La “reputazione” di un Paese è un bene immateriale che copre ormai sempre più interessi concreti.
Per essa le dittature, ma a volte anche le democrazie, usano sistemi “segreti” per ottenere quella che dovrebbe essere solo una libera contrattazione immaginaria tra gli esseri umani. Da qui l’idea, che risale a Dante, che la peggior colpa è proprio quella dei traditori: dei congiunti, della politica e della patria.
Pubblicato dal magazine online L’Indro, 16.12.2022 alle ore 20.00
Sul blog stefarolando.it, 17.12.2022 h.9.30 con l’aggiunta di un ultima “postilla” (qui in corpo “grande”)
Stefano Rolando
Nel mio contributo a caldo sul caso di corruzione non occasionale sulla rotta Qatar-Unione europea (14 dicembre, https://lindro.it/qatargate-italia-ed-europa-brand-delicati-nella-tempesta/) tra sorpresa, amarezza, preoccupazione e soglia di minimo controllo delle notizie era difficile andare, anche se un tema relativamente nuovo credo di averlo potuto porre. Quello dell’oggetto della corruzione rappresentato dalla “reputazione nazionale”.
Si sono visti mille casi di corruzione dovuti a interessi economici diretti (appalti, nomine, poteri, tangenti, eccetera) e dovuti all’intreccio tra economia e politica quando regole, gerarchie e classifiche vengono sovvertite illecitamente. Qui la dominante dei soldi messi in campo per indurre atteggiamenti e funzioni “di favore” appaiono in prima istanza riguardare quella cosa impalpabile, con molto valore e difficile prezzo, che si chiama “immagine”. Ovvero – come è scritto nei manuali che cercano di individuare meglio il rapporto tra valori e prezzi – “reputazione”. Anzi la componente più complessa del tema, la “reputazione nazionale”.
Va da sé che si tratta semplicemente di una pre-condizione. Dietro all’investimento occulto di tanti soldi la ricerca del miglioramento della reputazione non è solo funzionale a salvaguardare ciò che è prassi di ogni governo e ogni funzione pubblica, cioè i cosiddetti “interessi nazionali”. Qui è evidente l’intento di salvaguardare la credibilità delle iniziative di chi, avvertendo il rischio di reputazione sporcata, reagisce a minacce che, se non rimosse, prima o poi finiranno per compromettere anche interessi concreti, cioè potere e affari. Di solito filiere ben più strette che un intero popolo.
Che questa illecita reattività metta in movimento denaro, spionaggio, piani, poteri, lo si è visto (ma non solo) nel quadro di eventi sportivi mondiali, come quello che il Qatar ha fatto di tutto per farsi assegnare nel 2009 e che è andato a scadenza nel 2022. Anche se questo evento ha fatto molto rumore per il modo con cui l’assegnazione è avvenuta a suon di lobbies e per il trattamento di cantieri di infrastrutture per rendere possibile lo svolgimento dell’evento, in un crescendo di proteste per le condizioni dei lavoratori immigrati impiegati. Con denunce molto gravi che l’associazionismo per i diritti umani ha messo in evidenza.
Quando la catena di comando è molto corta, alla domanda “come agire?” possono essere date risposte molto acuminate. Utilizzando proprio l’intreccio tra la politica più critica (di solito in questi casi la sinistra) e le voci più documentate (appunto l’associazionismo per i diritti umani), per trovare faglie permeabili disposte a mettere in campo voci dissonanti, anzi voci a favore, voci legittimanti. E, ben inteso, coprendole di denaro.
Se uno volesse fare inchieste preventive, qui la pista è disegnata persino in modo sfacciato. E affiorano elementi per capire che alcuni segnali erano stati dati per tempo.
Non solo Qatar e non solo Italian connection.
Ma è il contesto della faccenda che rende il tema un iceberg con contesti più generali e più ingombranti. Così da non potersi chiudere nella sola “italian connection” che in questo ore appare al centro delle imputazioni.
Persino il capo del Cremlino fa continui riferimenti alla reputazione della Russia, offesa da atteggiamenti che Putin ha segnalato come non rispettosi di una “grande potenza mondiale”. Per poi aggiungere che tra il modo degli ucraini di trattare i russofoni del Donbass e l’avvicinarsi di basi militari Nato che si dichiarano difensive e in cui lui vede un altro accerchiamento irrispettoso della reputazione russa, ce ne sarebbe stato abbastanza per mobilitare esercito, aviazione e missili e dare una lezione agli ucraini impertinenti e poi anche agli occidentali che lo sostengono. Ne è nata una catastrofe. Quando ormai la diplomazia economica di mezzo mondo ottiene quello che vuole facendo molto meno chiasso (e proprio i russi e i cinesi ne sanno parecchio).
Oggi, a guardia del diritto reputazionale, paesi ricchi e poveri mettono in prima linea i servizi segreti. Trasformando tutta la battaglia – che è all’origine di carattere comunicativo – in una guerra comunicativa. E così infatti – ce lo ha spiegato Michele Mezza nel suo recente Net – War [1] -– la guerra sta cambiando il giornalismo e il giornalismo sta cambiando la guerra.
Intanto qui oltre al Qatar appare in campo anche il Marocco. E nel perimetro si vanno collocando storie che partono da molti contesti con potere finanziario e con nessi in cui – la mappa europea dello sporto aiuta a capire meglio i larghi confini – va ben al di là dell’Italia.
Il Corriere della Sera (online) ha dedicato ieri una panoramica della stampa francese che racconta molti aspetti di una più radicata connessione Qatar-France. Cominciando dai rivali simbolici della finale di Doha, Messi e Mbappè, entrambi a lauto stipendio del Paris St.Germain, squadra comprata tempo fa dal Qatar in un’operazione ampia con al centro il ruolo dello stesso presidente francese Sarkozy che ha anche orchestrato l’assegnazione dei Mondiali 2022 al Qatar. Anche qui lobbismo, schieramenti di finanziarie e di servizi segreti, con i contorni misteriosi di un pranzo che suggellò i patti principali che stanno in un documento con secretazione di Stato fino al 2038.
A tener conto poi della corsa agli “affari di Stato” con il Qatar l’Italia e la Francia competono da molti anni, con colpi e controcolpi abitualmente sostenuti dai capi di governo e dal sistema decisionale nazionale per la rilevanza della posta in gioco (la mappa degli interessi italiani è annunciata sulle pagine di Repubblica di sabato 17 dicembre).

Nel campo della rete reputazionale che protegge a sua volta il campo degli interessi, nel sistema degli Stati metà della partita se la giocano le forze armate. Ma l’altra metà mette in campo soggetti che il cinema racconta da sempre: le spie, le contro-spie, i guerrieri digitali, gli incursori che assediano la cyber-security. Eccetera. In una filiera di funzioni in cui tutti gli Stati hanno implicazioni, alla faccia di chi credeva che la comunicazione pubblica avrebbe avuto i suoi canoni imperituri nelle campagne di vaccinazione, per non correre troppo in autostrada, per ricordare gli orari dei treni o per aiutare le vecchiette ad attraversare i passaggi pedonali.
Ma non dobbiamo a questo punto credere che la spavalderia con cui si usano spie, sacchi di soldi di basso taglio, ricatti organizzati per assicurarsi asservimento e docilità, siano una prerogativa degli stati autoritari e dittatoriali rispetto alle più esposte democrazie. Tutti i paesi hanno servizi che chiamano “segreti”. E tra i “segreti” tutti hanno cambiato il menu delle cose da proteggere che una volta erano ponti, dighe, industrie, confini e poi, poco a poco, hanno visto rubricare cose immateriali e molto più vaporose. Appunto il profilo di immagine, che si credeva materia protetta solo dalle aziende che producono i consumi di lusso.
Ormai cono consumi di lusso anche i “poteri”, soprattutto quelli di gruppi dirigenti, professionisti di ruoli politici e militari che una volta arrivati a “rappresentare” il popolo non hanno altra preoccupazione nella vita che conservare la gallina dalle uova d’oro rispetto alle regole (preziosissime) dell’avvicendamento.
È chiaro che i paesi democratici hanno un campo meno feudale e medioevale di svolgimento di questi affari. Perché il ricambio arriva anche per i più stagionati. Perché la stampa un certo ruolo di indagine e di controllo lo riesce ad esprimere. Perché – come si dice – “c’è ancora un giudice a Berlino”. Perché lo scandalo arriva puntualmente per essere agito come una clava e per sbarazzarsi di un concorrente politicamente pesante.
Le cronache dell’Occidente sono tuttavia piene di questa casistica. Anche se le cronache di paesi in cui il potere è senza limiti di tempo e di controllo oltre a farci sapere molto meno lo svolgimento dei loro temi, ci dicono che qui è solo la storia a poter intervenire mettendo fine a cicli divenuti infernali. Come prima o poi succederà per un altro gruppo dirigente medioevale, quello degli ayatollah in Iran, che ora impicca ragazzi all’alba e al tramonto incolpandoli di avere mostrato irriverenza al massimo della reputazione rappresentata sulla Terra: Dio.
Democrazia, informazione e sorveglianza. Risalendo fino a Dante Alighieri.
Dunque, il nostro lavoro di indagine, di argomentazione, di chiarimento di questi eventi è doppiamente necessario. Non per partecipare ad un giustizialismo sadico e occasionale in cui a un cronista qualunque basta una soffiata per scrivere il “pezzo di una vita” che elimina di colpo un boiardo, un intoccabile, un portaborse senza altri meriti che il servilismo, eccetera, eccetera. Per chi svolge con scrupolo e senso di responsabilità questo giornalismo di inchiesta si tratta piuttosto di partecipare al rapporto dieci a uno che resta stimato tra l’estensione della corruzione e la strumentazione in atto per scovarla e scoperchiarla. Ed è importante agire nel campo dell’informazione perché il tentativo di contraddirla e di addomesticarla è uno dei principali obiettivi della corruzione.
Fin che questo sarà possibile in Occidente, come dimostra l’indomabile esperienza di Freedom House, si continueranno a creare le premesse pedagogiche per tenere in piedi un disvelamento indispensabile per conservare l’anima di una democrazia che un giorno potrà redimere anche paese prigionieri della loro storia confiscata. È successo così in molti paesi usciti da dittature e che hanno poi trovato la controversa ma illuminata via della “luce del sole”.
Ed è sulla piattaforma di questa regola che è stato possibile fondare l’Unione europea che oggi ha tutte le ragioni per alzare la soglia di difesa non, come si dice, da un attacco esterno che c’è comunque, ci sarà comunque, proseguirà comunque. Ma piuttosto da un attacco “interno” che è ancora più scandaloso quando proviene da chi ha organizzato il suo consenso proprio predicando contro la dannazione civile di cui lui stesso si è macchiato.
Una sorta di colpa come quelle che sono sempre state presenti ai maggiori fustigatori dei traditori. Per esempio, il nostro sommo poeta, che a sua volta nel profilare la schiera del suo tempo ha fatto come è noto un vasto inventario magari dando anche un po’ di ascolto ai propri rancori, ma fondandosi spesso su storie acclarate. Comunque, tenendo la più alta soglia di disprezzo possibile per i traditori dei congiunti e per i traditori della politica e della patria. Tanto che Dante lascia una traccia – nel notissimo 32° canto dell’Inferno – del sentimento della denuncia, avvolgendo i rei nel gelo eterno. Che è il contrappasso più alto di un sistema di pene basato sul simbolo del fuoco, in relazione con il freddo e la “durezza del cuore” necessaria a chi compie con lucidità un tradimento. Magari nella freddezza della premeditazione, in contrapposizione con il calore umano. Non solo, ma anche individuando, nei colpevoli soprattutto di tradimento della patria, il massimo della degradazione umana, essendo il loro peccato il più grave dell’Inferno tanto che sono retrocessi nella loro immobilità a pietre-umane.
[1] Stefano Rolando – Net-War. Il digitale come algoritmo e come arma – Democrazia futura- Key4biz, 15.12.2022