
Versione audio:
Versione scritta:
Buongiorno, sono Stefano Rolando,
da molti anni – se devo pensare a un’opera complessa, articolatissima, fatta di tanti ambiti di ricerca, verifica, definizione, racconto, un’opera che deve parlare di cambiamenti spesso più immateriali che materiali, con lo scopo stra-meritorio di spiegarli, semplificarli, classificarli fornendo anche strumenti per discuterne – ebbene quest’opera, per il mestiere che faccio, non è la volta della Cappella Sistina, che potrebbe naturalmente partecipare alla gara; neppure l’edizione digitale dell’Enciclopedia Britannica o della Treccani che magari hanno i numeri per vincere; e neppure il cofanetto video dei 50 anni della Domenica sportiva (che magari non esiste, ma conterrrebbe storie avvincenti); ma è l’annuale Rapporto Censis sulla dinamica della società italiana.

Credo di essere diventato un affezionato lettore, poi nel tempo, per tutto il corso della mia vita adulta, anche un coinvolto interlocutore di una famiglia di sociologi poco accademici e molto pancia a terra nel Paese, nei territori, a ridosso delle imprese e dei nuclei sociali. Una famiglia, in senso professionale, guidata ancora da Giuseppe De Rita che oggi condivide forse con il solo Franco Ferrarotti (anche lui meravigliosamente vivo e vegeto) i maggiori primati della sociologia italiana.
Ritrovando ogni anno quella che istituzioni, imprese, politica e media hanno considerato e tuttora dovrebbero considerare gratitudine per uscire, ad ogni ciclo, dalla banalità delle ripetizioni, per intercettare i cambiamenti veri e per dare un nome ai processi di trasformazione.
Nomi che diventando linguaggio comune fabbricano comunità, perché possiamo discuterne senza essere d’accordo su tutto, ma un bel lavoro è tale quando si vede che le parti in causa e in conflitto possono fidarsi di quelle definizioni, di quella lettura, degli aggettivi persino con cui i fenomeni vengono connotati.
Conosco di persona luogo e addetti, ho una frequentazione costante e affettuosa con il reputatissimo presidente di un istituto che molti prendono per un ente statale, mentre è una Fondazione privata guidata da un alto senso delle istituzioni ma anche da una fiducia enorme per la vitalità della società e per la qualità di fondo del popolo italiano. Proprio per questo l’etica di quei rapporti è non risparmiare critiche, non addolcire lo sguardo preoccupato, non trattare con il bilancino dei favoritismi politici l’esprimere o il sottacere le criticità in evidenza.
Questa nostra rubrica di comunicazione in audio settimanale si chiama “Il biglietto da visita” e chi ci segue sa che è dedicata al complesso campo della rappresentazione.
Ebbene, poche opere editoriali ogni anno svolgono questa funzione con altrettanta pari efficacia: rappresentare il tratto evolutivo o involutivo della società italiana, anno dopo anno.
Facendoci a volte riconoscere nei testi, altre volte non riconoscere, spronandoci in entrambi i casi ad alzare la soglia della battaglia sociale per il miglioramento civile. E quando le cose vanno davvero male, almeno ad alzare la soglia per volerne discutere e per capire tanto i rischi quanto le opportunità.
Il 56° Rapporto Censis sulla società italiana è stato presentato al CNEL – come avviene da molti anni – il 2 dicembre. E i risultati del Rapporto sono sui media (moltissimo in rete) dallo stesso giorno, con riverbero nei giorni successivi fino ad oggi.
Le tre parole che scorrono di più sui titoli si riferiscono agli italiani, colti tutti insieme nell’immensa fotografia di gruppo: malinconici, latenti, insicuri.
Altri i tempi in cui – anche per guizzi spavaldi di parti della società e delle imprese – l’aggettivazione del Rapporto Censis connotava in estrema sintesi crescite, impennate, coraggi, talentuosità, fatica creativa, apprendimento, volontà, speranza. Magari a prezzo di un’economia un po’ sommersa, magari non creando un nuovo fondale comune ma piuttosto cespugli – uso qui termini entrati nel dizionario della sociologia italiana – magari colludendo un po’ con vecchi vizi.
Ma, insomma, un dato quasi fisso riguardava una società dinamica che non permetteva un giudizio né troppo verticale, né troppo istituzionale e quindi nemmeno troppo burocratico di un paese altrimenti chiamato dei mille campanili, del “piccolo è bello”, più recentemente della “resilienza” o della “sostenibilità”.
Cosa è successo quest’anno? È cambiato il Censis o è cambiata l’Italia?
Nello scorrere gi otto comunicati di sintesi (due sugli aspetti generali e sei settoriali) non ricorre mai un sorriso, un filo di compiacimento, una strizzata d’occhio alla tradizione della sociologia filo-sociale.
Quattro crisi in tre anni (guerra, pandemia, inflazione e morsa energetica), incastonate sulle criticità finanziarie e occupazionali di più lunga data e sulla dichiarata crisi democratica sancita dalla lunga emergenza conclamata, in aggiunta ad un quadro statistico pieno di ansie. Tutto ciò ha tolto il rifugio del trattamento al chiaroscuro e ha fatto optare per questa fotografia che, volendo usare una parola non inquietante, è diciamo incupita. Da qui la somma di espressioni che navigano dalla sociologia alla psicologia in cui l’insicurezza taglia le gambe alle speranze, mentre la malinconia sospende con qualche languore ciò che magari il linguaggio psicologico avrebbe detto con la più severa parola in uso, cioè la parola “depressione”
È vero che lui, il patron più energetico delle industrie culturali e cognitive del ‘900 italiano, Beppe De Rita, da tre anni non prende parte alla presentazione del “suo” Rapporto. Lo fa perché in plancia c’è suo figlio Giorgio, un manager di esperienza. Lo fa perché si fida di un direttore competente, come Massimiliano Valerii, pur restando lui nelle trame delle analisi e nella continuità di dialogo con la comunità professionale interna. Magari lascia il team più libero di essere meno ottimista. Magari nel quadro delle crisi non vuole favorire letture che possono apparire influenzate da tepore filogovernativo (qualunque sia il governo, ogni governo vorrebbe che del paese si parlasse bene).

Non ho una risposta. Ma la fotografia di quest’anno mi ha un po’ impressionato.
Passo in rassegna i dati e le spiegazioni e porterei via troppo tempo a dire che qui c’è un neo, lì si sarebbe potuto dire due paroline in più. Eccetera.
Il filo del ragionamento sostanzialmente tiene. Ma diciamo che tiene soprattutto perché in linea con la narrativa che, negli anni di crisi, il sistema mediatico ha ripetutamente proposto: degenerazione del quadro politico, del governo effettivo dei processi, eccesso di sorvolo, sperequazioni e disuguaglianze, la dote delle speranze si è esaurita. E se ancora nel 2021 i titoli erano immaginifici (Il paese “in preda a una certa irrazionalità”, forse “in fuga verso il pensiero magico”, per cui ci siamo interrogati e abbiamo capito che era una via di mezzo tra il bicchiere mezzo pieno e il bicchiere mezzo vuoto), questa volta la latenza e la malinconia campeggiano nei titoli. A cui si aggiungono, leggendo le analisi delle settorialità – con sollecitazione a capire il perché – l’espressione post-populismo e una sequenza di deprivazioni.
Innanzi tutto, c’è una contestualizzazione che non solo non mi sorprende ma su cui avevo preso anch’io le mosse prima ancora che le cose accadessero, cioè ai primissimi sondaggi pre-estivi, cioè l’impennata dell’astensionismo come sommatoria di disagi e di rifiuti.
Sentite il passaggio in conferenza di presentazione del direttore del Censis Massimiliano Valerii che si riferisce a quasi il 40% degli italiani pari a 18 milioni di cittadini in una delle più forti manifestazioni di “ritrazione” (questa la parola usata).
https://www.censis.it/rapporto-annuale/56%C2%B0-rapporto-sulla-situazione-sociale-del-paese2022
Da 14.26 a 16.09
“La verità è che si è manifestata in maniera molto rilevante una ritrazione silenziosa dei cittadini perduti della Repubblica. Voglio ricordare un dato su cui ci si è poco intrattenuti. Il dato delle ultime elezioni, in cui il primo partito è stato di gran lunga quello dei non votanti (astenuti, schede bianche e nulle) che ha segnato non solo un record ma anche una profonda cicatrice nella storia repubblicana. I non votanti sono stati quasi 18 milioni, pari al 39% degli aventi diritto, in 12 province italiane i non votanti hanno superato il 50%. Tra le politiche del 2006 e quelle del 2022 i non votanti sono raddoppiati. Più 103%. Tra il 2018 e il 2022 sono aumentati del 31%, ovvero 3,4 milioni in più. Questo cosa significa? Che per ampie e crescenti porzioni dei ceti popolari e del ceto medio non funziona più quel tradizionale intreccio tra lavoro, acquisizione di benessere economico, democrazia”.
Il clima è malinconico – dice il Censis – perché non ci sono nemmeno fiammate conflittuali.
Perché gli italiani non minacciano né scioperi, né piazzate, né cortei. Ad un certo punto all’espressione costituzionale “cittadini” (figlia dell’orgoglio rivoluzionario popolare e borghese di fine ‘700), il Rapporto parla di “cittadini perduti della Repubblica”.
E perché post-populisti? Perché ormai le delusioni, le insicurezze e l’incredulità circa i cambiamenti positivi non si accontentano più nemmeno di quella spruzzata di populismo che per un po’ negli ultimi anni ha tenuto a bada un certo malcontento.
Qui “nessuna illusione”. Metà degli italiani vede ansiosamente una possibile evoluzione verso la non autosufficienza e teme che non ci saranno più redditi sufficienti in vecchiaia. Ma arriva al 93% l’idea che la fiammata inflazionistica non finisca qui. Arriva quasi al 65% l’ammissione di chi ha dovuto intaccare i risparmi. Sfiora il 70% il timore dell’abbassamento del tenore di vita. E quindi è altissima la malsopportazione di sperequazioni troppo alte tra salari di dipendenti e stipendi di dirigenti, contro l’evasione fiscale, persino verso i guadagni facili (come sono giudicati quelli degli influencer).
Insomma, la formula con cui qualunque partito politico va elle elezioni (benessere, lavoro, democrazia) viene considerata un paradigma senza alcuna credibilità.
Pesano paure recenti e in un certo senso reversibili? Certamente sì. Infatti:
- l’85% pensa che anche eventi lontanissimi possono stravolgere la nostra vita;
- l’87% teme che l’Italia entri in guerra;
- il 62% teme un conflitto mondiale;
- il 45% vede peggiorare la crisi economica (vedete la differenza tra questi livelli?).
E poi catastrofi naturali, attacchi informatici, incremento dei reati. E via discorrendo.
Il punto interpretativo che offre un certo colore grigio per intitolare il rapporto è che tutto ciò non spinge il paese sull’orlo della famosa crisi di nervi. 8 italiani su 10 non vedono possibile un cambiamento. Il 54% è tentato di considerarsi passivo rispetto all’incalzare degli eventi. Il 36,4%, più di un italiano su tre – non è disposto (come in tempi eroici tutti dicevano di essere disposti) a fare sacrifici per crescere, far carriera, guadagnare di più.
Ecco dove si forma l’idea che non c’è rabbia, ma c’è profonda malinconia.
Non ho il tempo di entrare nelle molte settorialità.
Dico solo che la parola connotante questi singoli rapporti è la parola “senza”.
Qui il trattamento assume anche la piega della constatazione desolata, altre volte con la critica esplicita per assenza di provvedimenti adeguati.
- Scuola senza studenti (perché decrescono).
- Sanità senza medici (perché mancano).
- Imprese senza margini (perché tira ancora solo l’export, ma la morsa energetica fa fuori 350mila aziende).
- Territori senza coesione sociale.
- Comunicazione e media con moltissimi telefonini e sempre meno libri, giornali e acculturazione.
- Giovani, infine, senza futuro perché diminuiscono e i NEET (senza studio e senza lavoro) sfiorano il 17% contro la media del 9,7% in Europa.
Curioso il dato sull’evoluzione digitale dove pareggiano due eserciti: il 30,7% pensa che le tecnologie possano portare nuovo lavoro Il 30,5% pensa che esse distruggano il lavoro. Il resto non sa.
Reati e insicurezza fanno il resto (Napoli è decima, utilizzando i dati pubblici dell’Istat, Milano non è decima ma appunto è prima).
Torno al mio interrogativo sullo sguardo di interpretazione.
Parlando di una comunità professionale che conosco e di cui mi fido.
Hanno forse tenuto a bada lo sguardo di Beppe De Rita capace di scovare, comunque e dovunque, guizzi negli italiani?
Si sono fatti prendere troppo la mano dalla rappresentazione mediatica molto allarmistica, molto disponibile rispetto al catastrofismo e a lamentarsi dei difetti di sistema?
Pensano che sia venuto il momento di “dare una sveglia” alla società, sollecitando una reattività che pur ha dato qualche prova di sé nella lunga resistenza contro la pandemia?
Apriamo pure il dibattito con chi vuole prendersi la briga di vedere il Rapporto e di capire le analisi.
Esercizio fondamentale per conoscere meglio comunque il Paese, che troppo spesso ci appassiona in una certa ignoranza delle condizioni reali.
Ma il velato dubbio che potrebbe prenderci è che – ferma restando la veridicità dei dati – sarebbe forse stato possibile fare una variante interpretativa, cioè raccontare come plausibili e accostate due Italie, magari di dimensioni diverse, in cui collocare il sistema rassegnato, insicuro e malinconico con gli argomenti che il Rapporto indica; ma anche dar merito alla spinta colossale ancora in atto del nostro export, dar merito al sistema produttivo che va verso il 3,9% di incremento del PIL contro il 2% tedesco, dar conto delle imprese che hanno fatto cambiamenti di stare adeguatamente sul mercato e di fare shopping di altre imprese meno stabili (in Italia e all’estero) per riportarle a virtuosità (secondo racconti che si leggono), ricordando abnegazione e dedizione degli operatori nel campo di tanti servizi pubblici, scuola compresa. E restando ancora da vedere notizie sull’incremento dei dati occupazionali e sui risultati del turismo quest’anno. Eccetera.

Diciamo sempre che contano i dati, non la percezione occasionale. Quindi partita aperta.
Ma se la lettura dei cittadini malinconici e perduti dovesse consolidarsi inviterei chi vuol fare modernamente politica a farci sopra una riflessione non di ridondanza, cioè non per allargare solo l’onda ripetendo cose che qui sono sciorinate per centinaia e centinaia di pagine. Ma, appunto proporrei di fare politica, cioè indurre proposte sostenibili che prendano sul serio questa apnea civile che per un paese come l’Italia è peggio di un vulcano spento.
È mettersi dalla parte del declino, non cercare – come questo paese ha sempre fatto – di negoziare, grazie a qualcosa di innato che è meglio dell’arte di arrangiarsi, con il destino in persona.
Anche questa volta, grazie per avermi ascoltato e a risentirci presto.