
Podcast pubblicato sul giornale online Il Mondo Nuovo
Il biglietto da visita della Torre di Babele

Buongiorno. Sono Stefano Rolando. Questa rubrica audio si intitola “Un biglietto da visita“
Ora, un biglietto da visita serve a semplificare la rappresentazione. Serve a dire poche cose, chiare e semplici. A creare accoglienza sperando in una nuova buona relazione.
Ricondotta a questo format, la “rappresentazione” dovrebbe avere uno spazio diverso dalla confusione logorroica, dall’assertività polemica, di quella polemica che soverchia ogni convergenza.
Ma non siamo ingenui. Non solo la vita è certamente più complessa di un biglietto da visita. Ma anche la campagna elettorale ha una retorica per ottenere attenzione e spremere consenso. Forse è per questo che non può limitarsi all’ironia di un thè all’inglese.
Il tema essenziale della chiarezza contro la confusione, della serietà contro la cialtroneria, della competenza contro l’improvvisazione vive comunque anche in una campagna elettorale.
E ci porta a ricondurre qui qualche pensiero. Diciamo qualche modesta riflessione.
Il primo pensiero riguarda la polarizzazione tra questo nostro tempo e quello in cui la politica ruotava attorno al primato delle ideologie.
Un tempo in cui proprio questo fattore scatenava passioni, ma anche violenza, incomprensioni di principio, muri contro muri.
Dentro quel sistema di valori, di pregiudiziali, di ideali, di appartenenze sociali mescolate filosoficamente fino a diventare “grandi ombrelli” per regolare le piogge e i raggi del sole, insomma per regolare quasi tutto, la regola principale era che l’ideologia contava più dei suoi sacerdoti.
Certamente più delle fregole, delle nevrosi o delle velleità (che sono sempre esistite) di chi si dichiarava al servizio di quella ideologia.
Tiriamo una linea di mezzo secolo ed eccoci a oggi.
Le ideologie sono state scaricate nell’ignominia, additate come sistemi fideistici capaci di manipolare ma soprattutto negare la realtà. Maschere di potere e di luoghi comuni.
Vent’anni di vituperio del passato, di sbornia semplificativa, di orrore per la politica come studio, come analisi, e – sì anche quello – come complesso raccordo ideologico, hanno convinto destra e sinistra che con i vecchi arnesi non si compra più neanche un voto.
Fino a che l’ideologia è stata sotterrata con funerali di terza classe.
Ed è stata sostituita con la religione nascente, mutuata dal mercato e dalla globalizzazione: il marketing.
Tutto è possibile con il marketing. Andare un po’ più a sinistra ma anche un po’ più a destra.
Dire una cosa contro quella che ho detto ieri e poi rifare l’acrobazia al contrario. Pensare come pensano i giornalisti a fine giornata: le notizie di oggi sono morte, domani è un altro giorno.
La caccia del consenso – anche one to one – è più importante non solo della coerenza, ma anche della verità.
Liberare l’homus politicus. Intesocome il soggetto e l’oggetto dell’arte di governo. Divenuta al tempo stesso l’arte della messinscena, l’arte del teatrino, l’arte dell’infingardaggine.
Tutte varianti previste nelle regole del marketing.
Sono sicuro che siano rimasti in campo politici pensanti e con la testa a posto. Ma quante modeste pedine della politica come professione hanno creduto in questa “liberazione”, in questa sfrenatezza! Fino a fare di sé stessi la misura del pensiero, del progetto, della proposta.
Soprattutto della comunicazione totalizzante. La politica come comunicazione totalizzante.
Anche quando la si fa malissimo.
E ora una domanda azzardata: era meglio mezzo secolo fa o è meglio ora?
In realtà è una domanda mal posta. Perché nel mezzo – andandosi a cercare tradizioni e pensieri più complessi – la scienza politica ha meravigliosamente affermato che tra l’ideologia e le scalmane digitali, c’è stato un tempo in cui anche mettendo in soffitta le ideologie sarebbe rimasto in piedi il principio che senza una “teoria” né si governa un paese, né si governa un’elezione (qualcuno dice neanche un condominio).
Da cui la cultura delle compatibilità, dei programmi, dei riferimenti agli scenari complessi e al tempo stesso all’universo in ebollizione della microeconomia.
Insomma, una stagione che va dal superamento delle transizioni degli anni ’70 alla crisi della metà degli anni ’90, in cui – un piede nella propria terra, un piede nel mondo – la politica ha optato per la geopolitica non più pensandola come soluzione militare (geopolitica delle due guerre mondiali) ma come soluzione economica, tecnologica, educativa.
Il nuovo liberalismo, il nuovo riformismo sociale, le nuove culture dell’integrazione, la spinta alla ricerca scientifica libera di fronte ai temi dei diritti civili, sono i riferimenti di una stagione di cultura della teoria, della sperimentazione e del superamento della teoria quando non è più produttiva.
E anche la stagione di una formazione alta (qui nasce la trasformazione internazionale delle università di scienze politiche, economiche e sociali) che i migliori hanno riferito a un principio già al tempo non propriamente popolare: la res publica come res severa.
Anche qui sono sicuro che questa specie umana in riduzione non sia del tutto estinta.
Ma la legislatura che stiamo portando ora al funerale è stata aperta da una girandola di ingenuità o sciocchezze ideologiche (uno vale uno) mescolate alla sfrenatezza del personalismo della politica fatta dai badilanti del posizionamento.
Fino a rendere il parlamento inutile, il paese ingovernabile, la capacità di interpretare il mondo ridotta a zero.
È su quel crinale che è stata dichiarata l’emergenza (che era inutile spiegare con queste parole ma che significava la prevalenza di queste parole). Mettendo in essere un tentativo di fare un patto con la componente parlamentare di questo sistema interessata a sopravvivere parlamentarmente e a consentire un esperimento di governo misto (tecnico-politico) che ha recuperato un po’ della cultura teorico-programmatica accennata.
Rimettendo al centro dell’agenda il metodo selettivo delle priorità, la valutazione di incompatibilità in ordine ai fondamentali, il governo delle decisioni alzando lo sguardo sopra l’asticella del puro presente .
L’hanno chiamata l’agenda Draghi, pensando che fosse un quadernino con tante parole in forma di contenuto.
È stato semplicemente il paradigma di metodo di una possibilità di governare avendo letto la Genesi.
E sapendo quindi che la velleità di innalzare torri pretestuose e non di orizzontalizzare lo sviluppo inclusivo si chiama non casualmente Babele.
Cioè la metafora che ci dice che non ha più senso parlare perché non ci si capisce più.
Tre quarti delle giravolte di questi giorni sono alla fine parte di questa involuzione.
Era evidente che ad un anno dal riprendere da sotto il materasso la coltelleria per riconquistarsi il posto in Parlamento, il grosso della classe politica, già considerata materia emergenziale, già confinata in una fiducia dei cittadini mai superiore al 5%, avrebbe fatto di tutto per sbarazzarsi di quel metodo e per riproporre a tutto campo l’unico modello che essa conosce per esercitare un protagonismo anche se spesso fasullo: il modello di Babele.
In questa metafora ci sono, volendo, nomi e cognomi.
Ma il cittadino – nel suo civico e costituzionale privilegio ancorché dai più denegato – dovrebbe tener conto di questi racconti, non è detto per alimentare l’astensione, ma forse per non dare per scontate le pulsioni degenerative.
Che vi sia spazio ancora per un voto positivo (non, come si dice, “utile”, ma appunto “positivo”, cioè contro la Babele) è forse possibile.
Anche se questo richiede all’elettore, questa volta, di essere un po’ anche cercatore. Nel suo interesse.