Podcast n. 22- Il Mondo Nuovo -Lunedi 12.12.2022 – Mondiali di calcio. Luci e ombre del teatro globale.

Pubblicato sul magazine online Il Mondo nuovo – Lunedi 12 dicembre 2022 – https://ilmondonuovo.club/mondiali-di-calcio-luce-ombre-delteatro-globale/

Nellarubrica “Il biglietto da visita”

Buongiorno a tutti, sono Stefano Rolando.

Varie situazioni, anche di salute, in questo periodo di influenza di massa, covid non domato, inverno aggressivo, mi fanno ritrovare in casa per più tempo.  Così che sto guardando meno casualmente i Mondiali di calcio.  Anche se finiti gli innamoramenti giovanili per il futbol mezzo secolo fa, persino al Milan il mio sguardo ha finito per essere un po’ casuale. Ma proprio la trasformazione, persino quasi una nuova genetica del calcio, cioè il calcio di oggi, dentro la cornice di un mondo – come chiamarlo ? – d’oro e di plastica, continua a nascondere molti significati di una rappresentazione sociale che ci riguardava e ci riguarda. Prima o poi doveva finire anch’essa nel trattamento di questa rubrica – Il biglietto da visita – dedicata appunto alla “rappresentazione”. I Mondiali mi sembrano una buona occasione.

La sigla dei Mondiali in Qatar

Innanzi tutto, va detto che ci sono state diffidenze riguardo alla scelta di far disputare i Mondiali di calcio in Qatar. Prima si sono sollevate questioni riguardanti l’irrilevanza per i diritti umani, anche riguardo alle condizioni dei lavoratori immigrati in quel paese per assicurare per tempo organizzazione e  infrastrutture. Poi, con esplosione in questi giorni, sono emerse (e siamo solo all’inizio) indagini gravi sull’esistenza di prove contro una trama di corruttela per premere sul Parlamento europeo al fine di parlare bene e fugare sospetti contro lo sport-washing che, attraverso eventi di visibilità mondiale, vuole assicurare al paese investitore e organizzatore risultati per i propri interessi (e le proprie velleità) nelle nuove forme di  attrazione. Tanto che è stata attivata una potente lobby, tra cui attuali alti membri di quel Parlamento ed ex-membri tra cui italiani scelti perché esponenti prima di istituzioni poi di associazioni, guarda caso, per i diritti umani.  La battaglia per assicurarsi i mondiali il Quatar l’aveva fatta nel 2009 e già nel 2010 il New York Times aveva raccontato per filo e per segno elementi oscuri di quella operazione condotta con montagne di denaro, ingaggiando la disputa niente meno che con gli Stati Uniti  (dopo che Indonesia, Messico, Giappone, Australia, Corea del Sud lasciavano) per vedere aggiudicata la 22° edizione dei mondiali. Finita con la votazione di 14 a 18 a favore del Qatar.

Roma – Un frammento delle proteste internzionali contro il cantiere Qatar 2022 (foo Ansa)

Certo ci sono anche elementi di novità. Questa è anche la edizione n. 1 dei Mondiali di calcio in tutto il Medio-Oriente. Anzi numero 1 per l’intero mondo arabo. E sarà anche l’ultima a 32 squadre perché – anche grazie alla spinta del caso Italia, squadra gettonata dal pubblico televisivo mondiale che quest’anno non si è qualificata – gli organi mondiali del calcio porteranno, si legge, la prossima edizione a 46 squadre.  Tra le curiosità del Mondiale in Qatar anche il fatto che è giocata d’inverno, contro ogni tradizione. Ma se si fosse giocata d’estate sarebbe avvenuto a 50°percepiti, squagliando pubblico, giocatori e palloni.  Quelle ombre sui Mondiali sono rimaste in memoria, anche se con le gare i media si muovono su altri registri di racconto. Si va dietro ad altro genere di notizie. Non ho argomenti comprovati per dire di più di quello che c’è su tutti i giornali. Le mie note sono finalizzate a parlare della trasformazione sociale del calcio. Ma almeno volevo cominciare dicendo che le ombre ci sono e non vanno rimosse.  Anche se nei prossimi giorni i riflettori sono ovviamente puntati sul risultato finale delle gare.

Facendo eco a un noto libro degli anni ’60 avrei voluto intitolare il podcast di oggi “I mondiali che abbiamo appena attraversato”, poi ho preferito “Il teatro globale a luci e ombre” perché traduce meglio il cambiamento di insieme. Pensavo di segnalare, non so, la necessità degli sguardi al nostro passato prossimo. In questo caso per descrivere sentimenti, fare paragoni, capire un po’ il forte mutamento. Tutto qui. Alla mia età non si può parlare di calcio senza riandare ai punti cruciali di una storia sociale precisa e rimasta epica: la storia degli anni della nostra ricostruzione. In cui quel calcio portava leggerezza, fantasia, speranze. Comunque, la cartolina del Milan campione d’Italia 1954-1955 è da sempre nella mia libreria, ma non solo per gli eroi preferiti – Liedholm, Nordhal e Schiaffino – che campeggiano con la loro strisce rosse e nere ampie e di vecchia maglieria con lo scudettone sul cuore.  Ma perché quelli erano gli anni in cui, magari all’inizio sulle spalle di mio padre, andavo a San Siro nella rappresentazione corale di una società borghese e popolare impegnata pancia a terra a ricostruire tutto: case, scuole, imprese, strade, palazzi pubblici, monumenti. E in sostanza a ricostruire anche la nazione, attaccata alle città più sventrate dalla guerra. Il simbolico significativo del nostro calcio era a portata di tutti. E con esso vincere con la pace e non con le armi; riconoscere – come ci ha insegnato Gianni Brera – il profumo etnico delle comunità sportivamente competitive (come per dire che Gigi Riva “rombo di tuono” essendo di Varese aveva il suo ragionevole posto più lì che a Cagliari, poi si è capito meglio che il mito era ormai mobile, grazie a Riva a Cagliari, a Sivori a Torino, agli olandesi al Milan, a Jair all’Inter, a Maradona al Napoli, eccetera). In ogni caso il calcio era città, comunità, tradizione e narrativa di una certa idea della vita, nel suo microcosmo ma con sguardi al mondo. E la nazionale … era la nazionale. L’82 resta indimenticabile, anche come accreditamento internazionale dell’Italia.

1982-2022 Francobollo commmemorativo per la vittoria ai Mondiali del 1982

Il simbolico nel calcio non è mai finito. Dappertutto nel mondo, ma in Europa e in America del Sud primariamente. Anche se la tifoseria è cambiata radicalmente. Anche se i tratti borghesi del pubblico degli anni ’50 (ricordo gli spalti incravattati a San Siro così come ho visto nelle foto i cappelli di marca e i fili di perle nel pubblico del Maracanà nella finale drammatica per il Brasile in casa ai Mondiali del ’50 contro l’Uruguay). Oggi la tifoseria mescola tutto: è festosa, è giovanile, è spettacolare, è un po’ criminale (non facciamo finta di non vederlo), è popolare, non so se si può chiamare interclassista ma diciamo che ferma per un’ora e mezza alla settimana la lotta di classe. E così è sancito che nel calcio ciascuno ha il suo simbolico. Così che nel mondo – malgrado la trasformazione affaristica della gestione del calcio – la domanda, cioè i biglietti venduti e gli ascolti assicurati, riguarda la misura del fatto che o futebol resta una metafora sociale che si adatta a tutti. Ma con diversità linguisitico-territoriali decisive (penso a Napoli e a Livorno, a Verona e all’Olimpico, a Genova e a Palermo).

Questo impasto è una specie di ribollita. Sempre in cottura. Soprattutto nei paesi che si mantengono in prima fila nelle competizioni e in quelli che ci stanno entrando con qualche nuova speranza. Non credo che in Qatar si colga nemmeno l’idea di questa cosa. Ne è comunque uscita la Cina che sembrava stesse per mettere la mani sull’affare del millennio. Investimenti enormi in stadi e in formazione di una passione popolare che esisteva secoli fa ma poi si è inabissata. La Cina è stata fuori da questi mondiali, la pandemia deve aver sferrato un duro colpo ai progetti. Vedremo se e come si riprenderà. La Russia è fuori, punita dalla Fifa e dall’Uefa per l’invasione dell’Ucraina. Si legge che si vorrebbe togliere la sanzione in vista del 2026. Anche qui vedremo. L’America, cioè gli Stati Uniti sono arrivati alla competizione – come ci arrivarono la prima volta nel 1930 in Uruguay – ma non allo stesso livello competitivo che un paese con quella forza sociale dal basso dovrebbe avere, coltivando cioè uno sport non pienamente popolare così da navigare ancora con progetti di investimento per raggiungere i livelli performativi di Europa e America Latina. Intanto il Giappone è ancora nella rappresentazione. Ma qui in Qatar la grande sorpresa viene dalle squadre africane: la Tunisia (che batte negli ottavi la grande favorita, la Francia, che resta la favorita), il Marocco (che batte niente meno che Spagna e Portogallo), il Ghana – le Black Stars chiamate anche il Brasile dell’Africa – e il Camerun (ricordando che è da una famiglia del Camerun che viene, pur se nato in Francia, il n. 1 dei francesi cioè Mbappè). E l’altra sorpresa – ma dovremmo dire la conferma di una sorpresa perché già in finale negli ultimi mondiali vinti dalla Francia – è la Croazia, quattro milioni di abitanti, squadra temuta da tutti e nazione in questi giorni ammessa nell’Europa di Schengen e dell’euro.

La squadra del Marocco ai Mondiali 2022 in Qatar.

Noi siamo fuori. Questo resta l’occhiello delle nostre cronache. Siamo stati come i poveri che schiacciano il naso contro i vetri delle pasticcerie di Natale. Ma se parliamo di metafore, qualcosina ci tocca dirla sull’esclusione. Un dibattito disinibito sul “perché” non mi pare che si sia fatto. Non ci siamo qualificati mentre succedevano molte cose. Il sistema decisionale nazionale si stava squagliando. Nessuno ha osato dire che l’insuccesso della nazionale di calcio (parte del brand italiano di sistema) poteva essere una cosa di sistema. Insomma, è andata così. Quello che è certo è che la Nazionale è un impegno occasionale d’orgoglio che tiene alti i valori di borsa dei giocatori e alto il prestigio del Paese. Ma il calcio è fatto da aziende, società diventate l’opposto di un tempo. Dall’epoca dei patron mecenati a trust anonimi di gestione, da espressione di comunità a finanza mondiale, da sport sociale a sport virtuale. Se la Francia di Macron vincerà mentre è senza se che l’Italia nella staffetta Conte-Draghi-Meloni sia rimasta fuori: Chissà se si farà, in positivo, un ragionamento sull’interesse nazionale e le regole da rifare nell’economia di mercato che da noi si chiama calcio. Forse il ministro per lo Sport Abodi non poteva in certe circostanze dire altro. Ma con calma ragionerei con lui se – pur facendo corrette dichiarazioni in tema di diritti umani – ci si può davvero limitare a dire: “L’assenza della nostra Nazionale è solo legata ad eventi incidentali, due calci di rigore”.

Un mercato che è regolato dai diritti tv che negli ultimi 20 anni sono aumentati di sette volte a livello planetario. L’ultima notizia da prima pagina del calcio italiano inteso come sistema di aziende è la catastrofe gestionale della Juventus. Quella descritta dalle carte della società come “una legittima metodologia di contabilità alternative”, sic!). In cui la questione diritti si unisce alle cifre da capogiro coperte da falsi in bilancio sulla speculazione finanziaria legata al valore dei giocatori. Non sono uno specialista di queste cose, ma dico solo: tutto ciò avrà o non avrà a che fare con il non raggiungimento dell’obiettivo minimo per un paese blasonato, ovvero qualificarsi tre le 32 calcisticamente idonee per la maggiore competizione del settore? Il mio amico Franco D’Alfonso – già assessore nella giunta milanese di Giuliano Pisapia, entrambi interisti, ma ho raggiunto la serenità di chiamare gli amici senza prendere le impronte digitali – ha scritto un bel ragionamento sulla crisi del calcio italiano partendo dal rebus sulla vicenda dello stadio di S. Siro, di cui si vuole una trasformazione per santificare  queste guerre stellari del nuovo calcio finanza, argomento su cui gli inglesi sono partiti prima e macinano modelli radicalmente diversi dal passato. Franco fa parte di quelli che dicono che se ci fosse ancora una borghesia che tiene a governare un po’ di tradizioni dovrebbe battere un colpo. Ma è stata proprio l’uscita di scena dei Moratti e dei Berlusconi – che hanno fatto  bene la loro parte – a far capire che si è polarizzata la scena: tifoserie bizzarre governate dalla spettacolarizzazione necessaria ma anche manipolata, governance delle società sempre più orientate a decisioni oscure e speculative. Il Napoli fa caso un po’ a sé, sia come modello societario, sia come organizzazione mitologica del suo pubblico. Se vincesse il campionato avrebbe qualche diritto di porre alle blasonate del nord il problema del modello aziendale. E anche sociale, perché con tutte le storture il modello “Maradona” si rifà a un calcio socialmente riparatore non a un calcio per scalare la ricchezza. Sarebbe un tema interessante.

Cosa ci portiamo a casa dalla rappresentazione del Qatar? Rimandando ad esiti giudiziari la questione delle ombre addensate sull’aggiudicazione e su altre denunce in corso, proviamo a dire qualcosache riguarda la percezione sociale, culturale, sportiva dell’evento ancora in corso. Che nell’emersione delle squadre africane e arabe (il Marocco che conquista la semifinale è comunque una pagina di storia per il nord-Africa e per il Mediterraneo) dovrebbero pur venire segnali per raddrizzare gli stereotipi più negativi su migrazioni e razzismo. Ora vediamo ragazzi forti, atletici, risolutivi, di colore, che diventano gli idoli non solo di popoli che anelano riscosse ma anche dei nostri fan-club magari reazionari politicamente e persino qualcuno in cuor suo razzista. È chiaro che un Pogba guineano resta uno stimolo fortissimo emulativo per le generazioni che emigrano. Potrebbe però delinearsi meglio anche una narrazione globale che taglia le gambe al razzismo miserevole di certe alimentazioni di paure che hanno solo scopo elettorale. Tuttavia, se si deve vedere da qui il cambiamento del calcio rispetto alle nostre società, parlo di tutto l’Occidente, quel che si coglie soprattutto è la divisione di queste nostre società tra grandi città e metropoli da una parte in cui il fenomeno è quello di un teatro delle guerre stellari dominato dalla finanza globale e le nostre diffuse province, piccole città e borghi in cui lo sport resta a misura del rapporto tra gestione e partecipazione nelle vecchie regole della comunità. Argomento che ha prodotto una spaccatura evidente in Inghilterra e in Francia e che comincia a disegnarsi anche in Italia (paese più povero di grandi città). Con lo sport che disegna due mappe praticamente non comunicanti, se non per l’ascensore di qualche giovane atleta.

Infine, un ultimo argomento, i Mondiali come sfida delle rappresentative nazionali, in cui si concentra una narrativa semplificata, persino un po’ brutale, ma non estinta, dello spazio che oggi c’è attorno alla narrazione delle identità nazionali. Argomento tornato di moda grazie al pericoloso primatismo nazionalistico (da Trump al Cremlino a mezzo mondo) ma che conterrebbe anche un tema di aggiornamento meno banale. L’argomento travolge un po’ la logica destra e sinistra, forse anche quella ricchi e poveri, o quella sud e nord o quella uomini e donne.  Quanto a quella che riguarda il rapporto tra giovani e vecchi direi così: questo calcio in mutazione genetica è davvero idoneo a interpretare il ruolo e la prospettive delle nuove generazioni?  Da una parte c’è la fascinazione di sempre del calcio giocato, per i giovani. C’è la mitologia del successo e della notorietà. C’è bisogno di affidare speranze in chi può rovesciare condizioni di minoranza e inferiorità.  Ma poi anche i giovani guardano meglio la realtà. Ed essa presenta una relativamente piccola minoranza di ragazzi dai 18 ai 35 anni che producendo pubblici immensi che valgono coperture pubblicitarie elevate riceve un valore finanziario e di compensi faraonico, umiliante per la grande maggiorana di ragazzi che tra i 18 e i 35 si impegna nello studio, nelle competenze e nell’impegno professionale portando a casa un crescente precariato. Su questo equivoco etico si può fondare davvero il rinnovamento della nostra identità nazionale da intendere come patrimonio generale e non come valore divisivo? Qualche anno fa emergeva che la mission dei corrispondenti esteri in Italia era scrivere attorno alle quattro cose per cui l’Italia interessava il mondo: cibo, calcio, papa e mafia. Punto. Un misto di bene e male, di innovazione e stereotipo, di certo e incerto che finiva per bloccare il pur dinamico brand Italia. Che lavoro si è fatto? Che cosa resta da fare? Che influenza provoca il calcio italiano che passa dalle stelle del campionato europeo alla polvere della non qualificazione in Qatar? Insomma, il calcio resta una leva forte che agisce con le sue contraddizioni.

Queste e altre considerazioni ci lasciano infatti sempre disponibili alla fascinazione del gioco del calcio. Che può essere fraseggio noioso al centro campo, la cosiddetta melina, ma anche brillantissima e velocissima tattica di contropiede come ci ha mostrato il Marocco per difendere il proprio vantaggio con il Portogallo o l’intelligenza di una diagonale telegrafata come quella di cui è stato capace Leo Messi nei quarti di finale contro l’Olanda. Vedere questo grande calcio con stupore, divertimento, ammirazione, resta un diritto e un piacere. Non posso dimenticare che persino un intellettuale come Albert Camus diceva che “non c’è un altro posto del mondo dove l’uomo è più felice che in uno stadio di calcio”. Anche se è proprio un allenatore di calcio, Arrigo Sacchi ad aver detto che “il calcio è la cosa più importante delle cose non importanti”. Ma vedere tutto quel sistema che ci ha indotto a qualche riflessione (e molte altre se ne fanno, con molte più competenza della mia) proprio per questo insostituibile piacere deve avere spazi garantiti per esercitare un prezioso dovere: quello anche della critica, quello anche dell’interpretazione, quello anche del disvelamento di troppi insoluti e troppe decisioni fuori da ogni condivisione sociale.

San Siro, Milan-Inter anni ’50

Se il calcio è metafora del sociale esso per natura contiene il bene e il male che sono parte di una narrazione che dovrebbe avere lo stesso spazio consacrato allo spettacolo.  Siamo maturi per un giornalismo sportivo appassionato, magari persino fazioso, ma socialmente intelligente e che aiuterebbe il pubblico a crescere? Questa è la domanda che vorrei trasferire alle nostre discussioni dal Qatar e sul Qatar, dicendo che in verità i giornalisti che ascolto e leggo, pur con qualche prudenza e talvolta qualche reticenza a fronte di quel che chiedo, mi piacciono abbastanza e mi sembrano in grado di fare, se volessero e se glielo fosse permesso, anche giornalismo di opinione etico-sociale non solo di cronaca sportiva.

Grazie per avermi ascoltato e a risentirci presto.

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