Club di Venezia, plenaria allo IUE di Fiesole. Il testo della relazione introduttiva di Stefano Rolando: “Sviluppiamo i ruoli sociali (spiegare) e storico-identitari (evoluzioni e destini delle narrazioni”

Club di Venezia – Prima Plenaria 2022

Istituto Europeo di Firenze – Fiesole 30 giugno 2022.

Apertura dei lavori

Stefano Rolando (Presidente del Club di Venezia)

Stefano Rolando, intervento 30.6.2022 – A fianco Francesco Tufarelli dg Dipartimento Politiche europee Governo

Testo scritto all’origine, proposto in forma più sintetica e a braccio

Esprimo la gratitudine del Club di Venezia all’Istituto europeo di Fiesole – dunque al segretario generale Marco Del Panta che ha aperto questa sessione e a Marco Incerti, direttore della comunicazione IUE al nostro tavolo con molta competenza da anni –   per aver concesso di svolgere una conferenza plenaria (nel nostro 36° anno di incessante attività) nel quadro di un vero grande laboratorio di analisi e progettazione sull’Europa. Per noi – essenzialmente rete di operatori professionali – è una sfida enorme. Enorme ma necessaria. Perché il ruolo della comunicazione in Europa è in seria transizione. Perché una quota della società europea resta ancora priva di spiegazioni sui processi in parte per disuguaglianze permanenti, in parte perché l’analfabetismo funzionale lavora spesso meglio di noi. Dunque, anche la comunicazione istituzionale deve dichiararsi “in transizione”.

E dirlo qui, in questo contesto, obbliga ciascuno a dare un contributo sulle vie di uscita. Io proverò a concentrare le brevi riflessioni introduttive sul cambio di paradigma del rapporto tra comunicazione europea e identità europea. Il tema che da qualche tempo è oggetto di analisi di un ramo nuovo della comunicazione pubblica, il “public branding”.

Saluto e ringrazio gli altri rappresentanti istituzionali che hanno aperto l’incontro : Francesco Tufarelli, Fabrizio Spada, Richard Kuehuel e Cristiano Maggipinto in rappresentanza del sindaco Nardella. Saluto e ringrazio gli interpreti, che restano importanti raccorciaori delle distanze europee.

I saluti istituzionali in apertura

Ricordo bene, diciotto anni fa, il clima attorno alla Commissione che doveva portare a compimento il trattato costituzionale europeo.

Quella commissione guidata da Valery Giscard d’Estaing e Giuliano Amato, che non superò il disinteresse inglese e la posizione francese e olandese secondo cui l’Europa – tra diritti civili e sociali normati in alto e normati in basso – non era pronta a regole comuni intermedie.

Noi dedicammo addirittura una plenaria a questo tema, in fondo sapendo che quella svolta avrebbe significato una forte spinta alle “spiegazioni”, alla costruzione di nuove percezioni reciproche e, per usare una parola ancora poco di moda, una spinta a consolidare il Brand Europa.

Tanto che a Loutraki, in Grecia, facemmo una cosa rara nel costume “non decisionale” del Club of Venice. Quella di approvare un ordine del giorno – che veicolammo poi a quella Commissione – per chiedere di normare in modo chiaro e soprattutto funzionale alla comunicazione istituzionale il diritto dei cittadini europei di “essere informati”.

Non si arrivò ad un trattato finale. Non si arrivò nemmeno a valutare quella modesta proposta. Il cammino della “carta europea comune” – per quanto approvata dal Consiglio europeo – finì lì.  E finì lì (lo dico con parole di oggi) anche la spinta per dedicare energie, saperi, tecniche al consolidamento del Brand Europa.

Per tre, quattro anni l’economia europea andò comunque avanti mantenendo una certa cultura della spinta. Tanto che dopo cinquant’anni di centralità dell’economia e del mercato e timore a mettere la cultura (in senso tradizionale ma anche in senso innovativo) al centro dell’architettura europea, fu immaginato necessario trovare un altro tema. Si doveva, cioè, far spingere anche ai giovani il progetto di un’Europa che era governata ancora dalla mezza età, se non addirittura dalla generazione più stagionata. Ed ecco che a Lisbona venne immaginato un salto di qualità proprio centrato sulla scienza, la ricerca, la cultura ampiamente intesa.

Era il 2007. Il Trattato di Lisbona passò ma da lì a poco il ciclone della crisi finanziaria globale tolse la benzina al finanziamento di quel documento. E i progetti di una Europa rilanciata identitariamente – insomma un progetto valoriale ormai in grado di sostituire l’importanza della garanzia della pace (anni ’50) e l’importanza della garanzia del mercato unico (anni ’80) avrebbe potuto conquistare le nuove generazioni ma finì per deluderle.

In queste due storie si può leggere il ritorno in porto della nave a grandi vele chiamata “Brand Europa”, per un rimessaggio che non è mai finito.

Quando poi nel grande mare si levarono vere e proprie tempeste identitarie (tra europeisti ed euroscettici e alla fine tra comunitari e sovranisti) nemmeno un comandante pazzo e generoso avrebbe armato un equipaggio per tornare a solcare le onde.

Il governo dell’Europa è passato dalla strategia alla tattica. Poi dalla tattica al tecnicismo.
I vecchi europeisti sono andati in pensione. I nuovi europeisti hanno scritto caso mai saggi e articoli interessanti. Ma nei posti di lavoro il tema non era più pienamente in agenda.

Non erano in agenda gli Stati Uniti d’Europa, figuriamoci il complesso, organico, faticoso, conflittuale tema dell’analisi dell’evoluzione identitaria comune. Non c’erano più sponsor per discutere sui tanti conflitti tra i fautori dell’Europa dei sogni e i fautori dell’Europa tecnica.

L’ultima discussione – impensabile negli anni successivi e, se posso dirlo, derubricata oggi, in un quadro di nuova complessa ibridazione europea – era stata quella se mettere o non mettere le comuni radici cristiane nella “carta costituzionale” europea.

Al tempo prevalse la linea delle costituzioni laiche. Ma oggi anche quel tema non potrebbe più nemmeno essere profilato con il carattere allusivo solo al passato. I conti ora si devono fare con l’internazionalizzazione di tutti i processi. E quindi con gli occhi al futuro. Ma finora questo futuro ha promosso più paure che certezze. E – cosa volete – se il passato viene rimosso e il futuro viene derubricato, la natura dell’approccio di brand perde di vista sia la tradizione che l’innovazione.

Resta un presentismo, che assomiglia alla cultura dei giornalisti più che a quella dei profeti.

Non ci sarebbe stata la democrazia classica nella sua culla greca se Atene o Sparta fossero state governate dai giornalisti. Mentre l’arte di governo ascoltava i militari, ma con pari dignità anche i filosofi.

Ormai le sei grandi crisi di questi ultimi anni hanno cambiato i connotati a ogni discussione identitaria e quindi a ogni discussione legata ai brand territoriali. Ognuna di queste crisi è partita da lontano, ci ha storditi di sguardi verso tutti i decantati necessari cambiamenti. Ma in verità ci ha schiacciati sulla cultura della paura, in cui si parla di cambiamento ma si abbassa spesso lo sguardo.

Peggio: si spacciano trovate pubblicitarie per soluzioni. Fatemi riassumere.

  • La crisi migratoria è stata tenuta in apnea dalla crisi della pandemia. Ma il tema – a lungo oggetto conflittuale – è rimasto dominante, soprattutto per il lungo periodo. Pur avendo sviluppato molte esperienze e pur disponendo di saperi di previsione, l’Europa non è riuscita ad avere visione comune di gestione e di integrazione. Tutto dice adesso che il tema stia per ripartire.
  • La crisi pandemica non ha visto l’Europa al peggio delle sue capacità. Ma ha risentito di un modello aziendalistico della sanità che non ha acquisito dagli orientali il valore collettivo della salute e ha mostrato che la frammentazione della governance non ha migliorato l’andamento dei processi.
  • La crisi dei fattori energetici (con due poli tematici principali, le risorse estrattive e quelle digitali) ha messo a nudo una quantità di dipendenze che possono essere ridotte poderosamente solo da un soggetto politico competitivo con i grandi della Terra.
  • La crisi climatica forse ora solo in Germania profila la coscienza dei costi da affrontare per modificare a fondo i processi produttivi e di consumo. La dichiarazione di responsabilità in verità  è in cima al progetto della Commissione van der Leyen. Ma fin dalle prime avvisaglie della guerra in Ucraina si è capito che il piano dei tempi di fronteggiamento entrava in deroga.
  • Infine, la guerra. La crisi delle crisi, non alle porte dell’Europa ma nel cuore dell’Europa. Senza esercito comune, senza intelligence connessa, senza diplomazia unitaria. Un giorno ci scopriamo troppo antirussi. Un altro giorno ci scopriamo troppo filoamericani. Ma l’Europa che sta nelle carte di Bruxelles senza che si mettano in moto le nuove generazione per volere il cambiamento, resta quella del realismo delle nazioni.

Che queste sei aree di crisi abbiano scompaginato i conflitti pre-pandemici è vero. Ma è altrettanto vero che la transizione in corso si profili con due misure importanti che si ignorano a vicenda. Governare finanziariamente la progettazione separata delle nazioni e dei loro territori. Governare identitariamente – quindi culturalmente – una domanda di qualità sociale delle nostre democrazie, lasciate al loro conservatorismo tendenziale e quindi in condizioni fragilizzate.

Io colgo volentieri l’occasione di questa nostra conferenza qui a Fiesole, sede di un’istituzione formativa e di ricerca che ha l’Europa nel suo logo e nel cuore delle sue ragioni.

Fondata nel 1976 dopo essere stata immaginata fin dalla conferenza europea di Messina del 1955 che precede i trattati costitutivi dell’Europa, dunque figlia dei sei paesi fondatori dell’Europa.

La colgo volentieri per ricordare a noi stessi che i comunicatori – ormai trasformati da cento diverse tipologie professionali di un percorso che comprende il meglio di una democrazia (il servizio di spiegazione e di accompagnamento dei cittadini per ridurre divari e disuguaglianze) e anche il peggio di una democrazia (assecondare la propaganda da parte dei poteri, con le stesse tecniche e la stessa ambiguità usata in Europa da dittatori e autocrati) hanno un loro compito, un loro spazio di contributo, proprio nella transizione che si sta delineando.

La prima tavola rotonda professionale nella mattinata del 30. giugno.

Quella tra le evidenze delle crisi in corso (spesso interdipendenti) e la mancanza di chiarezza, di narrativa, di dibattito pubblico, di percezione strategica di una ripresa del cammino di quel genere di rettifiche del nostro modo di leggere al tempo stesso il matrimonio e il divorzio tra storia e contro-storia.

Essendo la storia l’esito palese dell’evoluzione.

Ed essendo la contro-storia l’esito oscuro, quello a volte autolesivo, quello che non si fa carico né del freno a mano tirato né di alcuni aspetti di irresponsabilità delle classi dirigenti.

La scienza politica europea chiarì, tra le due guerre del ‘900, che le crisi erano salutari perché formavano nuove classi dirigenti, proprio facendo emergere chi trovava soluzioni e portava in salvo le collettività.

I comunicatori chiamano brand la capacità di gestire l’evoluzione identitaria, alla luce delle sue narrative e alla luce del contrasto prodotto da  interessi contrari, oppure anche dal peso degli stereotipi. Senza preoccuparsi di rubare il linguaggio alle imprese, che ormai sono più brand che prodotto. Perché anche le imprese un giorno rubarono questa idea di brand alle nazioni che avevano costruito nel bene e nel male la storia stessa attraverso i drammi, gli errori, le intuizioni e i coraggi dell’evoluzione.

Qui da noi l’Impero Romano riuscì a tenere in equilibrio il mondo conosciuto per mille anni attorno a una certa idea di brand. E quell’idea fu poi perseguita in Europa da chi non ha mai più avuto insieme la forza e la visione per vincere le sfide. Così che spesso l’ha perseguita per dare sfogo a paranoie. Dico questo anche perché non riesco a condividere nemmeno per un istante l’idea del presidente Putin di rifarsi alla tradizione occidentale (in quella logica che passa sotto il nome della “terza Roma”) per dichiararsi lui il restauratore del vero Occidente.

In questi giorni va in tesi un mio studente di esperienza, cioè già inserito nella professione, Riccardo Liani, che è con noi in questa seduta, che ha provato a compendiare le ragioni di fondo per rilanciare un progetto di brand Europa. E che conclude così il suo testo:

La chiave di volta tra intenzione ed azione si trova nel ricambio generazionale. Era il 1872 quando il giurista scozzese James Lorimer, immaginando un’Europa federale, pensò che una carriera cosmopolita da euro-burocrate sarebbe stata una strada promettente per i giovani speranzosi. Oggi l’Europa federale ancora non c’è, e la burocrazia pare il male colpevole di tutti i nostri problemi. Per progettare un’Europa utile e collaborativa bisogna abbandonare i vecchi schemi di pensiero rifiutando le massime valoriali, e ricercare le priorità dell’innovazione abbracciando lo scheletro dell’identità umana. Bisogna ritirare la facciata burocratica, centralizzata e anonima e lenta, e sostituirla gradualmente con la piattaforma interattiva della digitalizzazione e della comunicazione. Bisogna diffondere l’edificio europeo decentralizzandolo in unità localizzate, presenti, dialoganti ed attuative”.

Certo, se noi omologhiamo i comunicatori istituzionali a fotocopisti, a confezionatori, a produttori di comunicati stampa o organizzatori di battaglie digitali a suon di tweet assertivi, parliamo di un mestiere diverso da quello che, soprattutto nelle sue origini, questo Club di Venezia ha immaginato possibile e utile a portare elementi di modernità sociale nelle culture di governo. 

So che il ceto politico europeo sta reagendo agli avvenimenti con cambiamenti. Vedo che una generazione al tempo stesso analitica e appassionata (vengo da una conferenza euromediterranea svolta insieme a Enzo Amendola per citare, senza alcun campanalismo, un esempio di questa rigenerazione attitudinale) può pensare di aprire un varco su questa materia, senza immaginare che basti solo la politica.

La mia proposta è di lavorare sulla portata di queste sei crisi rispetto alla portata della necessità di ripresa di un progetto di dibattito pubblico sul Brand Europa.

In armonia con le potenzialità del follow-up della Conferenza sul futuro dell’Europa.

Ma anche in armonia con il modo con cui in ciascuno dei nostri paesi si possono rintracciare risorse di analisi, studio e proposta in molti istituti universitari che possono condividere questo percorso.

Un percorso non presuntuoso, non arrogante, ma appunto realistico, controfattuale, dubitativo. Quindi culturalmente europeo.

Magari ciò facendo – ciascuno di noi, qui oggi riuniti – potrebbe far proprio il titolo di un bel libro-diario scritto da Altiero Spinelli (che mi sia consentito dire che fu, da commissario europeo, all’origine del mio primo lavoro di una certa importanza all’inizio degli anni ’70) – titolo che era questo: “Come ho cercato di diventare saggio”. 


 [SR2]tessi avversi e daglui stereotipi brand

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