo dello zar arrivi un dossier intitolato “Momento giusto”.

Che poi l’avvio del negoziato significhi la fine della guerra, naturalmente è pura astrazione.

Intanto in Italia, a Trento, decolla il Festival dell’Economia e Romano Prodi – un occhio all’Europa, l’altro al mondo – fa due riflessioni in partenza riprese da molti media: “Credo non si sia capito bene il peso della decisione della Germania di riarmarsi, nel senso che deve essere un tema per tutta l’Europa”. E ancora: “Vedo difficile la pace, finché non trattano Stati Uniti e Cina”.

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