L’8 settembre, 79 anni dopo.

La metafora della dissoluzione dello Stato e della perdita di controllo identitario degli italiani colpì gravemente le generazioni che erano cresciute nella prima metà del ‘900. Il senso di quella disfatta complessiva fu tenuto a bada dalla rigenerazione costituzionale e dalla riqualificazione democratica ed economica dell’Italia. Ma l’ombra di quell’evento spartiacque incombe ogni volta che, nel presente, si avverte l’impotenza e l’involuzione della comunità nazionale. Da oggi all’8 settembre 2023 – l’ottantesimo dell’evento – se ne tornerà a discutere.

Stefano Rolando

Pubblicato dal giornale online L’Indro l’8.9.2022-         

 https://lindro.it/l-8-settembre-79-anni-dopo/

Oggi è l’8 settembre.

Per tanto tempo, nei secoli passati, questa affermazione ha significato una semplice constatazione.

Da 79 anni, invece, questa è la traccia simbolicamente più significativa di una catastrofe nazionale.

Che ha assunto crescenti connotazioni in relazione alla fortuna e al degrado del nostro quadro istituzionale. Che negli anni ’50 con Salvatore Satta (De profundis) e poi negli anni ’90 con Ernesto Galli della Loggia (nello stesso titolo di un saggio che ha fatto discutere) è stata tradotta nella forma più estrema di “morte della patria”.

Talvolta alcuni hanno preteso di appaiare l’8 settembre al ricordo di Caporetto, 25 anni prima, per segnalare le due maggiori disfatte della storia dell’Italia unita. Non essendo tuttavia questo un paragone sostenibile. Perché Caporetto (pur essendo poi divenuta parola comune per significare “disfatta”) fu una disfatta militare. Mentre l’8 settembre fu una disfatta istituzionale, sociale e valoriale di cui si parla in modo ininterrotto e con continue levigature che sono fatte anche da svariate, nel tempo, allusioni al presente[1].

Queste tre foto scattate il 3 settembre 1943 costituiscono lo spartiacque identitario dell’Italia del Novecento, forse ancor più della marcia fascista su Roma del 28 ottobre del 1922.

Cassibile (Siracusa) 3 settembre 1943 – La firma dell’armistizio tra Italia e angloamericani avvenuta in una tenda militare  in contrada Santa Teresa Longarini. Il generale Giuseppe Castellano, con piena delega del capo del governo Pietro Badoglio firma la “resa senza condizioni” dell’Italia, assiste alla firma dei rappresentanti UK e USA e si commiata con il comandante USA sul fronte occidentale (e futuro presidente degli USA) generale Dwight Eisenhower..

È dunque la firma da parte del generale Castellano a porre fine al posizionamento filotedesco dell’Italia nella seconda guerra mondiale e a porre fine anche agli ultimi rabbiosi bombardamenti americani e inglesi sulle città italiane per accelerare l’evento, dopo la crisi politica del 25 luglio con la defenestrazione di Mussolini proprio attorno al tema della gravità dell’andamento della guerra.

Il proposito del governo italiano era di rimandare la comunicazione pubblica dell’evento almeno di alcuni giorni per tentare – magari con l’appoggio militare degli ex-nemici, che in realtà non avvenne in così breve tempo – di contrastare la sicura e preventivata reazione dei tedeschi. I quali del resto si attendevano il ribaltamento dello scenario di guerra proprio dal 25 luglio, cioè il giorno in cui il Gran Consiglio del Fascismo mise Mussolini in minoranza sulla crisi della posizione militare italiana, da cui consegui l’arresto da parte del re dello stesso Mussolini.

Il generale Eisenhower, comandante delle forze armate americane sul fronte occidentale, per porre fine alle titubanze comunicative del governo Badoglio, la mattina dell’8 settembre diede personalmente da Radio Algeri la notizia dell’avvenuto armistizio. E nel tardo pomeriggio Badoglio fu costretto al famoso “proclama” che comunicava l’armistizio, annunciando tuttavia “che la guerra continuava” senza dire né contro chi, né come, né dove.

Ma il senso della “dissoluzione” fu evidente il giorno dopo.

Con le prime notizie di un’avanzata di truppe tedesche verso Roma, il re, la regina, Badoglio e i vertici dello Stato maggiore fuggirono da Roma e si fermarono prima a Pescara e poi a Brindisi, che divenne per qualche mese la sede degli enti istituzionali italiani, sguarnendo la capitale e dando un segnale drammatico di sbandamento.

Per i militari italiani in Italia l’8 settembre significò per molti gettare la divisa e, in una forzata interpretazione della “fine della guerra”, tentare il “tutti a casa”, ai più riuscito.

Per quelli in Africa e nell’Egeo fu ovviamente la tragedia dell’impossibilità di rientrare subendo per primi la rappresaglia tedesca.

In entrambi i casi una importante minoranza di ufficiali e soldati scelse di stare attivamente dalla parte della resistenza. E una piccolissima parte di militari italiani si consegnò ai tedeschi.

In ogni caso 815 000 soldati italiani vennero catturati dall’esercito germanico e destinati a diversi lager con la qualifica di I.M.I. (Internati Militari Italiani) nelle settimane successive.

La scelta resistenziale di una parte dei militari italiani è stata lungamente sottovalutata ed ha avuto dal presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi una forte rivalutazione in parallelo alla tradiva ma importantissima celebrazione del sacrificio degli italiani nell’isola di Cefalonia (11 mila soldati italiani della Divisione Aqui trucidati dai tedeschi per la scelta di opporsi al loro diktat).

Fu questa scelta resistenziale anche un segnale simbolico della presenza immediata delle istituzioni (ovvero grazie a quei soldati che avevano tenuto la divisa pur scegliendo “la montagna”) nella partecipazione attiva all’immenso cambiamento che si compì solo nell’aprile del 1945.

Colgo l’occasione per dire che mio padre, Emilio Rolando, fu uno di loro, tenente della divisione Cuneo nell’isola di Samo, poi decorato al VM per eroismi nella conduzione di quella posizione assunta con tutta la sua compagnia il 10 settembre.

La fotografia, straordinariamente salvata nei successivi anni di guerra e poi di internamento inglese in Egitto (incredibile ma fu così per quei soldati già condannati a morte dai tedeschi che arrivarono fino al canale di Suez per dichiararsi co-belligeranti) mostra il raduno della compagnia (al centro a torso nudo, con tracolla della pistola di ordinanza, mio padre) prima di affiancarsi alla resistenza greca.

Sempre in questa occasione tengo a confermare che con l’editore Walter Marossi ( L’Ornitorninco) ho preso la decisione di concludere finalmente la scrittura di quella storia, che porto avanti da anni, con ricerche circa tutti i dettagli possibili. Per renderla disponibile per l’8 settembre del 2023, ottantesimo anniversario di una data su cui non sono mai finite le indagini, le narrazioni, le discussioni.

Beppe Fenoglio in Primavera di bellezza (1959) ha raccontato l’8 settembre del 1943 con gli occhi di un soldato: “E poi nemmeno l’ordine hanno saputo darci. Di ordini ne è arrivato un fottio, ma uno diverso dall’altro, o contrario. Resistere ai tedeschi – non sparare sui tedeschi – non lasciarsi disarmare dai tedeschi – uccidere i tedeschi – autodisarmarsi – non cedere le armi”.

È questa l’esatta rappresentazione di un dramma nazionale, che apre per altro due anni di guerra civile. L’Italia, stremata dalla guerra, viene consegnata in mani straniere, americane al Sud, tedesche al Nord.

È fin troppo evidente che l’8 settembre resta – con tutte le implicazioni qui accennate – una metafora sempre viva del rapporto tra gli elementi di forza e gli elementi di debolezza della consistenza istituzionale dell’Italia. Che in questi 79 anni ha trovato il suo posto rispettato  in Europa e nel mondo e ha mantenuto vivo il programma dichiarato ai tempi dell’Unità da Massimo d’Azeglio di fare, al tempo stesso, anche gli italiani. Ma con molte zone d’ombra.

Da qui al prossimo 8 settembre – ottantesimo di una necessaria conclusione di una guerra impossibile e ormai suicidaria, ma anche ottantesimo di una catastrofe istituzionale – noi avremo un cantiere di analisi, controlli, misurazioni attorno a cui l’esprit républicain portato dal governo di emergenza di Mario Draghi resterà un paradigma di confronti. Inutile ricamare ora sul significato di questa ineludibile verifica attorno a ciò che, pur con le migliori speranze, ci aspetta.  


[1] L’attuale riferimento storiografico più argomentato è ancora quello di Elena Aga Rossi, Una nazione allo sbando. L’armistizio italiano del settembre 1943 e le sue conseguenze,  da  Il Mulino nel  2003.

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