Pubblicato il 23.9.2022 sul giornale online L’Indro
Una campagna elettorale di un Paese che è ubicato nella Patagonia dei partiti rispetto al ruolo di una grave guerra che è in atto invece in Europa. Lo scontro è stato non tanto sulle soluzioni quanto sugli anatemi.
Stefano Rolando
Al suono delle campane del via della campagna elettorale, due mesi fa, c’era chi scommetteva che stavamo entrando in un nuovo capitolo delle storiche elezioni spartiacque.
Il dubbio se fosse un altro ’48 (con la fine dell’unità nazionale e la presa d’atto della guerra fredda) o un altro ’53 (con l’evidenza che la guerra fredda dovesse tenere ben separati i due campi).
Grandi firme sui giornali per dire: questo sarà l’unico tema, o di qua o di là. O si sta con i russi o con gli americani.
Già, un’altra volta? Più o meno. Salvo che allora non si era ancora fatta l’Europa (i Trattati sono del ’57) così che ora il pensiero che si potrebbe o dovrebbe stare prima di tutto con l’Unione Europea ha serpeggiato non poco nei commenti.
C’era da aspettarsi i nuovi De Gasperi, i nuovi Togliatti, i nuovi Nenni capaci di fare lievitare le ansie e le speranze di un popolo sacralizzando il voto di un popolo che aveva appena riconquistato quel diritto.
La parola, come si sa, è andata però ai veri, reali, attuali, soggetti in campo.
Non si può dire che il tema della relazione tra la guerra e l’Europa sia scomparso del tutto. Ma nella sostanza la natura retorica della battaglia elettorale ha mostrato che, chi per una ragione chi per l’altra, stendere la nebbia sull’Ucraina era in generale conveniente.
Certamente è stato più conveniente per il centro-destra che era strutturalmente colluso con Putin e aveva bisogno di nascondersi nell’idea dell’imprevista e inspiegabile mutazione del tiranno o nell’idea che la questione, al fondo, è meno importante del bonus per il caro bollette,
Giorgia Meloni ha mostrato fastidio alle domande sulla guerra, chiarendo che la sua è una posizione filo-atlantica e basta. E che le elezioni giocate sulla guerra non interessano gli italiani. Salvini ha fatto credere di essere andato a Mosca l’ultima volta per la prima comunione ortodossa di un suo parente. E Berlusconi (impressionante dichiarazione) ha lasciato parlare finalmente la sua limpida coscienza: quel brav’uomo di Putin voleva togliere di mezzo un nazista antirusso e metterci delle persone “per bene” (queste le parole). Lo hanno “fatto su” i suoi collaboratori spingendolo a una guerra che non voleva, infatti la chiamava sempre “operazione speciale”.
Il centro-sinistra rincorre. Di tutto ha bisogno ma non di passare il tempo a prendersi a sediate gli uni con gli altri su cose che gli italiani almeno al 50% considerano “lontane”.
Così se M5S sceglie di attaccare il PD proprio sulle armi a Kiev e questo è lo stesso tema smarcante dell’alleato di sinistra del PD (verdi e sinistra) e anche di una parte “francescana” del mondo cattolico, meglio non trasformare il voto “utile perché contro la destra” in una rissa. Se serve si ribadisce la posizione, ma si evita la conta sul tema della guerra.
Alla fine – e sollevando un vespaio – ci ha provato la von der Leyen a dire (all’università di Princeton, negli Stati Uniti) che se le elezioni italiane portano a esiti che la UE potrebbe giudicare “difficili” Bruxelles “ha i mezzi per intervenire”. Apriti cielo. Poi una necessaria correzione. Messa com’era si rischiava pure di rinfocolare l’antieuropeismo che sembrava risanato da Mario Draghi e riportato in una marginalità fisiologica, non in una condizione di rischio per gli interessi nazionali.
Questa è la fotografia – forse semplicistica, ma piuttosto corrispondente al vero – che mostra il risultato di partiti che hanno deciso di portare a casa un voto controllato attraverso una piattaforma di confronto elettorale in generale strillata e vacua; ma prendendo i più le distanze dai problemi difficili (guerra in testa) scegliendo lo scontro non tanto sulle soluzioni quanto sugli anatemi.
E’ la fotografia, insomma, di un sistema politico che non ne poteva più di scaricare il protagonismo internazionale del governo Draghi, con il quale si può essere d’accordo o in disaccordo, ma dal primo giorno l’agenda (l’unica vera, quella fatta dal mistero del setting globale del mondo) è stato impostata – negli atti di governo e nella comunicazione istituzionale – alla ricerca serrata delle soluzioni e al tentativo di togliere di mezzo la messinscena di conflitti interni carichi di insulti e poveri di progetti.