Il giorno più lungo, quello della dissolvenza finale del sistema.
Articolo pubblicato sul giornale online Il Mondo Nuovo (21.7.2022)
Stefano Rolando
21.7.2022 – h. 8.00 – Alla luce dell’epilogo del “giorno più lungo” ci sarebbero due temi da trattare con respiro lontano. Il primo riguarda la linea di coerenza del governo di emergenza, ovvero dell’evoluzione della linea di “esprit républicain” che Mario Draghi ha messo in campo nel febbraio del 2021, non tanto come profilo tecnico quanto piuttosto come profilo politico della crisi della politica italiana. Forse lo faremo in seconda battuta.
Il secondo tema riguarda la linea di incoerenza dell’evoluzione di M5S, inteso come curva gaussiana del Vaffa, in cui il botto vulcanico di una generazione politicamente sconosciuta ha intercettato nel 2018 il 33% della domanda degli elettori italiani diventando il soggetto parlamentarmente centrale nella politica ufficiale, ma anche il soggetto comunicativamente più esplicito della società italiana.
Per questa ragione la parabola dei grillini non va trattata con superficialità e con la stizza che spesso ha (e mi ha) provocato, ma brevemente analizzato nel processo di transizione e di involuzione di tutto il nostro sistema. Sistema che, in vista delle elezioni, prima dello show-down del “mercoledì nero” mostrava più le scomposizioni che le ricomposizioni. Il “campo largo” annunciato da Enrico Letta era chiaramente per aria. La tenuta cinica ma maggioritaria del centrodestra a sua volta pareva compromessa (possibile persino un ribaltamento ai danni di Matteo Salvini e un fronte Lega-FI a sostegno del governo). L’identità di un movimento populista che voleva trattare le istituzioni come una scatoletta di tonno era entrata in campo divisa e lacerata.
All’inizio dell’ultima crisi il premier sembrava subire la forza incosciente (pur nella diversità interna) del sistema dei partiti. Mentre all’apertura in Senato della seduta di “chiarimento” il premier appariva, al contrario, in grado di domare il tellurismo sterile dei partiti (o almeno di certi partiti).
Nel corso della giornata però il profumo delle armi ha cominciato ad avvolgere il parlamento.
E come accade nelle caserme in cui nel tempo si fanno tante marce di esercitazione ma si rimanda di continuo il combattimento, le spigolosità delle pur corrette dichiarazioni di Draghi hanno messo in movimento più di un distinguo. In cui ha preso definitivamente corpo la maggioranza antigovernativa dei Cinquestelle e ha avuto successo la pressione una volta di più antieuropeista di Giorgia Meloni sul centrodestra per proporre ai propri alleati ormai quasi-nemici l’ipotesi di tornare allineati per infilarsi nella crisi e spuntare insieme il risultato elettorale (nella fine misera e ingloriosa di Berlusconi).
Il vuoto di una giornata nata spaesata ha alla fine prodotto una sorta di offerta tripolare della politica rappresentata per un confronto elettorale diventato breve: il centrodestra ricompattato a traino Meloni, il centrosinistra misurato sulla linea Letta-Renzi (artificialmente ricostituita), i Cinquestelle in formato descamisado (che aspettano il rilancio di Raggi e Di Battista) a fare il terzo più debole polo.
Anche se siamo all’inizio della mattina del 21 luglio e manca ancora la formalizzazione della crisi, è lecito dire che siamo di fronte alla fine del percorso di potenziale rigenerazione di un sistema che ha avuto in Draghi un cauto ancoraggio parlamentare senza far mancare un serio presidio europeista e antipopulista sulle cose importanti.
E poi c’è “l’Italia dal basso”…
Ci sarebbe poi un “quarto polo” che è parte del brulicare del nuovo che si sta esprimendo nella società civile italiana, tra la parte di astensionismo maturato tra elettori più avanti dell’offerta in campo e il civismo organizzato che le recenti elezioni amministrative hanno misurato come una “decisività” nell’ordine del 20% del risultato dell’Italia intermedia (30% nei piccoli comuni sotto i 15 mila abitanti).
Ed è stato lo stesso Mario Draghi a riferirsi a questa “Italia dal basso”, come il fattore che, esprimendosi clamorosamente durante la crisi di questi giorni, lo ha indotto a tenere a bada l’orgoglio e tentare il rinnovamento del “patto” di emergenza per portare a reale compimento l’agenda. Qualcuno lo ha criticato per questa “invocazione al popolo”, ignorando però che non si trattava di una generica allusione alla Masaniello, ma di un riconoscimento di soggetti ben identificati nelle responsabilità di funzioni civili e di delega nel quadro della democraticissima intelaiatura dei corpi intermedi della società italiana.
Un’Italia dal basso, infatti, che ha avuto l’espressione organizzata da parte di duemila sindaci e di altrettanti soggetti mobilitati nell’ambito di corpi sociali intermedi, tra economia e servizi.
Si vedrà a giorni se questo schema permetterà di approfondire ragioni, argomenti e proposte per restituire una soglia di dignità alla competizione elettorale. Tutti e quattro gli ambiti sono ora lontani da essere in condizioni di sostituire la responsabilità di gestione degli affari di governo nel quadro di crisi ed emergenze intersecate su cui il patto tra tecnici e partiti ha retto per diciassette mesi. Per alcuni poi le condizioni sono lontanissime. Oggi è il giorno di ringraziamento a chi ha difeso su più fronti l’interesse nazionale senza sciocchi primatismi ma in sintonia con la visione dell’europeismo democratico. Ed è anche il giorno per fare i conti con i rischi dalla caduta di presidio circa le maggiori responsabilità esercitate rispettando un Parlamento che si è rivelato – come scrive questa mattina Stefano Folli – preda di partiti dissolti. Anche per questo motivo l’anticipazione delle elezioni aumenta le colpe di chi ha provocato il carattere irrevocabile della fine di un “pronto soccorso” che conteneva ancora un barlume rigenerativo che le componenti più opportuniste della “politica rappresentata” ha visto fin dall’inizio invece come un pericolo.