Podcast n. 12 – Il Mondo Nuovo Lunedi 3 ottobre 2022

Stefano Rolando
La nostra rubrica, intitolata “Il biglietto da visita”, è giunta alla 12a puntata e tratta di questioni – legate a realtà diverse – che hanno a che fare con l’identità e la rappresentazione.
È un vasto perimetro che ci permette di spaziare un po’ sui contenuti.
Nelle ultime occasioni abbiamo parlato, per esempio, di anziani e giovani, un terreno di una certa conflittualità narrativa che si rivela importante per un paese come l’Italia.
Più volte siamo stati sedotti dall’attualità prorompente. E anche oggi non si può ignorare che se c’è qualcuno alle prese con il rifacimento del proprio biglietto da visita è proprio Giorgia Meloni, vincitrice delle elezioni a capo di un partito che si è raccontato fin qui come la destra del centrodestra, caratterizzato da alcune espressioni che hanno avuto la loro narrativa agendo sempre nel campo dell’opposizione.
Ora Giorgia Meloni agisce nel campo del governo. Il modo con cui peserà le parole e le scelte sarà decisivo non tanto per pescare nell’immediato voti ma per determinare le condizioni di governabilità e il grado di garanzia internazionale e interna che l’Italia intende mantenere, se lo intende mantenere, dopo la grazia, da questo punto di vista, del governo Draghi. A cui gli italiani, dopo il voto, riconoscono ancora un 63% di fiducia e stima, alta negli elettori di tutti i partiti, compreso Fratelli d’Italia.
Le parole che hanno fin qui campeggiato nel biglietto da visita di Georgia Meloni sono state: sovranismo, identità nazionale, primatismo, euroscetticismo.
Vi è chi ha scritto che questo è un lessico del “futuro anteriore”.
Giorgia Meloni ha aggiunto di recente anche la parola atlantismo, che si è rivelata decisiva nel prendere le distanze dai suoi soci di governo più incastrati in attitudini filo-putiniane.
Il punto di analisi che appare più frequente in questi giorni di preparazione e attesa dei mutamenti riguarda proprio l’evidenza che quelle parole saranno almeno parzialmente cambiate, o ne sarà cambiato il significato. Per rendere l’azione di governo compatibile con la sostenibilità del reale interesse nazionale e soprattutto come punto di equilibrio e di accettazione di un leader italiano con l’immagine e la reputazione di avere coltivato sentimenti post-fascisti.
Fratelli d’Italia, partito recente, ribatte sempre di non poter essere anagraficamente un partito fascista. Ma con l’espressione post-fascista si è sempre inteso che una certa scia della memoria e della nostalgia ha creato un’area di domanda politica (quindi anche di voti) che, nelle condizioni del maggioritario, si è sommata ad altre istanze (diciamo così antiglobaliste) a cui dare rappresentanza e – qualcuno ha detto anche – a cui consentire una certa costituzionalizzazione.
Ma scatenando anche una reazione e una battaglia politica legittima con una parte notevole del paese che considera costituzionale il rispetto dell’antifascismo, non la costituzionalizzazione di un vecchio terreno di nostalgie che confina spesso – e in certi territori “molto” – con un nuovo terreno di eversione.
Il punto centrale della questione è che la parola “sovranismo” è usata quando si è all’opposizione a destra con una genericità che sfiora la storpiatura: soprattutto nella guerra dei poveri per difendere il primato degli italiani (Trump ne ha fatto un capitale elettorale); qualche volta nella guerra dei ricchi per opporsi allo sbranamento multinazionale dell’economia italiana; di recente nella guerra della governance europea per non finire sotto schiaffo soprattutto dell’asse trainante dell’Europa, cioè quello franco-tedesco.
Trasferita quella parola oggi nel linguaggio di governo – di un paese che ha il suo posto in Europa, nel mondo e nella globalizzazione – il carattere puramente difensivo è poco usabile. Chiunque finirà alla Farnesina lo dirà alla premier tutti i giorni. Con un contesto europeo che prevede l’automatismo sel recepimento legislativo europeo nelle legislazioni nazionali.
Vi è chi dice che la parola sovranismo finirà allora per essere scartata, perché troppo insidiante la libertà di manovra di un partito che non può vedere il suo Paese trasferito nell’immaginario internazionale nella cosiddetta area est dell’Europa, ovvero i paesi che scappati dal comunismo si sono raccontati che non possono cedere a Bruxelles la loro identità nazionale, sottratta per anni, diventando quelli che vogliono avere i benefici ma non gli oneri di essere membri dell’Europa.
Per l’Italia paese fondatore questa posizione è impraticabile. E il problema è ora quello di mettere al lavoro teste pensanti per un adattamento dell’espressione sovranista in tensione con un’altra espressione un po’ rafferma che è “identità nazionale” per renderle, se non si vogliono addirittura scartare, con nuove definizioni di linea che risultino accettabili nei linguaggi dei governi.
Insomma, Giorgia Meloni, considerata da tutti “furba”, finirà forse non per scartare, ma per adattare.
Per esempio, entrando con qualche ritocco modernizzante nell’espressione che fa da perimetro al gruppo politico europeo a cui la Meloni ha iscritto Fratelli d’Italia, cioè i “conservatori”, ovvero l’alternanza che dovrebbe essere fisiologica non dirompente alla visione di governo dei “riformatori” (che invece il partito europeo della Meloni ha messo insieme facendo un bell’ossimoro confusionario).

Quanto all’identità nazionale – parola che la sinistra italiana ha invece regalato alla Meloni per trascuratezza e per mancanza di una seria coltivazione della radice risorgimentale di una parte rilevante dei contenuti ideali della sinistra stessa, da Mazzini a Garibaldi – essa non può più essere la ridotta antiglobalista, cioè in chiave puramente anti-immigratoria. Che Salvini usa per parlare degli interessi italiani in materia di assegnazione delle case popolari o per rassicurare il voto operaio stabilizzato italiano che gli immigrati non prenderanno i loro posti accettando paghe inferiori.
Tuttavia, un interrogativo è ora legittimo, dopo il primo discorso in pubblico di Giorgia Meloni, a Milano, ad un raduno di agricoltori della Coldiretti quelli che l’identità nazionale la vedono soprattutto nelle “quote latte”). La candidata premier ha accuratamente evitato la parola “Paese”, valorizzata da Gramsci ma poi diventata giornalisticamente trasversale e di uso comune. E ha insistito più volte sulla parola “Nazione”, in sé legittima e di origine risorgimentale, ma poi nel ‘900, dando origine ai “nazionalismi”, divenuta il cuore delle maggiori derive del secolo. Dunque, da usare con prudenza e non con la grinta rivendicativa della campagna elettorale.
E in questa partita la sfida sarà tra il governo di centrodestra e l’opposizione di centrosinistra a chi ridisegnerà meglio l’approccio a questa espressione chiave del fare politica nel terzo millennio avviato, constatando che soprattutto negli ultimi 25 anni o l’espressione si è persa per strada o ha avuto uso trascinando vecchie interpretazioni pre-novecentesche.
Secolo in cui i nazionalismi hanno tentato l’assalto al mondo e sono stati sconfitti a costo di immense macerie nella seconda guerra mondiale, quella che poi in reazione ha visto nasce il fiore dell’Europa unita.
Fiore cresciuto purtroppo a metà e poi – proprio sul piano identitario – rimasto come un progetto rinviato. Ecco, dunque, il campo di gioco non solo tra forze politiche che vogliono governare l’Italia di oggi ma anche tra ambiti intellettuali, di ricerca e di stimolazione del dibattito pubblico che devono tener conto della trasformazione della domanda identitaria nell’età digitale.
Quando cioè appartenere al proprio quartiere, alla propria città, alla propria regione, alla propria nazione, all’interesse collettivo di stare in una Europa forte e unita, alla necessità di essere anche cittadini del mondo, vuol dire capire che sono identità che possono esprimersi in modo compresente.
Ma la lotta politico-elettorale di molti paesi europei ha fin qui fatto credere il contrario. Prima viene il rione, poi la città, poi la regione, eccetera eccetera.
Grazie e a risentirci.
Infatti, è possibile che i primi a domandarsi qualcosa circa il termine “Nazione”, nel contesto dell’incontro milanese della Coldiretti, siano stati proprio i coltivatori diretti la cui esperienza degli ultimi decenni – e quindi l’orizzonte mentale di diverse loro generazioni – non ha certo fatto i conti con questo interlocutore. E’ possibile che la Nazione oggi richiamata da Giorgia Meloni appaia ad essi e d’ora in poi un ulteriore livello di contrattazione con cui fare i conti, piuttosto che come un soggetto collettivo nel quale armonizzare i propri interessi e le proprie aspettative.
Ottima annotazione. Alla fine non metterà mano a questa scatola vuota. Mantenendo il suo nazionalismo allusivo e cercando che non sbavi da più parte la connotazione fascistoide che sta simbolicamente nel simbolo dell’MSI che nkn ha voluto togliere dal logo.