Podcast n. 13 sul magazine online Il Mondo Nuovo – Lunedi 10 ottobre 2022

Buongiorno a tutti. Sono Stefano Rolando
Non è solo Giorgia Meloni a dover rimettere a posto il suo biglietto da visita, passando dalla lunga marcia nelle opposizioni alle responsabilità di governo.
Anche un partito che ha sacrificato molte volte la sua caratterizzazione identitaria per stare il più possibile al governo, il Partito Democratico, è alla prese più o meno con lo stesso problema.
A questo difficile cantiere per rifare un piccolo ma decisivo pezzo di carta – come è un biglietto da visita – vorrei dedicare la mia riflessione di oggi in questo audio settimanale.
Giorgia Meloni coltiva un certo silenzio (a parte l’intervento a Milano al raduno della Coldiretti), alle prese non con il problema del “dire”, ma con quello del “fare”, un fare carico di significati reconditi, per chi sceglierà e soprattutto per chi non sceglierà nella formazione del governo.
Così che i riflettori dei media tendono a puntare – nello spazio che residua dalle preoccupanti cronache della guerra in Ucraina e nelle allarmanti segnali dell’impennata dei costi energetici – proprio al travaglio dei Democratici.
Repubblica ne fa un “feuilletton” a puntate. Il Corriere mette in campo il fondatore della sintesi delle anime costitutive del Pd, Walter Veltroni, per aprire anche un dibattito con retrospettiva.
La rete è subissata da contraddizioni, dopo che Rosy Bindi e Massimo D’Alema (due bandiere delle due anime costituenti) hanno proposto un modo un po’ radicale per ridisegnare i colori dell’anima comune: sparire. Cioè, per la verità, sciogliersi, mandare a casa un bel po’ di dirigenza, mettersi lo zaino in spalla e ricominciare a camminare.
Al primo schiaffo un coro di sì. Giusto! Sciogliersi, rifondare (con qualche allusione post-comunista,no?), ricominciare (con qualche allusione agli amori traditi). Eccetera.
Poi però qualche rinsavimento. Ma perché sciogliere, annullare, eliminare?
La vocina “riformista” che, malgrado tutto, c’è nel PD dice: rileggere, ripensare, rigenerare.
Nel frattempo, fioccano le autocandidature a sostituire Enrico Letta che vuole accompagnare il PD al congresso ma lasciando il timone dopo il possibile approdo post-congressuale.
E colpisce un po’ che prima della diagnosi, ci sia già la medicina. Cioè che al centro delle autocandidatura ci sia quella della roccaforte PD, l’Emilia Romagna, con il suo presidente, Stefano Bonaccini, assertivo razionalizzatore della cultura della buona amministrazione, esponente di un neo-migliorismo interno, diciamo ala moderata, e la sua vice. Elly Shlein, complessità di percorso più eterodosso, con integrazioni moderne in fatto di genere, di questione ambientale e forma della cultura della diversità, così eterodossa da non essere nemmeno iscritta al PD, due nomi che più che contrapporsi paiono in campo come un ticket.
Ma è un ticket che stranamente precede il “congresso morale” annunciato.
Come se esso potesse semplificarsi con la partenza di Letta accompagnato da Serracchiani e Tinagli e l’arrivo di Bonaccini accompagnato da Shlein e si vedrà chi.
Un biglietto da visita è essenziale ma ineludibile: deve esserci un nome (con una storia implicita), una qualifica una funzione, un indirizzo.
E qui non si scappa dall’anamnesi di una vita ancora abbastanza breve ma carica fin dall’origine di lunghe eredità e che ha accumulato insoluti.
Le eredità riguardano la filiera post-comunista e la filiera post-democristiana che hanno caratterizzato fin dal 14 ottobre 2007 la nascita del PD.
Il PCI aveva avuto nella sua storia un solido brand popolare e operaio ma una vocazione ad esprimere molte altre cose, fino a teorizzare propria nella rappresentanza (e quindi anche nei linguaggi e nelle narrative) quella che fu chiamata dai politologi la “doppiezza togliattiana”: partito operaio e intellettuale, delle campagne e delle città, del sud e del nord. Ma soprattutto rivoluzionario e gradualista, internazionalista e territoriale, innovatore e conservatore.
Così da tentare di neutralizzare il paralizzante antagonismo tra massimalisti e riformisti che ha lacerato la storia dei socialisti dalle origini.
Neutralizzare con un certo leninismo metodologico e con il famoso “centralismo democratico”, più o meno niente correnti formali. I conflitti vengono definiti (in generale dalla sinistra) come maturativi. Ma devono essere “ben temperati”, cioè ben tenuti a freno. E con la regola che ha prodotto alcuni torbidi sviluppi: per nessuna ragione, mai avversari a sinistra.
La DC aveva avuto la storia della “balena bianca”, grande, morbida, gelatinosa, uniforme e differenziata.
Un po’ a destra e un po’ a sinistra, per definizione. Acchiappare tutti per ecumenismo. Quindi con una cultura centrale delle mediazioni.
Mettere insieme queste due eredità ha ovviamente significato: due mediazioni, due doppiezze, due ecumenismi. Eccetera.
La cultura che va dai liberali agli azionisti, dai radicali ai socialisti, si è presentata nel ‘900 come più assertiva, più gestita da cambi di guida che da continue e perenni mediazioni.
Ma questa cultura non ha trovato una sintesi ed è rimasta ai margini della costituzione del PD e dunque si è poi diradata (negli ultimi 25 anni) in piccoli cespugli, senza più una vera e propria casa, né comune, né per ciascuna delle sue storiche componenti.
Il peggio che potesse capitare all’evoluzione politica italiana.
Questa area che voleva essere meno grande Chiesa – per questo chiamata a volta allusivamente “laica” – aveva radici risorgimentali. Importantissime per tenere ben piantato l’albero valoriale della sinistra.
L’identità italiana pensata da Mazzini e praticata da Garibaldi. E poi scritta in tante pagine. Da Gioberti a Croce, da Salvemini a Gramsci, da Gobetti a Turati.
Ma l’uscita di scena centrale di questo abbondante 20% del voto espresso dagli italiani ha prodotto un PD ingessato nel rispetto delle sue storie fondanti, ma nella necessità fin dall’inizio di superarle, senza però il reale coinvolgimento di quell’anima che in tutto l’occidente è necessaria a produrre l’equilibrio tra società e impresa, tra welfare e mercato, tra Stato e federalismo, eccetera.
E ha trasferito (viene voglia di dire “regalato”) in forma di banalizzazione l’identità nazionale in mano alla destra. Ma nella trascuratezza di Forza Italia di qualunque vera storia se non quella della sua filosofia di plastica ricavata dal disinteresse personale di Berlusconi per le istituzioni e nella cultura fondativa separatista e antieuropeista della Lega, quella bandiera dell’identità nazionale si è trasferita nella bandiera post-fascista. Prima quella di Fini, evaporata. Poi in quella della Meloni, sbandierata a prescindere dai suoi veri valori di riferimento. Semplicemente con il concetto sovrano di “nazionale”. Una formula quasi “trumpiana” (a meno che non si volesse dire “quando c’era lui…”, invocazione proibita dalla Costituzione).
Un podcast non è solo voce. Per cui ascoltate qualche secondo di un frammento della pur vasta colonna sonora del sapore risorgimentale dell’identità italiana. Qui è Toscanini che dirige da Londra espatriato L’Inno di Garibaldi.
Segue l’ascolto dell’avvio della registrazione dell’Inno di Garibaldi diretto da Arturo Toscanini con la NBC Symphony Osrchestra (Londra, 9 settembre 1943).

Ed eccoci qui, all’appuntamento di oggi con una storia incrociata.
PD e Fratelli d’Italia hanno, per ragioni scambiate – uno per imparare a fare l’opposizione, l’altro per imparare a fare il governo – la necessità di rimettere a fuoco il tema dell’identità nazionale (con tutti i suoi addentellati, l’Europa, il mondo, il mercato, lo sviluppo, le alleanze, la geopolitica, i diritti civili, eccetera).
Entrambi devono dare risposte con un pezzo di radice tradizionale e un pezzo di vera innovazione. Entrambi avrebbero un grande bisogno di quelle culture liberalsocialiste che hanno rappresentato per quasi due secoli quelle storie, ma esse non si sa più bene dove abitino e quei due partiti hanno preso distanze a volte siderali da quei mondi. Salvo immaginare che proprio quei mondi – avvertendo l’imperiosa centralità del tema – non siano ora più svelti e creativi, mettendo in campo loro una ipotesi di futuro non con la furia di adattare una occasionale comunicazione elettorale (quello che pare per il momento sia il cosiddetto “Terzo polo”) ma nel quadro di una profonda rigenerazione di pensiero che nessuno nella seconda repubblica ha mai voluto fare. Vedremo come i due convogli verso il cuore perduto del paese cammineranno, l’uno verso il governo, l’altro verso il congresso. Anche se a titolo personale avverto che il mio guardarli è positivo per gli interessi dell’Italia ma è pessimista per quel che ci è dato di sapere circa tutto ciò che è già inesorabilmente accaduto.
Grazie per l’ascolto. E a risentirci.