
Opportunita’ economica e sociale tra realtà’, percezione e speranze.
Oggi mercoledi 12 ottobre 2022, si presenta a Milano un testo pluriautorale, curato e introdotto dalle mie colleghe dell’Universita’ IULM Ariela Mortara e Mariantonietta Scramaglia. Il mio contributo alla ampia rappresentazione delle tematiche e’ qui riprodotto sul sito-blog stefanorolando.it

Ri–lettura e ri–narrazione del protagonismo urbano
Stefano Rolando
Che la città sia un luogo preminente nella vita degli esseri umani è un’idea antica, forse non preistorica ma ormai millenariamente consolidata.
Un’idea che ha avuto un’accelerazione tra l’Ottocento e questo abbrivio del terzo millennio tanto da diventare uno dei temi in preminente agenda delle transizioni contemporanee.
Soprattutto da quando (2007) la maggioranza degli esseri umani ha optato per il radicamento urbano e non per quello nelle campagne, segnalando una progressione impressionante del processo in tutto il corso del secolo che stiamo vivendo. Così che il rapporto tra esseri umani urbanizzati e non urbanizzati, che nel 1950 era rispettivamente del 30% contro il 70%, viene oggi valutato con la stima dei demografi di un netto rovesciamento per il non lontano 2050, quando appunto gli esseri umani urbanizzati saranno il 70% e quelli legati a contesti abitativi rurali saranno il 30%.
Questa accelerazione corrisponde a molteplici ragioni, tra cui trainante è quella della trasformazione delle tecnologie riguardanti la connessione tra produzione, servizi, consumi e nessi comunicativi, che negli ultimi 27 anni fa correre il pianeta a una velocità non solo impensata nei due millenni precedenti, ma, guardando i nodi dominanti, quasi in condizioni statiche fino all’introduzione rivoluzionaria del motore a vapore esoprattutto, due secoli dopo, del motore a scoppio.
Oggi è alle città che si guarda per segnalare una delle più dirompenti trasformazioni della vita organizzata e quindi un riorientamento incessante del processo migratorio con dati che investono il mondo intero e le città africane e asiatiche in termini apocalittici.
È dunque il momento per stabilizzare un pensiero sulle città, centrato non solo sui dati di realtà (infrastruttura, architettura, urbanistica, logistica, eccetera) ma anche sui dati del processo immaginario, che anch’esso millenariamente riguarda i sistemi urbani. Portando con sé un immenso patrimonio percettivo e al tempo stesso un immenso patrimonio narrativo.
Percezione e racconto che da un lato sono alla portata di ogni essere umano, perché anche la vita più semplice nutre la memoria affettiva, alimenta le parole e i linguaggi dei radicamenti, rinvia a storie in cui il contesto cementa la materialità e l’immaterialità.
Ma sono anche alla portata degli artisti, degli studiosi, del mondo creativo, dei professionisti dell’arte e della comunicazione. Quindi attraverso una trasfigurazione simbolica altamente includente rispetto alla sconfitta o alla rigenerazione degli stereotipi, rispetto al conflitto tra tradizione e innovazione, rispetto alla modellistica che identifica il concetto urbano continuamente cambiato dai secoli turriti all’epoca della città infinita. Un concetto cambiato e in cambiamento che, come si capisce dai dati demografici, segnala ormai un protagonismo inarrestabile.
Le radici dell’immaginario urbano
“Stabilizzare un pensiero” è probabilmente un ossimoro. Esso segue infatti la velocità del tempo.
Dunque, accompagna per definizione l’instabilità.
Tuttavia, a grandi linee una storia dell’immaginario urbano è riassumibile anche in poche parole.
E averla a vista aiuta a tenere collegata la costruzione – al tempo stesso conflittuale (perché fondata sull’antagonismo globale delle disuguaglianze) e convergente (perché regolata da patti e norme per lo sviluppo in cui la transizione tecnologica è sempre più trainante) – dei modelli della città futura.
A cui si dedicano scienziati, creativi ma anche i bambini quando disegnano la loro casa, la loro strada e poi il contesto immaginario che chiamano “città”.
La fuoriuscita dalla ruralità indifferenziata nel rapporto uomo-natura corrisponde all’insorgenza di un sentimento di insicurezza che pervade l’homo sapiens, almeno nelle sue forme preliminarmente ragionanti, a fronte delle tre grandi insidie rappresentate dalla natura stessa (pacificante e tellurica, materna e crudele, estetica e aggressiva); dalle ferinità del mondo animale; dalle forme predatorie degli altri esseri umani.
La città delimitata, controllata in qualche modo negli accessi, posta in condizioni tendenzialmente non subalterne, grazie alle alture o più spesso alla trama delle acque, diventa forma difensiva e quindi garanzia di un compito di salvaguardia a cui per secoli non potevano provvedere da soli donne e uomini sprovvisti di forme anche elementari di intelligenza artificiale.
Fino a che nella frammentazione degli imperi e quindi delle organizzazioni protettive di eserciti professionali, il modello urbano di garanzia assume caratteri ancora più marcati, autosufficienti, turriti. Mura e torri diventano simboli stessi del carattere urbano. Restano, per secoli a venire, parte dei loghi urbani, partedell’immaginario connotante, parte di un patto morale protettivo.
Fino a che l’economia dello sviluppo non vedrà le opportunità disegnate dall’accesso ai mari come più importanti e ampliabili di quelle disegnate sulla trama fluviale. E saranno i mari a costruire la fortune di città portuali che, basti pensare ai secoli delle repubbliche marinare italiane, acquisiranno molti caratteri del potere economico, militare e commerciale. Disputandosi l’egemonia e, di pari passo, entrando nei primati della demografia.
A metà del secondo millennio – con il raddoppio del mondo, grazie alle navigazioni che porteranno anche alla scoperta dell’America – due grandi storie trasformano materialmente e filosoficamente l’idea di città. La prima, in forma anticipatoria, è la città intesa come scoperta dell’altro, simbolizzata dal viaggio in Oriente di Marco Polo e dalla lettura simbolica che al tempo fece Il Milione e nei secoli dopo la sua interpretazione. Laseconda, quasi due secoli dopo, è quella del Rinascimento italiano in cui la città diventa culturalmente, artisticamente e politicamente un “ideale”.
Il viaggio di Marco Polo nel cuore della Cina avviene nell’ultimo scorcio del Duecento.
Membro del patriziato veneziano, viaggiò con il padre Niccolò e lo zio paterno Matteo attraverso l’Asia lungo la Via della seta fino alla Cina, allora Catai, dal 1271 al 1295. Consigliere e ambasciatore alla corte del Gran Khan Kublai, tornò a Venezia nel 1295 con una discreta fortuna che investì nell’impresa commerciale di famiglia. Il rilievo testimoniale attorno ad un’altra civiltà plurimillenaria ebbe influenza nel proprio tempo, ma con una storia di difficile metabolizzazione finì per rappresentare un “lento rilascio”. Meriterebbe un’indagine la storia di questo “lento rilascio”, qui non possibile. Per portarci così al nostro tempo, quando Italo Calvino, nelle Città invisibili, rigenera il dialogo tra Marco Polo e il Kublai Khan e mette in bocca al navigatore, in risposta alle domande del più potente uomo della sfera orientale del mondo, questo straordinario e moderno capovolgimento dello sguardo:
“Anche le città credono d’essere opera della mente o del caso, ma né l’una né l’altro bastano a tener su le loro mura. D’una città non godi le sette o settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda” .
In questo “capovolgimento” c’è tutto il fondamento della moderna cultura di citybranding, che abbiamo da un certo tempo messo a cornice di un processo che va al di là del marketing territoriale e che si fonda sui percorsi di immaginazione che riguardano il rapporto di miliardi di persone che non conoscono ma, appunto, immaginano i luoghi, generando – se vogliono – una “domanda” che selezionerà le narrative, dirette o indirette, che misurerà stereotipi e nuova creatività, che accoglierà o respingerà la parte potenzialmente accoglibile di un complesso racconto identitario che per semplicità chiamiamo “brand”.
Della “città ideale” torna di recente a parlare un grande neurobiologo, Stefano Mancuso, che deve spiegare a sé stesso perché nella rappresentazione di quel “modello ideale” scompare ogni idea di natura fino all’ultima fogliolina. Nel suo pregevole “dossier” dedicato alla “pianta del mondo”, il secondo capitolo riguarda la “pianta della città”. E ne traiamo due spunti preziosi per dar corpo a quel segmento di storia, per altro sensazionale.
Giustamente Mancuso premette la lettura di una vera e propria riflessione ingegnosa sulle città che solo un grande storico (britannico) come Arnold Joseph Toynbee (1889–1975) poteva ricavare mescolando analisi fattuale, analisi economica e analisi del potere. Scrive Mancuso riferendosi all’analisi di Toynbee:
“Gli abitanti di una città non sono in grado di produrre, entro i confini della città stessa, gli alimenti di cui necessitano per sopravvivere.Una città è, quindi. necessariamente separata dal contesto naturale che la ospita. È qualcosa di molto diverso dalla natura stessa: è il luogo degli uomini. Un luogo creato da noi e in cui la natura non è ammessa”.
Ed ecco infatti il miracolo artistico e il mistero (relativo) dell’attribuzione di tre meravigliosi quadri oggi accessibili in tre diversi musei del mondo, tutti e tre intitolati alla “Città ideale” (uno, sempre più attribuito,ma non con prove definitive, a Leon Battista Alberti) che fanno riferimento al modello rinascimentale urbano italiano e che sono la controprova dell’analisi di Toynbee.
La città ideale (Galleria Nazionale delle Marche, Urbino)
La città ideale (Walters Art Museum, Baltimora
La città ideale (Gemäldegalerie, Berlino)
L’evoluzione contemporanea
La relazione tra locale e nazionale occupa l’elaborazione della narrativa urbana nel ‘700 e nell’800, con particolare enfasi nell’Europa che, attraverso l’epopea risorgimentale (tutta con regia urbana), creerà le condizioni della nascita delle nazioni, così da raggiungere la cultura geopolitica di Stati già radicati nazionalmente e alcuni anche in forma di global player (come la Gran Bretagna). Una spinta involutiva verrà con la prima guerra mondiale e con la fine degli imperi centrali sconfitti, nel senso che l’afflato libertario e democratico – garantito dal protagonismo delle città (Milano e Napoli in primo piano in Italia) – assumerà il profilo del “primatismo” che nel ‘900 significherà l’allineamento di dimensioni totalitarie (Germania e Italia) e le condizioni di un conflitto deflagrante tra autocrazie e democrazie che avrà un risultato distruttivo per una parte considerevole del patrimonio urbano dell’Europa.
La relazione tra locale e globale assumerà così una nuova storia dopo la metà del ‘900 assumendo a cavallo tra i secoli – e dunque negli anni che viviamo – forme di accelerazione dei processi di globalizzazione a loro volta ammortizzabili nell’opinione pubblica a condizione di produrre una interazione (finanziaria, culturale, commerciale e politica) con i sistemi urbani, fino alla profilazione delle cultura glocal dell’ultimo trentennio.
In questa cornice – anche grazie alla trasformazione radicale delle forme di comunicazione di massa e nei processi di trasformazione produttiva interattiva su scala globale – i processi narrativi si incroceranno in un rapporto di mobilità e attrattività tra i “luoghi”, in cui il protagonismo di città e territori avrà carattere crescente, corrispondendo a nuove forme di conflittualità tra omologazione e tradizione che vedranno scempi ma anche meraviglie creative convivere nelle dinamiche urbane in una storia che passa attualmente nella voce, che la incornicia, di “identità competitiva”. Misurabile, gestibile, declinabile attraverso politiche dedicate. Spesso dominate dall’esito di brand urbani prestigiosi capaci di trainare l’immagine delle nazioni (non per tutti) e con un nuovo fenomeno di alleanza tra immaginario urbano e contestualizzazione nell’immaginario del territorio di appartenenza che ha come scopo principale il tentativo di superare la dicotomia città/ambiente (necessità vitale, ma anche opportunità commerciale).
Le mille superfici narranti della trasformazione urbana
La sintetica scorribanda bimillenaria che precede appartiene a una storia immensa. Quella dell’eredità della città latina che ha mescolato il concetto strutturale di urbs e il concetto identitario di civitas per ricavare – oltre a coesione, potere, produzione, lavoro, gerarchia, mobilità, scalabilità, eccetera – anche forme narrative fondamento del patrimonio simbolico collettivo di ogni tempo.
Si perdonerà il tratto più che sommario. Che lascia oggi in campo studiosi partigiani di visioni assai diverse. Da una parte si alzano allarmi sulla crescita suicidaria dei fenomeni mega-urbani, declinati in strage della qualità ambientale, polarizzazione delle economie individuali e familiari, crescita dell’insicurezza e dell’aggressività, solitudini e impoverimento solidale. Dall’altra parte si leggono approcci che non schivano l’affresco del chiaroscuro tra l’ebbrezza dei cambiamenti e l’inquietudine disumanizzante, ma ritagliano un ruolo propulsivo dei modelli urbani che, secondo alcuni, contiene anche la chiave di soluzione degli aspetti che la fase brutale della crescita demografica e tecnologica segnala come esistenti ma anche superabili, cognitivamente e finanziariamente.
Nell’impossibilità di schierare qui le squadre in campo, ci si limita alla citazione di un testo di riferimento della lettura ottimistica, quella ad esempio di Edward Gleaser, professore di economia ad Harward, che nel suo libro “Il trionfo della città. Come la nostra più grande invenzione ci rende più ricchi e felici” viaggia tra le principali città mondiali – in cui la concentrazione della grande maggioranza degli abitanti sta avvenendo su una piccolissima percentuale delle terre emerse, costituito dalle città – dimostrando come esse siano motore di innovazione e progresso. Un’analisi dettagliata in cui il fenomeno della prossimità (che sostiene la trasformazione metropolitana delle città con più articolazione di scopo) è associato ad una circolazione delle idee e delle condizione di cantiere che costituisce bagaglio metodologico della cultura della soluzione.
Anche Paolo Verri – appassionato di libri, di progettazione culturale, di management strategico urbano – con il suo “Paradosso urbano” tende a sostenere la tesi dell’ottimismo:
“Le città saranno sempre di più i luoghi in cui si elaborerà il futuro del pianeta, in cui si sperimenteranno nuovi modelli sociali e tentativi di pace permanente, in cui si si svilupperanno una ricerca di frontiera e insieme modelli di cooperazione culturale inediti”.
Per par condicio una citazione sia concessa ad una autrice italiana che parteggia per la visione opposta. Si tratta di Anna Lazzarini nel suo Polis in fabula. Metamorfosi della città contemporanea, in cui, con approccio antropologico, alla complessa fenomenologia urbana descritta è attribuita invece la colpa digenerare disordine e sofferenze sociali sempre più vistose:
“Il tessuto urbano è lacerato, strappato, ferito. Le città contemporanee esibiscono inedite contaminazioni di spazi, tempi e funzioni, anche attraverso la diffusione di tecnologie dell’informazione; accolgono sul proprio territorio governi e giurisdizioni diverse e spesso in conflitto”.
Ponendo molti interrogativi:
“Queste metamorfosi continue, questi ininterrotti sconfinamenti e disseminazioni globali pregiudicano la possibilità di un futuro per la città? Il tramonto della configurazione storica propria della città moderna corrisponderà inevitabilmente alla fine della città e alla fine dell’esperienza urbana? O la città dell’età della globalizzazione emergerà come forma inedita, con proprie nuove configurazioni spazio-temporali? Ma quali sono i tratti costitutivi e distintivi che definiscono l’esperienza urbana?”.
L’inventario della comunicazione artistica dedicata alle città, che non dovrebbe avere compromissioni propagandistiche, ovvero la sola finalità di sostenere politiche urbane a dispetto di altre, ma di esercitare critica dei processi, ovvero problematizzazione degli adattamenti, è uno sterminato campo di lavoro classificatorio che avrebbe bisogno di una revisione dei paradigmi per poter dare risposte non banali allo schema di conflittualità culturale appena accennata.
Chi scrive – con una rete di università che comprende anche quella di appartenenza – ha provato negli ultimi anni ad animare un “Festival delle città narranti”, nella Villa Nitti di Maratea, che avrebbe lo scopo di intervenire sull’inventario corrente, anche parzialmente, tematicamente, sub-territorialmente, per mostrare la libertà interpretativa del nostro tempo e soprattutto la sensibilità interpretativa attorno ai nodi che limitanoovvero, se sciolti, che liberano condizioni di qualità sociale attorno allo sviluppo urbano. Potrebbe essere quello un ambito in cui gli spunti qui accennati avrebbero la possibilità di trovare occasione di approfondimento, dando più casistica e più risposte ai brevi cenni qui indicati.
Tra l’altro la collocazione nel Mezzogiorno di un cantiere di analisi dell’evoluzione del rapporto tra identità e narrazione urbana è di potenziale grande rilievo per fare passi avanti (se condivisi e non scansati dalle migliori intellettualità anche meridionali) attorno al nodo degli stereotipi, che agiscono come volano e come freno, al tempo stesso, attorno alla necessaria modernizzazione dell’idea funzionale delle città. Come Giuseppe Di Rita aveva intuito scrivendo di questo nel 1990 nell’introduzione ad un inventario di scritti del Censis sul Mezzogiorno:
“Gli archetipi culturali del Sud sono un po’ confinanti con l’arcaismo, ma mantengono il valore di archè, cioè di fonte di emozioni che fanno da base vitale a pensieri, ad atteggiamenti, a comportamenti forti”.
Lo scopo del testo che precede è soprattutto quello di segnalare il rilievo dell’analisi delle narrazioni urbane come punto di incontro tra culture socio-urbanistiche e comunicative da intendersi come elemento fondante degli orientamenti del Public Branding. Materia che trova anche spazio sperimentale disciplinare, soffrendo però il carattere disciplinarmente orfano delle Scienze della Comunicazione, pur ricevendo una crescente domanda di affinamento delle analisi per non confinare, dentro gli importanti ma anche limitanti scopi di commerciare l’attrattività delle città e dei territori, le tematiche di mutamento da cui dipendono oggi condizioni molto più complesse di appartenenza e di vivibilità.
Post scriptum
L’ultimo scampolo di agosto induce a una breve aggiunta in materia di narrazioni urbane.
Lo stimolo è contenuto nelle 15 pagine (dalla cover in poi) con cui il supplemento letterario del Corriere della Sera, La Lettura, tratta questo tema con un vero e proprio dossier sulla trasformazione della rappresentazione urbana. Le città scelte per raccontare “politicamente” il loro attuale modello di sviluppo sono Bonn, Budapest, Firenze, Lodz, Malaga e Tempere. Si aggiungono i colloqui con i sindaci di Londra Sadiq Khan e di Strasburgo Jeanne Barseghian. E ancora la storia della prima metropoli, Uruk, sorta seimila anni fa in Mesopotamia e il racconto dei principi architettonici elaborati in Cina tremila anni fa attorno alla “città ideale”. La cornice è costituita dalla proiezione che il cileno Alejandro Aravena – Pritzker 2016(considerato il premio Nobel dell’Architettura) e nello stesso anno direttore della Biennale di Venezia – intende come futuro dell’ambiente urbano, incrociando l’equilibrio tra spazi pubblici e privati e valutando la potenzialità di crescita del tema della democrazia partecipativa. Otto scrittori aggiungono spunti sulle radici della loro narrazione letteraria di altrettante città a grande vocazione internazionale (Orhan Pamuk parlando di Istanbul, Paul Auster di New York, Javier Marìas di Madrid, Jean Claude Izzo di Marsiglia, Murakami Haruki di Tokio, Elena Ferrante di Napoli, Vicram Chandra di Mumbai e Chimamanda Ngozi Adichie di Lagos).
L’insieme dei contributi si segnala come una centrifuga del vissuto dei sistemi urbani di tutto il mondo circa la connessione che, dal 2020, si è creata dappertutto ma con contorni ovviamente differenziati nelle tante comunità territoriali dei fattori che producono controstorie rispetto alla globalizzazione: la guerra in Ucraina; i nuovi flussi migratori sommati a quelli antichi generati dai sud del mondo; lo choc energetico; la crisi ambientale e climatica; la tenuta del tessuto sociale.
Alejandro Aravena così riassume il ruolo anticrisi dei sistemi urbani: “Le città sono i mattoni di una geografia nuova, pilastri indispensabili di un continente dei popoli. Senza la rete delle città scoppierebbero bombe sociali”. Come si vede, la tesi secondo cui le bombe sociali siano rappresentate nel corso di questo secolo proprio dal gigantismo delle città, soprattutto africane e asiatiche, viene così contraddetta. Sulla tesi opposta pesano naturalmente i giudizi di molti sociologi e demografi. Ma si configura, insomma, un segnale culturale che, a questo punto e con queste divaricazioni, in ordine ad un dibattito civile e disciplinare cheprende opportunamente quota.
