Podcast n. 10 Il Mondo Nuovo – Rifare l’Italia (presentismo e questione giovanile)

Versione scritta

Podcast sul magazine online Il Mondo Nuovo Lunedi 19 settembre 2022

Nella rubrica “Il biglietto da visita”

Buongiorno a tutti, sono Stefano Rolando.

Oggi non parto tanto da spunti teorici ma piuttosto da spunti di vita.

Frammenti di accaduto quotidiano.

Da qualche giorno penso di raccontarvi di un mio quotidiano giovane collaboratore che lavora in una copisteria. Mi vede arrivare, appunto tutti i giorni, con la mia chiavetta e mi stampa o riversa tutto quello che scrivo. Seriamente ne controlla gli esiti. E mi rende un prodotto di solito all’altezza delle mie attese. Piccole cose, ma attentamente curate.

Non so se abbia la terza media, la terza liceo, la terza professionale, magari un’università in corso.

È riservato, tifa per la Roma, capisce al volo il rapporto tra la mia chiavetta e i percorsi digitali per trasformare il digitale in carte e viceversa. E fin qui tutto bene.

Ma ha cominciato a pungermi la curiosità di capire se capisce.

Cioè se tutto quel giro di parole che sta nelle mie carte, a volte noiose, a volte concettuose, a lui passi come acqua sul marmo. Oppure se c’è qualcosa che intercetta il rapporto con la sua memoria, i suoi linguaggi e le sue basi cognitive.

La copisteria è mestiere veloce. Premono i clienti. Bisogna prestare attenzione ai piccoli processi. Altrimenti uno si perde la chiavetta. L‘altro pensa di stampare fronte e retro e gli torna solo fronte. Un terzo chiede il corsivo e il frastuono si è mangiata la questione. Eccetera.

Da giorni lui mi sembra sul punto di farmi una domanda, che qualche volta il suo capo mi fa: “Ma, scusi, come finirà? E come va l’Italia? E di questo governo che ne dice?”.

Io non credo che lui – vent’anni – spasimi per queste curiosità. Ma quale sarà allora la domanda?

Capita che qualche volta scappi qualche parola in più. Ad esempio, dice: “A proposito, i biglietti da visita che ha chiesto nell’ altro formato, sono pronti…”.

Non ha cambiato stile, mantiene il suo protocollo, ma poi però una parola la dice. Fa un passo e aggiunge: “Le posso fare una domanda?… Il Milan quest’anno come lo vede?”.

Io so che lo scudetto dell’anno scorso gli ha fatto impressione. Romanista sì, ma la tenuta del Milan ha fatto impressione a tifoserie come quelle del Napoli e della Roma. Che tirano, tirano, poi manca la panchina, manca la concentrazione, mancano i soldi, manca il non so che e alla fine il galoppo si disunisce.

La tenuta del Milan chiede… Gli dico che il risultato del derby è stato brillante, ma che per la “tenuta” bisogna ancora vedere.

Torna a sentirsi abbastanza legittimato nella sua appartenenza (di tifoso romanista).

E la cosa sta per finire lì. Ma devo chiedergli io di stampare 20×20 una bella foto in bianco-nero e grigio in cui, come una staffetta celeste, Coppi e Bartali attraversano le alture alpine, tra nubi agitate e strade polverose.

Fausto Coppi e Gino Bartali

Lui prende l’appunto e scrive Coppi con una sola p. Copi. Che forse è la radice della parola “Copisteria”.

E io gli dico che ha due p.

Lui è sorpreso. Ma colgo una frazione di smarrimento e capisco nitidamente che non sa chi sia Coppi.

Il ragazzo dei miei biglietti da visita – quelli veri, non quelli metaforici di cui parlo qui in audio – non sa chi sia Coppi. Mai sentito nominare.

Mi domando se può esserci un italiano, non importa di quale generazione, che non abbia a mente – geneticamente a mente – i fondamentali dell’italianità.

La pasta, la mozzarella, la pizza, Volare, Mina, il golfo di Napoli, la pipa di Pertini… Coppi&Bartali.

No, Coppi&Bartali no. Anzi, Coppi no. Non so il resto. Ma ciò che, a cinque anni, mi teneva legato per ore a una striscia stretta tra l’asfalto e un fosso, tra Lodi e Casalpusterlengo, dove mio papà mi aveva portato per vedere passare Coppi al Giro d’Italia, lui non sa nemmeno cosa sia. E se scrive quel mitico nome, lo scrive con una p in meno.

Non ho la forza di rimproverarlo, di sottolineare lo stupore, di guardarlo per leggergli il fondo degli occhi.

A me è simpatico. E lo considero bravo.

Però il mio italianissimo giovane collaboratore, che fa le sue otto ore in una moderna copisteria situata di fronte alla casa romana di Mario Draghi in viale Bruno Buozzi, non ha la più pallida idea di chi sia Coppi e di cosa rappresenti nell’identità italiana.

Oggi apprendo, anzi, che la stessa identità italiana, quella dei fondamentali intoccabili, quella che lega i santi patroni ai cibi cruciali, quella che lega le emozioni per gli eroi della pelota, della fatica, del talento, dell’irripetibilità, alla vita di tantissimi comuni mortali, sono una storia a tempo.

Un orologio con la sveglia, che è arrivata alla fine del suo compito. Non tutto è trasferibile nel futuro.

Tanto che non è più vero che la staffetta generazionale funzioni per tutte le voci di quella identità.

E non è più vero che quelle voci siano l’irrinunciabilità interclassista, interculturale, intersociale, di un paese che, alla fine di un paio di secoli, avrebbe potuto dimostrare che fatta l’Italia si sono anche fatti gli italiani.

Oggi il mio giovane collaboratore mi ha dimostrato, al contrario, che sfatta l’Italia si sono anche sfatti gli italiani.

Vorrei spiegarmi  meglio. Ricordo bene le tipografie di quaranta, cinquanta anni fa. Ci stampavamo i giornali studenteschi e poi altro. Anche lì c’erano ragazzi, apprendisti, magari semplici o senza titoli di studio. Ma non mi facevo domande sul fatto che capissero o non capissero i testi (che dovevano spesso ricomporre in piombi). Non tutto era intellegibile a tutti. Ma le cose che riguardavano i fondamentali della comunità nazionale li capivano. Se scrivevamo sulla Resistenza sapevano cosa fosse.  Se facevano cenni a glorie e disgrazie comuni (da Caporetto al Polesine) sapevano. Altro non so. Forse non credo che la comprensione arrivasse a tutto.

Dico solo che nell’era di carta e giornali, la memoria collettiva non mi pareva tagliata.

In epoca digitale dove tutti si ritengono molto, molto più informati e certo sanno molte cose, la memoria collettiva, ecco quella mi pare quasi sempre tagliata.  

Il mio sconforto è grande. La mia impotenza molto più alta dell’accaduto. Nel senso che valutando il diritto di selezionare le eredità e l’importanza di non cancellare per noncuranza aspetti decisivi del cammino collettivo, propendo per una opinione.

Il punto che mi sembra rilevante è che negli ingredienti essenziali di un’identità collettiva deve essere giustificata la ragione per cui una generazione censura o cancella certe storie.

Spesso le ragioni sono valide. In questo caso, Coppi e Bartali non sono solo due ciclisti, quando apprendo tra l’altro che tra i giovani il ciclismo non va di moda. Rappresentano frammenti popolari, fondati sulle gambe e la fatica, non sui soldi o sugli eserciti, per riconquistare – dopo le tragedie della guerra e l’umiliazione (dentro e fuori) di un paese – orgoglio e reputazione.

Decidere che questa pagina venga derubricata generazionalmente meriterebbe almeno una discussione.

Non vorrei fare moralismo anti-giovanile. Constato (questo è solo un frammento), come ho detto poco fa,  che la totalizzazione cognitiva digitale, ripeto con il suo alto contributo a saper di più, induce a un presentismo pesante. Che ha appunto un prezzo: tagliare la memoria. Fare a meno di quella tessitura dei fatti che parte da lontano. Questo è il punto della discussione. E visto che parliamo di “biglietti da visita”, questo è il tema della autorappresentazione dei giovani oggi (sono certo, con molte deroghe ed eccezioni).

Siamo stati educati a pensare che “Rifare l’Italia fosse un bel discorso riformista di un avvocato milanese che ad inizio del secolo scorso fondò il Partito Socialista Italiano e spiegò in Parlamento che, per non perderci il nostro patrimonio materiale, dovevamo al più presto ”rifare l’Italia” in senso soprattutto idro-geologico.

Si chiamava Filippo Turati e poco dopo finì in esilio per vent’anni in Francia. Perché a “rifare l’Italia” ci avevano pensato i fascisti, siamo in vista del centenario della “Marcia su Roma”.  Scopiazzavano un’idea della Roma imperiale trasformata in una gita fuori porta dell’Italietta della domenica con la vita a volte regolata dalle manganellate.  Adesso, dopo quello che è successo in copisteria, la questione non riguarda più l’Italia materiale, ma quella simbolica.

E Il mio primo pensiero, in ordine all’unico rimedio immaginabile, è che il ciclo mediatico e il riciclo dell’inestinguibile talento narrativo degli italiani sollecitino qualcuno prima o poi – senza sapere quale era il modello da imitare – a rifare dall’inizio innanzi tutto la Rai-Radiotelevisione italiana.

Con dentro Lascia o Raddoppia, il Musichiere, Canzonissima, le gemelle Kessler in calzamaglia e soprattutto il Maestro Manzi con Non è mai troppo tardi.

Non è escluso che il contenitore cambi nome, chiamandosi Netflix o qualcosa di simile.

Grazie. E a risentirci.

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