La guerra russo-ucraina oggi varca i sei mesi.

La contabilità imprevedibile del tempo di una guerra che ha mutato nella violenza i fini del conflitto e ha travolto la relazione storica di due popoli contigui mettendo a grave rischio l’ordine internazionale. A 180 giorni dall’invasione, qualcuno – sui due fronti – fa qualche previsione

24 agosto 2022 – Articolo pubblicato dal giornale online L’Indro https://lindro.it/la-guerra-russo-ucraina-oggi-varca-i-sei-mesi/

Ci sono state guerre lampo nella storia. Per non andare lontano, quella dei “Sei giorni” tra arabi e israeliani, dal 6 al 10 giugno 1967 o quella delle Falklands tra inglesi e argentini dal 2 aprile al 14 giugno del 1982, entrambe comunque rimaste sui libri di storia. Ma in ogni tempo si registrano anche guerre infinite. Dai circa 10 anni del Vietnam, ai 24 anni delle guerre napoleoniche, alla guerra dei Trent’anni nella prima metà del ‘600 (iniziata come una guerra tra Stati protestanti e cattolici nel frammentato Sacro Romano Impero, ma sviluppata in un conflitto generale che coinvolse la maggior parte delle grandi potenze europee), per non parlare della infinita sequenza delle Crociate iniziate nel 1092 e finite nel 1270.

Insomma la guerra – intesa come legittimazione dell’omicidio, in quanto conflitto intestato da Stati sovrani – costituisce una pratica che si perde nel tempo, che non ha per regola un tempo, che trasforma la geografia degli Stati e la cultura dei popoli, imponendo l’esatto opposto di quanto ora prevede, tra le altre, la Costituzione italiana che statua (art.11) “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. Da che mondo è mondo la guerra viene fatta per offendere la libertà di un altro popolo e per risolvere con le armi una controversia.

Uno scandalo millenario (“uno scandalo che dura da diecimila anni”, scrisse Elsa Morante in copertina alla prima edizione della sua Storia), tuttavia che induce poteri e popoli (compresi i Papi) a sostenere o deprecare nell’impotenza sostanziale di impedire o risolvere.

La guerra di tre giorni prolungata per ora di sessanta volte

II prolungamento finora a sei mesi, 180 giorni, di una guerra immaginata come la più breve della storia (doveva durare per lo stato maggiore russo “tre giorni”) ha messo in chiaro che si tratta di una guerra ingiustificata scatenata dal Cremlino  il 24 febbraio 2022 contro il vicino stato sovrano dell’Ucraina, nel contesto di una sorta di “fratellanza storica” divenuta nel tempo anche “fraterna occupazione” ovvero “fraterna subordinazione” (secondo il linguaggio trasmesso dagli zar ai soviet).

Una guerra che al momento non consente nemmeno ai più esperti e informati analisti di fare previsioni in ordine a una durata che ha travolto i fini iniziali e sta percorrendo, giorno dopo giorno, molti dei temi che dominano i conflitti globali del nostro tempo, senza ancora trovare le argomentazioni di convergenza minima tra i soggetti in campo per modificare lo scenario.

L’invasione, attraverso la Bielorussia, dei carri armati russi, con la copertura di artiglieria, venti giorni dopo, a metà marzo, veniva considerata internazionalmente “in stallo”. Perché l’avvicinamento aggressivo alla capitale ucraina mostrava un fine diverso dalla dichiarata riappropriazione dei territori a sud, considerati filorussi e comunque a prevalenza linguistica russa. Una argomentazione che già anni prima aveva riguardato la Crimea senza sollevare l’escandescenza delle grandi potenze mondiali e nemmeno della vicina Europa. L’attacco a Kiev (città pretestuosamente ricordata come un’antica capitale della storia russa) mutava tre settimane dopo lo sfondamento dei confini la motivazione strategica del conflitto inducendo il sistema occidentale a considerare il progetto del Cremlino come una unilaterale modificazione dei rapporti geopolitici di influenza, capace di mettere a rischio altre nazioni e, in sostanza, l’equilibrio stesso multipolare del pianeta.

A fine marzo la Russia è costretta al ripiegare rispetto all’attacco a Kiev. Ma ormai il posizionamento antirusso è strutturalmente cambiato. Il popolo e il governo ucraino danno prova di non cedere e di trasformare la legittima difesa in un drammatico appello all’Occidente. L’Unione Europea prende posizione e, nel quadro della logica di difesa della NATO, i paesi europei affiancano gli Stati Uniti in una gigantesca operazione di sostegno militare. La Russia appare orientata a concentrare l’azione offensiva nella parte meridionale del paese, affiancando all’azione militare quella ideologica e propagandistica. Sia verso le popolazioni locali, sia verso il mondo rivendicando il diritto di una “potenza storica” di aver restituita la dignità di un protagonismo offuscato dalla caduta del comunismo (pretesa irragionevole se non infantile). Con tutto il condimento della predica ideologica circa l’europeismo cristiano di Mosca contro la mollezza consumista e priva di valori degli europei venduti agli interessi americani (una riedizione anche dei linguaggi degli anatemi anti giudo-pluto-massonico-democratici occidentali del Mussolini a cavallo dell’Italia proletaria). Pienamente derivata dallo schema ideologico di Mein Kampf invece la teoria difensiva dell’azione militare russa contro “l’accerchiamento da parte della NATO” e la volontà occidentale di “distruggere la Russia e i suoi valori”).

Palmo a palmo la guerra nel sud dell’Ucraina diventa guerriglia. L’immensa disparità degli eserciti in campo viene compensata da vari fattori: le motivazioni resistenziali degli ucraini; i rifornimenti medio-leggeri da parte dell’Occidente; i caratteri improvvisati di un esercito di occupazione che subisce cinque volte le perdite degli avversari; uno sbandamento strategico tra i piani dichiarati e i piani sottesi.

Ed è in tale contesto che accadono due fatti che inchiodano il conflitto alle maggiori difficoltà di vedere con qualche successo gli sforzi di mediazione. E, d’altra parte, che dimostrano effetti imprevedibili della geopolitica prodotta da una guerra “antica” nel contesto di un mondo che la trasformazione digitale e quella energetica non riescono a trattare internazionalmente per confusione di linguaggi e intenzioni.

  • Mi riferisco alla strage di Bucha il 4 aprile, che sprofonda la propaganda russa nel ridicolo di una tragedia che scappa ogni giorno di mano.
  • E mi riferisco dal compimento (questo sì lampo) del rovesciamento della posizione neutralista di Svezia e Finlandia a favore dell’appartenenza alla NATO.

Aprile e maggio portano in equilibrio, sia pure a strappi, i successi e gli insuccessi militari.

Gli ucraini affondano la Moskva, l’ammiraglia russa del Mar Nero, i russi vengono a capo dell’infernale assedio a Mariupol, conquistando una città rasa al suolo. E così anche tra giugno e luglio: agli ucraini riesce la controffensiva di Kherson, ai russi riescono gli avanzamenti in Donbass.

Il parallelo negoziato internazionale – con il costante sforzo dei turchi di entrare in partita (chi dice per avere mano libera in Siria, chi dice per avere una posizione di forza nella ricostruzione dell’Ucraina) – si esprime su un tema “collaterale”, quello dello sblocco delle forniture ucraine ai paesi soprattutto africani delle derrate alimentari bloccate nei porti. Il parziale successo di questo negoziato viene interpretato come una pista per misurare l’equazione non si dice ancora di “una pace” ma almeno di “un armistizio” in cui le ragioni – nel trattamento diplomatico – risultino in qualche equilibrio.

Due episodi cambiano lo scenario d’agosto.

Ora siamo allo scadere di 180 giorni che hanno, se non sconvolto il mondo, certo messo alcune nuove generazioni di fronte all’antico tema che il mondo è peggiore delle illusioni che si ha il lusso di nutrire nei tempi lunghi di pace che, almeno una certa Europa, si è conquistata a caro pezzo ormai molti anni fa.

Proprio allo scadere di questa prima periodizzazione avvengono due episodi che cambiano i connotati della guerriglia di territorio, un metro avanti, un metro indietro. 

  • Giovedì 11 agosto la guerra rischia di entrare nelle zone rosse della catastrofe. Al centro del rischio, per coinvolgimento bellico, la centrale nucleare di Zaporizhzhya, che comporta l’ordine di Kiev di “evacuare la regione del Donbass”, l’immediato allarme del G7 per le conseguenze della situazione della centrale, il rapido intervento della IEA (agenzia nucleare dell’ONU con sede a Vienna) che chiede il controllo internazionale rispetto a quello esercitato dai russi e, in crescendo, la fuga anche dei russi dai territori. Una vicenda da dipanare. Ma che rimescola le carte tra i contendenti e i protagonisti internazionali della “guerra per delega”
  • Domenica 21 agosto, dieci giorni dopo, a Velyki Vyazomi, a venti chilometri da Mosca, la Toyota che avrebbe dovuto trasportare il filosofo suggeritore di Putin Aleksandr Dugin (parte delle trame della componente filoputiniana della Lega di Salvini), salta per aria a causa dei 400 grammi di tritolo dichiarati dalla polizia russa, avvolgendo nelle fiamme la figlia dell’ideologo del sovranismo russo, Daria Dughina, 29 anni, attivista e collaboratrice del padre. Ezio Mauro scrive su Repubblica “Un segnale politico per lo Zar”, aprendosi l’analisi di che uso il Cremlino farà di questo evento. Spiegando cioè che “rivelando Dugin come anima del potere putiniano, è come se l’attentato svelasse la dimensione culturale, filosofica, mistica del conflitto stesso”. Sia la 007 ucraina immediatamente individuata dallo spionaggio russo (Natalia  Vovk, scappata poi in Estonia), sia la pari immediata smentita di Kiev (“non siamo uno Stato criminale, a differenza della Russia, sicuramente non uno Stato terrorista” ribatte al Cremlino Mikhallo Podolyak, consigliere di Zelenski), questa vicenda rimette in pista il “romanzo” teorico-filosofico dell’impresa ucraina impantanata nel terreno,  nella destrezza della resistenza contro le colonne dei tank, soprattutto nello slabbramento di una narrazione esausta.

E due voci in campo in queste ore fanno immaginare ipotesi di date.

Il tema mediatico del giro di boa dei primi sei mesi chiude così il dossier di interpretazioni sulle cause e le motivazioni della guerra. Materia ormai uscita di scena dai talk-show, ma anche dei commenti e degli editoriali che hanno affiancato per mesi le cronache dai fronti. Nel pragmatico e duro mondo di chi ha qualche responsabilità di modificare lo scenario, la “materia” è fissata per sommi capi nei convincimenti dell’opinione pubblica mondiale e non subisce più alterazioni dai pur massicci investimenti propagandistici del Cremlino.

L’argomento è invece come far lievitare le ragioni sostanziali per le quali tutte le parti in causa (anche quelle non guerreggianti sul campo) abbiano una parte della soluzione. Come entra in agenda il tema di far quadrare un “racconto” che tenga in piedi l’equilibrio di un’altra fase del conflitto. Nessuno pensa alla fine del conflitto, ovvero alla pace, firmata e ratificata. Ma i linguaggi diplomatici accarezzano da più parti la “convenienza” multilaterale, rispetto a ragioni diverse se non addirittura opposte, per cui fermare la macchina inceppata del conflitto armato potrebbe evitare un altro Vietnam o un altro Afghanistan fronteggiando tutti meglio il quadro delle conseguenze sociali ed economiche che il conflitto sta scatenando.

Quando dico che questo “stacco” investe un po’ tutti i paesi, trovo sponda in un breve articolo (sul Corriere della Sera, domenica 21 agosto) di Sergio Romano, nella sua lunga carriera diplomatica anche ambasciatore a Mosca, che partendo dalle sanzioni riflette sulla convenienza congiunta della Russia e dell’Occidente di tentare di cambiare pagina rispetto alla cancrena giù vista nel ‘900 dell’improduttività del prolungato uso per lo più eterodosso (cioè progressivamente irregolare) delle armi. Nella ricognizione della stampa internazionale si trovano in questo periodo voci simili. Tanto che vale la pena in questo 24 agosto di cercare nelle dichiarazioni delle due parti in causa se stia maturando la legittimità di lanciare date non fantasiose ma “politiche” attorno a ipotesi di cambiamento. Ovviamente non sono né PutinZelensky a prestarsi a questa tattica. Entrambi mantengono le tetragone narrative del “fino alla fine”. Ma persone vicine e credibili.

  • In una nota dei giorni scorsi dell’agenzia Adn Kronos e il 23 agosto sul Corriere intervistato a Kiev da Marta Serafini) il già citato Mykhailo Podolyak, consigliere del presidente ucraino Volodymyr Zelensky, caponegoziatore di Kiev, fa cadere in un’intervista a “Meduza” che “la guerra in Ucraina potrebbe trascinarsi per altri due o sei mesi“. Podolyak, considera alcuni fattori: dalle scorte degli armamenti ai cambiamenti nel corso del tempo del ‘mood’ tra Europa, Ucraina e Russia. Podolyak si dice convinto che concessioni territoriali alla Russia non porranno fine al conflitto e che ci saranno negoziati di pace se la situazione sul campo cambierà e  Mosca non percepirà più di poter dettare condizioni. “Alcune città, come Mariupol e ora Severodonetsk, di fatto non esistono più – aggiunge – stimando in un totale di 80.000 le perdite russe”. Il punto di tenuta delle alleanze occidentali con la Ucraina, “che non possono venire meno”, è costituito dal fatto che “una vittoria in Ucraina per Mosca significherebbe una vittoria sulla NATO”. 
  • E’ sempre il Corriere di ieri, martedì 23 agosto, a dare a pagina piena l’intervista fatta dal corrispondente da Berlino Paolo Valentino a Dimitrij Suslov, direttore del Centro Studi europei presso la Scuola superiore di Economia di Mosca. Un luogo-pensatoio vicino al Cremlino (Suslov è anche pietroburghese come Putin) che – nell’azzardo di immaginare che l’esito del voto italiano modificherà il quadro di alleanze che tengono in equilibrio la guerra (argomento su cui il Corriere ovviamente titola) – in realtà lancia un’ipotesi intermedia a quella di Podolyak sui tempi di un cambiamento, parlando di “svolta possibile a gennaio”, pur mettendo avanti considerazioni “d’ufficio”: “Mosca può andare avanti ancora a lungo, tanto più che l’Occidente ha raggiunto il limite della sua capacità di pressione”. Tuttavia, immagina che l’Ucraina non possa reggere una situazione economica “da bancarotta” mentre l’Europa non possa prolungare le sanzioni e gli USA debbano fare i conti con le elezioni di Midterm che sono un freno al pieno sostegno della prima fase. È in questo quadro che l’economista russo immagina che il controllo del Donbass “con dentro la condizione minima di Odessa” possa rappresentare il contenimento dei “duri del Cremlino che spingono per la conquista di tutto il territorio ucraino”. Ecco il disegno della rappresentazione “dignitosa” da parte russa per intavolare un negoziato.

Cinque moniti

180 giorni infami, nel cuore dell’Europa. Monito per i giovani: la pace non è una conquista blindata. Monito per l’Unione europea che deve accelerare la sua condizione di soggetto politico. Monito per i politici dei paesi democratici circa il fatto che sarebbe più interessante la loro silenziosa creazione di condizioni agenti che l’agire puramente comunicativo. Monito per i media: i racconti devono spiegare non colorare i fatti. Monito per gli elettori italiani: ricordarsi che questo è l’argomento più spartiacque tra quelli di cui si discute (o non si discute) in questa inedita campagna elettorale estiva.


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