Podcast n. 27 – Il Mondo Nuovo – Lunedi 16 gennaio 2023 – Un federatore del centrosinistra. Abbandonata l’ipotesi?

Per il magazine online Il Mondo Nuovo – Lunedi 16 gennaio 2023

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Rubrica “Il biglietto da visita”

Buongiorno a tutti, sono Stefano Rolando.

Vediamo da qualche mese il centro-destra baldanzoso al governo e il centro-sinistra in crisi identitaria e di ruolo e in picchiata demoscopica. Il vulnus riguardante il principio di base di ogni democrazia sana è più che evidente.  Dato che in una democrazia sana chi governa e chi controlla dovrebbero avere pari poteri.

È questa la maggiore preoccupazione che muove la mia riflessione di oggi.

Sappiamo che ci sono di mezzo congressi e primarie. Ma il tema è più vasto dell’esistenza del PD.  A destra se le sono suonate trovando poi soluzioni. Dall’altra parte si è formata una sterilità di rapporti elettoralmente efficaci (nazionali e territoriali) nell’ambito del centrosinistra. Parlandone come tutto ciò che non si considera iscrivibile nella destra dell’emisfero, ora al governo, della politica italiana.

La sterilità dei rapporti di alleanza nel centro sinistra è naturalmente dovuta alla convenienza di alcuni soggetti di fare corsa libera per non avere vincoli di posizionamento e di comunicazione. Al punto tale che nelle imminenti elezioni regionali di Lombardia e Lazio quasi tutti i soggetti del centrosinistra in campo preferiscono perdere piuttosto che ipotecare la loro autonomia.

Chi fa questioni di nomi, chi di storie passate, chi di purezza, chi di libertà di manovra, chi (e questo conta parecchio) di idiosincrasie personali.

Ma su questo argomento bisognerebbe avere lo sguardo lungo e ricominciare a ragionare.

Lo faccio provando a guardare avanti, almeno nell’ottica delle importantissime elezioni europee del 2024.

Ebbene uno spunto emerso nel corso della presentazione a Roma del libro in cui sono stati meritevolmente raccolti gli interventi di David Sassoli credo sia degno di qualche riflessione.

Enrico Letta ha detto di aver proposto a Sassoli – che al momento era presidente del Parlamento europeo, dunque con una responsabilità super partes ed eletto per giunta da una maggioranza di forze politiche diverse – di svolgere un ruolo di federatore dell’intero centrosinistra per condurre alle elezioni un sistema che rappresenta un elettorato che ha forza contendibile solo se trova intese unitarie, nei confronti del centrodestra che si è andato formando in Italia.

Le elezioni del 25 settembre hanno mostrato da una parte il trasferimento di voto da un soggetto all’altro, spostando più a destra l’asse della coalizione e poi, dopo la vittoria, l’asse del governo.  Mentre dall’altra parte, non essendosi realizzato quel progetto, sono rimaste, per colpe o per ineluttabilità, solo le piaghe dei veti incrociati. A causa di un modello di impraticabilità di una leadership e a causa della impraticabilità di un comun denominatore da bilanciare attraverso ruoli sociali e politici ben distribuiti tra i partecipanti.

Nessuna ingenuità in questo tentativo di riflessione. Facile da dirsi, complicatissimo da farsi.

La domanda è se questo modello – pur mancando in apparenza una figura generosa e di servizio alla politica come quella che certamente era rappresentata da David Sassoli – potrebbe ancora essere immaginato per costruire una concreta alternativa a quel sistema di contraddizioni che il centrodestra al governo oggi esprime.  E che il centro-destra, tra l’altro, pur con dedizione, con adattamenti e con sforzi seri della premier, esprime con una rappresentazione dei messaggi simbolici in cui un giorno ci si veste per stare in Europa, un altro giorno per compiacere in forme imbarazzanti ambiti di elettorato o per marcare le proprie eredità simboliche (argomento che viene chiamato: “Ma non avete ancora capito che questo è un governo politico?”).

Ne abbiamo già parlato la settimana scorsa. Del “machete” e di altro.  

Se si sommano anche  ricordi appena precedenti, dei comizi ringhiosi con formazioni estremiste della stessa Giorgia Meloni,   dei musei mussoliniani in casa del presidente del Senato La Russa,  della girandola delle  felpe, dei santini e dei rosari di Salvini;  dell’ormai obsoleto doppiopetto (tramontato persino nelle assemblee confindustriali) alternato alle  bandane festaiole o ai colbacchi caucasici di Berlusconi, c’è il senso che l’espressione “governo politico” nasconda un’estetica che non ha riscontro in nessun paese di testa delle democrazie mondiali. Ma la tenuta di quel sistema di alleanze non si fa scrupoli di subire un’estetica, come dire, un po’ sgualcita. La tenuta risponde a convenienza, salvo poi in certi momenti entrare in crisi e aprire improvvise contendibilità. Non è certo in una fase di ampliamento e spartizione del potere che si può immaginare crisi di rapporti. Anche se alcuni nodi vengono al pettine, non grazie ai nemici politici, che hanno lo sguardo altrove, ma per effettivi sbandamenti. Una figura generalmente rispettata da tutti, come il presidente del Censis Giuseppe De Rita, dice che la qualità degli atti di governo e di classe dirigente stanno minando la stessa idea della premier di immaginare “di legislatura” i suoi tempi di governo.

Giuseppe De Rita

In ogni caso sulla rianimazione degli equilibri della democrazia italiana bisogna tornare a parlare pensando alle proprie virtù non alle eventuali malattie degli altri. Perché intanto il centrodestra ha il suo invisibile federatore, che è quello rappresentato da un certo cinismo elettorale, che porta con sé anche la minimalità programmatica. Che ha dato i dividendi a suo tempo al populismo di Berlusconi, poi al qualunquismo di Salvini e ora al sovranismo fattosi gattopardesco di Giorgia Meloni.  Ma dopo la riproduzione del modello trumpiano di Capitol Hill nell’assalto dei bolsonaristi al Planalto di Brasilia, si comincia a riflettere sulla rete globale delle destre pronte a cavalcare anche il golpismo stracciarolo pur di non mollare il potere quando la democrazia sposta la freccia della roulette.

Nei giorni scorsi molti hanno scritto di quanto l’Italia sembri uno dei posti adatti per immaginare feste popolari con fuochi d’artificio sugli esempi che ormai abbiamo ben conosciuto. E tutto ciò costituisce un’altra buona ragione per immaginare un nuovo quadro di alleanze, anche se la realtà proprio di questi giorni spingerebbe a desistere. Siccome per l’attuale giro di legislatura le nomine dei vertici militari spetteranno a questo quadro di governo, sembra evidente che, pur continuando tutti ovviamente a nutrire fiducia nella lealtà degli apparati istituzionali, la via di un profondo ripensamento del modello di organizzazione del confronto elettorale deve riguardare, con precauzione preventiva, da subito coloro che, con posizionamenti diversi, affermano ancora di far parte di un ideale schieramento di centro-sinistra.

Partiti, movimenti e – aggiungo con chiarezza – organizzazioni civiche, non intese come liste di comodo che si fanno e si disfano elezione per elezione. Dico questo perché a fronte dell’astensione arrivata al 40%, comprovatamente più significativa nell’ex-elettorato di centrosinistra, l’ambito del civismo ha la potenzialità (se più organizzato)di riportare al voto almeno coloro che il recente Rapporto Demos sulla fiducia degli italiani nelle istituzioni indica nella galassia di chi pensa che la partecipazione va bene ma fuori dai partiti e nell’articolato mondo dell’associazionismo sociale, valoriale, culturale e professionale.

Pensando al meccanismo di un federatore la condizione è che chi si fa garante delle prerogative di tutti ha anche l’autorità per farsi garante delle funzioni di tutti.

Alcuni sono adatti a contendere il voto al centro, altri a recuperare il rapporto con lo scollato collateralismo sociale e produttivo, altri a recuperare lo spazio politico bruciato dall’astensionismo, altri a tenere una soglia di dialogo con chi – come nella storia d’Italia si è visto ciclicamente – esprime ambiti di rancore che potrebbero avere pieghe fuori dal quadro costituzionale.

Nessuno di questi ambiti – partendo dalla marginalità dei partiti politici italiani rispetto alle rilevazioni sulla fiducia e la reputazione – si farebbe convincere dal leader di una delle forze in campo. Anche se fosse espressione di primarie. Anche se avesse al petto adeguate medaglie di merito per servizi resi al Paese. Per il semplice fatto che il primo pensiero oggi va a contendere i voti proprio al vicino di banco, non all’avversario di sistema. E perché è proprio la posizione di leader di un partito che riduce le soglie di credibilità per un progetto federatore tra soggetti con un eccesso di mutua competitività in cui si è adottato un modello di cecchinaggio non di dialogo.

Dunque, il leader del PD – ancorché dimissionario –   aveva deciso che era necessario un vero e credibile federatore, in qualche modo super-partes,  per tenere insieme la complessità del centrosinistra.

Ed effettivamente David Sassoli avrebbe avuto qualità per assumere questo ruolo. Con sincero rammarico per una personalità di cui ero amico e la cui prematura scomparsa ha davvero prodotto emozione.

Ma non doveva essere questa la ragione per abbandonare o accantonare il proposito.

Domando: si è fatta una ricognizione di chi – in quadro istituzionale (che riguarda ambiti più vasti della politica in senso stretto) ma con risorse atte a comprendere bene le difficoltà della politica – abbia sperimentato un metodo di organizzazione dei comuni denominatori e magari anche della complessità di tenere insieme soggetti con tendenza tra loro competitiva?

So che è inutile azzardare ipotesi, ma penso che lo stimolo alla ricerca in tempo utile non debba essere abbandonato.  Ricerca in cui dovrà essere tenuto in conto che non basta il punto di equilibrio tra i soggetti in campo, schema Cencelli applicato al governo Meloni per intenderci, perché serve anche la forza culturale di interpretare le ragioni della democrazia italiana, dato che le improvvisazioni hanno mostrato una per una tutti i flop dell’Italia per così dire in transizione.

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