
Nel settembre del 2009 Roberto Maroni si affidò all’Università Cattolica e alla regia dell’Anci, del Censis e di Sant’Egidio per svolgere una importante conferenza di carattere istituzionale mentre lui era, per la seconda volta, ministro dell’Interno.
Il titolo della conferenza appariva singolare per il vocabolario leghista in materia di migrazioni, mantenendo un filo di ambiguità, ma anche di possibilismo interpretativo: “«L’immigrazione in Italia tra identità e pluralismo culturale”».
Ci andai proprio incuriosito dall’apparente contraddizione.
Lo schieramento delle voci introduttive faceva capire l’idea di aprire un dialogo di sistema sulla materia: Sergio Chiamparino (allora presidente dell’Anci), Giuseppe De Rita (presidente del Censis) e Andrea Riccardi (fondatore della Comunità di Sant’Egidio). Con l’aggiunta di una “visione globale” portata nientemeno che da Zygmunt Bauman. La tavola rotonda del dialogo tra Nord e Sud (ministri dalla Svezia ai paesi arabi) ebbe il coordinamento di Giuliano Amato.
Ve lo immaginate Salvini in un contesto del genere?
Infatti, Maroni fu prudente ma aperto nelle conclusioni. In realtà era ben cosciente della pressione di destra, del suo stesso partito e della coalizione (poco tempo dopo Riccardo Di Corato, vicesindaco di Letizia Moratti e assessore alla Sicurezza a Milano tuonò contro “tanti buonisti e benaltristi che seguono l’onda dolce della demagogia”) e metteva in campo una sorta di legittimazione di voci differenti per svolgere con più ruolo di mediazione il suo mandato di ministro.
Poco tempo dopo, nella bella campagna elettorale in cui Umberto Ambrosoli perse contro Maroni, ma portando un risultato di contendibilità della Lombardia (scarto solo di 4 punti), che poi per dieci anni non ci sarebbe più stato, non ci fu mai scontro personale pur nella nettezza dell’alternativa politica. Anzi ricordo un’occasione, in un piccolo centro di campagna, in cui Giorgetti e Ambrosoli si incontrarono per concomitanza di comizi, di avere visto sincera stima reciproca nell’occasione.
Maroni avrebbe comunque interpretato in quel mandato (2013-2018) la responsabilità di un ciclo politicamente in declino per il centrodestra (è sempre così, dopo anni di prolungato potere). Probabilmente ne aveva coscienza, ma il sistema degli interessi di una regione forte ma tendenzialmente più che moderata come la Lombardia e soprattutto la crisi continua del centrosinistra (la situazione si ripete) non riuscirono a cambiare il corso degli eventi.
Per dire che Roberto Maroni (uno che aveva un po’ zigzagato, che era stato di estrema sinistra da ragazzo, poi anche con simpatie socialiste più avanti e nell’ambito della sua appartenenza alla Lega dalla prima ora si era anche spinto verso posizione secessioniste) aveva nel tempo conquistato un baricentro del “far politica” prendendo le distanze dagli estremismi, mantenendo comportamenti pragmatici e cercando di mantenere umanità nelle relazioni con tutti i soggetti in campo, con apprezzamenti anche nell’esperienza di ministro del Lavoro dal 2001 al 2006.
L’avevo conosciuto a Palazzo Chigi nel 1994, allora vice-presidente nel primo Governo Berlusconi (oltre che ministro dell’Interno) quando in un evento un romanissimo funzionario mi presentò a lui come una “rarità sociologica”, cioè un direttore generale dello Stato milanese. Nel parlare, scherzandoci sopra, venne però fuori che al tempo il prefetto più nordico esistente era nato a Parma.
La foto sotto lo ritrae da presidente della Regione Lombardia – insieme al sindaco di Milano Giuliano Pisapia – ad un evento promosso dalla Fondazione Paolo Grassi a cui non fece mancare né sostegno né parole adeguate. Mostrando sempre attenzione al ruolo della cultura e dello spettacolo (conservò sempre la passione per la tastiera Hammond e quando si liberò da incarichi politici fece volentieri il consigliere della Triennale di Milano).
In politica, tuttavia aveva detto la sua anche di recente, scrivendo sul Foglio: “Si parla di un congresso straordinario della Lega. Ci vuole. Io saprei chi eleggere come nuovo segretario”. E sempre sul Foglio (rubrica “Barbari foglianti”) ha detto la sua di recente anche su un complesso argomento dinastico di una grande monarchia: “Molti dicono che avrebbe fatto meglio a passare lo scettro a William, principe del Galles e futuro erede al trono. Io non credo: per me re Carlo III ha fatto bene ad annunciare alla nazione la designazione di William come erede al trono”.
Se ne va prematuramente, non casualmente salutato con rispetto generale.
