Podcast n. 26 – Il Mondo Nuovo (9.1.2023). Ma perchè la seconda Repubblica non ha prodotto neanche uno statista?

Versione audio – Il Mondo Nuovo magazine online, 9.1.2023

Rubrica “Il biglietto da visita”

Buongiorno e un rinnovato buon anno a tutti, sono Stefano Rolando

Qualcuno ha avuto la pazienza di ascoltare l’ultimo podcast preparato il primo dell’anno, dopo il discorso di Capodanno del presidente Mattarella.  Uno ha scritto: “da sentire attentamente”. Grazie Bruno, molto gentile.  Giorgio ha scritto: “Ma tu dici che ha detto cose che non erano così esplicite nel discorso”.

Si, l’ho ammesso anch’io. Ma non tutti i politici sono quelli che vanno trenta secondi in un TG a dire “Questo mi piace, questo non mi piace”, come fossero un influencer qualunque che sta proponendo profumi o pannolini. Per dire cose complesse un po’ di linguaggio complesso è necessario.

Il potere non è solo alzare o abbassare il pollice sugli spalti del Colosseo. È soprattutto tenere in compatibilità funzioni che una democrazia non concepisce solo in verticale. Io sono il capo, tu il sottocapo, il terzo a metà e gli altri a prendere ordini.

La democrazia – ci si dovrebbe riflettere un po’ – ha una sua orizzontalità. Oggi sempre più interattiva.

Che richiede prudenza e sagacia di linguaggi. Se vuoi essere efficace molti dovranno scoprire anche da soli il senso, interpretando l’andamento di un dibattito. Non perché c’è uno che alza un cartello con scritto “Stop a questo” “Stop a quello”. Quello è un altro mestiere in politica. Altrettanto utile in democrazia, perché piazza e palazzo sono ambiti entrambi con diritti di parola. Da esercitare in modo evidentemente diverso. C’è il momento della chiarezza estrema. E c’è il momento della dinamica di una riflessione collettiva che non è solo pedagogia per semianalfabeti. L’interesse del discorso di Capodanno di Mattarella è da un lato l’uso estremo della brevità e della chiarezza che il presidente fa quando va fatta. Ma è anche l’uso più sottile e necessariamente più attento alla delicatezza degli argomenti quando questo è l’unico modo per mantenere sia autorevolezza che efficacia.

Uno (anzi, una) mi ha anche scritto: “Ma in fondo tu continui a preferire quelli della Prima Repubblica”.

E questa battuta, di Caterina, che credo non volesse essere spregiativa, ho pensato di commentarla per qualche minuto qui con voi.  Essendo un po’ la prosecuzione del podcast precedente e forse di qualche altra considerazione fatta in occasioni passate.

Da quando è finita la cosiddetta “prima Repubblica” metà anni ’90 – siamo più o meno alla fine del mandato presidenziale di Francesco Cossiga – si comincia a creare lo smottamento del sistema politico durato mezzo secolo e si formano a poco a poco nuovi partiti e nuovi leader. Quando si cambia non bisogna abbarbicarsi al passato. Prima si verifica, poi si valuta.

Ebbene da quel momento a oggi nella dinamica che prova ad eleggere ogni sette anni il primo degli italiani, cioè il capo dello Stato, il rappresentante dell’unità nazionale, non si è mai riusciti a trovare il consenso per eleggerne uno che non fosse parte del ceto politico di quella prima Repubblica. Lo è stato Scalfaro, ovviamente. Lo è stato Ciampi con diversa ma pari evidenza. Lo è stato Napolitano, capace di fronteggiare le trasformazioni ma legato in tutto alla sua formazione. E lo è stato parimenti Mattarella. Quando si è pensato a immaginare alternative possibili si è parlato di Romano Prodi o di Giuliano Amato, cioè figure appartenenti a quel ceto e quella cultura politica. Non è mai venuto fuori – se non per scherzo o per provocazione – un nome veramente spendibile ed eleggibile prodotto dalla cosiddetta seconda Repubblica. In modo clamoroso alla fine del mandato di Sergio Mattarella, quando – come si diceva nelle vignette di commento alla politica – Mattarella aveva già preso in affitto una casa per le vacanze o comunque per trasferirsi. Tutti ci ricordiamo cosa è successo. Tutti ci ricordiamo il tentativo di metter in campo nomi della seconda Repubblica (dal nome più divisivo come quello di Silvio Berlusconi al nome meno conosciuto come la signora Elisabetta Belloni). Il nome di Mario Draghi come si sa era sulla bocca di tutti, ma nemmeno su di lui si è trovato il consenso necessario ma soprattutto anche il suo nome faceva, come fa evidentemente, parte delle cosiddette riserve della Nazione al pari di alcuni altri, formati compiutamente nella prima Repubblica. Il Parlamento della seconda Repubblica ha dovuto così riconoscere che, per uscirne senza scandalo, era meglio ricorrere a un secondo mandato per Mattarella che, con evidente alto senso dello Stato, ha disdettato l’affitto per la la casa in cui fare il trasferimento di carte e arredi.

Un ceto politico che può svolgere diciamo compiti intermedi, ma che non può assicurare l’alta rappresentanza al Paese e all’intera comunità. Credo che questo argomento debba tornare a farci riflettere, quando il quadro politico ora ci ha con nettezza consegnato due risultati contrapposti.

  • Un astensionismo che è arrivato al 40% cioè a 18 milioni di cittadine e cittadini che hanno scelto di non esprimersi, dichiarando un’ampia disaffezione.
  • E un risultato che porta alla guida del governo – con inedito cambio di genere – la leader dell’unico partito che era all’opposizione del governo dell’emergenza precedente, portando in campo un ceto di governo per lo più nuovo e diverso, sulla cui natura è giusto accertarsi.

Questa svolta viene indicata come un successo della democrazia. Anzi lo stesso Presidente Mattarella ha segnalato questa chiave di lettura.

Poi la presidente Giorgia Meloni e altri dicono con soddisfazione: “Guardate che adesso questo è un governo politico!”. E qui dobbiamo intenderci sul senso oggi della parole. Noi sappiamo che gli italiani (cito ancora il rapporto Demos di fine anno sulla fiducia nelle istituzioni) tra chi preferisce i tecnici competenti e chi preferisce i politici espressi dal voto oggi in Italia sono due quartieri di pari anzi identiche dimensioni: 47% gli uni, 47% gli altri. Più qualcuno che non sa. Dunque, il problema è socialmente complesso.

Voglio ricordare che la polemica tra statisti e incompetenti ce la siamo portata dietro per molti anni recenti. A volte facendo credito a chi chiedeva tempo per dimostrare che il cambiamento richiede il suo rodaggio. Quante volte non si è messa una barriera pregiudiziale rivendicando il passato per pura nostalgia. Ma ora siamo in grado di fare qualche bilancio.  Sentite cosa diceva Luigi Di Maio al tempo vicepresidente del Consiglio nel governo gialloverde. È il 3 ottobre 2018, da Giovanni Floris sulla 7. Nel giro di un paio di anni lo stesso Di Maio avrebbe cambiato avviso.

https://www.la7.it/dimartedi/video/luigi-di-maio-quelli-di-prima-erano-statisti-noi-da-4-mesi-veniamo-trattati-come-incompetenti-03-10-2018-251757

(dal minuto 1.45 alla fine)

In ogni caso resta aperto il problema che si tratta di mettere in funzione fisiologica lo spirito di una costituzione che chiede non solo di “far politica”, ma anche di produrre, con figure adeguatamente formate, buoni sindaci, seri parlamentari, ottimi ministri  e persino alcuni statisti, proprio questa è la parola, tra i quali scegliere per esempio il prossimo presidente della Repubblica.

Ma prima di arrivare a queste grandi scelte – che segnano un’epoca, almeno una lunga stagione – ci sono anche le più piccole scelte, che capitano tutti i giorni, che sono indizio di un metodo, in cui anche un occhio di un non esperto coglie se c’è una palestra di nuovi statisti o di vecchie volpi.

Pretendere di applicare lo spoil system come uno spavaldo manuale della alternanza è cosa diversa di far coesistere i migliori, nuovi compresi, nel pluralismo che nelle istituzioni democratiche deve emergere come una caratteristica di fondo.

In questi passaggi, nella democrazia repubblicana, contano anche i dettagli, gli aspetti formali. Tutti, tra i migliori politici nel tempo, avranno avuto un moto di stizza per un funzionario non gradito. Ma trovatemi nelle carte di De Gasperi, di Pertini, di Ciampi o di Mattarella, l’espressione “li cacceremo con il machete” che, non un militante di base ma il ministro della Difesa in persona (quello che in materia di armi deve essere per giunta il più delicato e preciso di tutti) ha detto per annunciare una manovra di nomine. Ho visto che Sabino Cassese (intervistato sabato 7 gennaio da Repubblica) non ha avuto mezze misure, visto il modo con cui il governo tratta la questione. Ha detto: “Il ricorso allo spoils system tradisce il merito e l’imparzialità”.

Finché non sarà tornata questa normalità per una sana democrazia occidentale, noi avremo un sistema anomalo. Ed è su questo che si deve ragionare quando si cercano parametri semplici, alla portata di tutti, per capire se il nostro sistema resta collassato e in “pronto soccorso” oppure se sta maturando una rigenerazione democratica che non vuol dire solo riprendere il diritto di voto – ci mancherebbe altro – ma soprattutto configurare una classe dirigente all’altezza delle sfide e delle responsabilità che il nostro Paese ha assunto.

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