8 maggio 2018 – h. 14.00
L’ Airbus della da compagnia francese – nei giorni in cui le agitazioni del personale hanno indotto il ministro Bruno Le Maire ad annunciare lo stato pre-fallimentare di Air France e la volontà del governo di non ricapitalizzare – sta sterzando in questo momento in senso occidentale, cioè alla propria destra, lasciata Parigi e dirigendosi quindi verso la Spagna.
Da lì è probabile che il tragitto tagli a est il Marocco e poi continui sopra il Sahara per puntare sulla grande curva che comincia da Dakar (Senegal) per scorrere fino a Libreville (Gabon) che tuttavia è fuori dall’area afro-occidentale.
Un tratto diciamo lungo come fosse da Roma a Mosca.
Tra Conakry (Guinea), dove sono diretto, e Freetown (Sierra Leone), dove c’è tappa intermedia, ci saranno alla fine solo 40 minuti di volo. Si percorreranno a fine pomeriggio, cercando di evitare di finire le gallettes cariche di burro comprate al volo al Charles De Gaulle.
L’ areo e’ carico in ogni settore. Africani di classe medio-alta, donne ben truccate e uomini corposi e talvolta pittoreschi; europei in trasferta funzionale e qualche turista (come tre signore emiliane che si divertono come collegiali).
Nella fascia equatoriale tropicale siamo in media stagione (aprile-maggio), quindi temperature in aumento, piogge frequenti e molta umidità.
Sulla Guinea le guide fanno questa focalizzazione :”Una delle destinazioni più avventurose dell’Africa occidentale, in grado di gratificare gli intrepidi. Paesaggi remoti e di grande impatto visivo, un dinamico panorama musicale e opportunità di avvistamento della fauna selvatica tra le meno note del continente africano”.
Peccato che nell’amalgama urbano che si sviluppa dietro al porto di Boulbinet, Conakry non sia che allusivamente quella sintesi di “paesaggi remoti” e non parliamo della “fauna selvatica”. Ma, a parere della guida, vivacità, cultura, spettacolo e contraddizioni urbanistiche la rendono comunque una città attrattiva.
E’ l’ora del pasto in aereo – adesso sono le 14.30 – e Air France in questi frangenti si fa onore. Sceglierò “fricassee de poulet” con riso alla noce di cocco e magari un bicchiere di vino rosso del Territoire de S.te Cecile.
Alla fine, però, ho optato per un bicchiere di champagne. Oh!
E non ho lasciato resti, nemmeno lo spicchio di camembert.
Ora siamo sopra l’immenso deserto, che dal video appare verde ma che invece resta una marea gialla esclusa allo sguardo, sia dalle nubi pressanti che dalla ampia ala destra dell’ aeroplano rispetto a cui la vista deve scivolare fino ai margini dell’oblò per dare qualche piccola soddisfazione.
Vista sulla piccola mappa mobile del viaggio la grande curva dell’Africa e’ in realtà un gigantesco morbido contrappeso al piccolo “corno d’Africa” che segnala la punta orientale del continente, sotto il canale di Suez.
Intanto lo schermo ESA ( in collaborazione con la NASA) trasmette dettagli sul Sahara. Ora siamo sopra la Mauritania e quello che si vede e’ degno di una mostra di arte contemporanea, chiazze di colori naturali tra il rosa e l’ ocra, con crateri color caffè e squarci di ghiaccio.
L’ aereo e’ sospeso tra Dakar e Ouagadougou. Sceglie lo spazio intermedio per scendere verso l’ attrazione fatale della costa. Mancheranno da qui diciamo almeno mille chilometri. Ma così, sulla mappa, sembra un tiro di schioppo. In fondo alla rotta si vede già Conakry.
Per la prima volta – sempre sul video – si affaccia anche l’altra sponda dell’oceano e sbuca l’indicazione di Recife, sotto la Cayenna, nel nord-est del Brasile. Dove arrivai, sulle orme di mons. Helder Camara, negli anni ’70 e di cui conservo ancora due legni intagliati (uno grande a Roma è uno piccolo a Milano) di figure umane rurali colorate realizzate da ragazzi orfani, proprio della scuola parrocchiale di Helder Camara.
Anche Freetown e’ alle viste. E intanto nella serie dei quadri cromatici sahariani il video trasmette la costa verde del Senegal che si ritaglia un profilo netto contro il blu dell’Atlantico.
Sono le 18.30. FInora quattro ore e mezza di volo con i muscoli del collo che danno segni di irrequietezza. Conversazione forse d’altri tempi con il collega professor Angelo Turco, geografo della scuola di Giacomo Corna Pellegrini, africanista specialista negli studi sulla formazione e la gestione del potere nella microsociologia dei villaggi africani. La mia domanda di inizio e’ questa: e’ una mia impressione o corrisponde a verità che l’intellettualità africana sembra più con gli occhi al passato, cioè alla salvezza diciamo della radice identitaria (il continente nero madre dell’umanità) e non in accompagnamento delle dinamiche civili e scientifiche della modernità?
La sua risposta è che bisogna distinguere tra l’intellettualità delle arti rispetto a quella delle scienze. Ma che è vero che l’evoluzione si è bloccata ai nodi ideologici degli anni cinquanta. E quindi – seconda domanda – si pone oggi il tema per le università europee che vogliono ( come noi stiamo per fare) aprire un dialogo con le università africane di come far ripartire ( e su cosa ) confronti che rimettano il senso contemporaneo del rapporto tra sapere e realtà, quando è evidente che solo questa collaborazione euro-africana può tamponare là schiacciasassi della globalizzazione che in Africa si presenta con la massiccia presenza, omologata al basso, prodotta dalla Cina.
La risposta è prudente. Perché i rapporti – forse, eccettuato il circuito, non proprio marginale ma nemmeno più centralissimo della Chiesa Cattolica – sono tenui e in più in una fase di declino dello sforzo egemonico compiuto a lungo dai francesi.
Ma, in fondo, avere scelto di ragionare sul rapporto tra formazione e migrazioni cì obbliga a cercare territori non astratti che debbono generare miglioramenti rispetto ai rischi che tutti paventano e che oggi significano soprattutto impatti sui nuovi mercati del lavoro.
Ricordando nella nostra chiacchierata che entrambi eravamo a Parigi nel maggio del ’68, che entrambi leggevamo “Le Monde” dagli anni ’60 ricordandoci degli editoriali di Beuve Merit , che entrambi abbiamo letto gli stessi libri sul superamento critico del colonialismo ( a cominciare da Franz Fanon), così che non abbiamo bisogno di perdere troppo tempo per valutare cosa salvare cosa dimenticare di queste storie in rapporti ai cambiamenti che stanno intervenendo nella relazione tra Europa e Africa.
Ecco, insomma, e’ cominciato questo strano viaggio in Africa di due intraprendenti professori italiani, diciamo diversamente giovani e di sinistra moderata, entrambi alle prese con il crinale della pensione, lui appena attraversato io alle viste, capaci di un certo senso critico rispetto ai nostri luoghi di lavoro, soprattutto negli angoli coperti di silenzio e ipocrisia, con la “responsabilità” – così la chiama, a buon diritto – di aprire una piccola porta, in un piccolo paese, in un angolo di mondo più connesso ma anche meno connesso, nel quale “prendono qualunque cosa tu gli possa offrire che loro non hanno” ma che al tempo stesso possono prendere la tua “saccenza”, se la percepiscono così, coprendoti di ringraziamenti altrettanto ipocriti.
L’ aereo ora sorvola la città di Tambacounda, che naturalmente non so dove sia e che appartiene, per me, piuttosto all’ immaginario universo geografico di un Gabriel Garcia Marquez rispetto ai pittoreschi nomi delle etnie e delle tribù africane di cui mi parla Angelo Turco (Bambara, Fula, Labi, eccetera) a cui invece quel nome di città assomiglia in modo più verosimile.
Si parla ancora dell’Africa e dell’ America Latina ( a me più nota) e mi dice ancora una cosa risolutiva per cogliere differenze di fondo. In AL la componente autoctona e’ ormai largamente minoritaria, mentre in Africa la componente autoctona e ancora largamente maggioritaria. Il che rende l’ AL parte di quel processo di ibridazione in cui il cambiamento è avvenuto in condizioni assimilative ben più evidenti rispetto al carattere ancora relativamente “incontaminato” del panorama antropologico africano.
Intanto file di palme segnalano l’ atterraggio all’ aeroporto di Freetown. Chiudo il mio quadernetto. Domani sera, se ci sarà fiato, lo riprenderò dopo l’agenda di incontri destinati, per me, a posare i piedi per terra, sulle confuse percezioni di questo emisfero.
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