La ragazza suicida in IULM

Una nota di Stefano Rolando (docente IULM)

La scelta della giovanissima studentessa di origine sudamericana ma nata e residente a Milano ed iscritta al primo anno alla facoltà di Arte e Turismo dell’Università IULM di compiere ieri il suo gesto fatale nell’ambito del campus universitario – in un blocco in cui ci sono aule molto frequentate e anche l’area residence degli studenti (in cui tuttavia lei non abitava) – conferisce alla vicenda un carattere diverso rispetto all’ipotesi di una scelta che avesse riguardato la sua stessa abitazione o comunque un altro ambito privato. Nel senso che inevitabilmente interroga ulteriormente. 

Le poche parole trapelate circa il biglietto lasciato scritto con riferimento a scuse per avere “fallito tutto” nella sua ancora così breve vita (nata nel 2003, dunque diciannovenne) potrebbe connettere il luogo del suicidio ad esiti negativi di percorso. E’ la prima cosa che ho cercato di appurare, nello sgomento comune ai miei colleghi e all’ateneo tutto al momento della diffusione della notizia. Il suo percorso, pur iniziale, non apparirebbe “disastroso”, tutt’altro.

Così, salvo nuovi elementi che potranno emerge, il nesso appare più indiretto. A miei studenti ora in tesi o da poco laureati, ho chiesto nella giornata un’opinione. Con un certo interesse c’è chi mette in evidenza il contrappunto con quel carattere tendenzialmente sempre positivo e di successo che assume l’identità di studi legati alle culture dell’immaginario moderno che questa università (come altre) esprime.

Un argomento un po’ sofisticato, ma da discutere. Che ha a sua volta un nesso con la “promessa di successo” che più in generale la Milano in trasformazione ed evoluzione rivolge in generale ai giovani rispetto ai quali ha un’attrazione crescente, sempre dal Mezzogiorno, sempre piu’ anche da altri paesi. E’ un posizionamento comunicativo che Milano condivide con moltissime altre città, Londra in testa. E che molte città tendono oggi a zebrare un po’ – i tre anni della pandemia hanno offerto moltissime argomentazioni – mantenendo narrative di speranza ma anche abituando a giudizio critico circa l’ andamento del presente, soprattutto in ordine all’acuirsi di divaricazioni e disuguaglianze, che non sono solo economiche e sociali, ma anche identitarie e psicologiche.

Certo quel luogo scelto fa male, resta molto interrogante. Soprattuto perché le promesse di folgorante successo percepite come salvezza e discriminazione  hanno ricadute frequenti sulla comprovazione personale che può anche colpire una inadeguata tenuta allo stress della sfida.

Gli “sportelli psicologi” che IULM ha attivi, potranno aiutare in certe interpretazioni. Mia figlia reduce da un’intensa esperienza nelle università a Londra, mi dice che la presa anche preventiva di quei servizi e’ spesso dovuta alla facoltà di assegnare dei fattori di attenuazione o tolleranza per certi vincoli (molto importanti li sono i termini di consegna delle esercitazioni). Da noi questo profilo riguarda credo più l’ area della disabilità comprovata, ma non ne so abbastanza per esprimere un’opinione, sentendo tuttavia quella di alcuni addetti che, sul tema di “prevenire”, mettono l’accento in ordine a implementazioni possibili. Sono certo che i responsabili valuteranno più in profondità.

Resta, nel sentimento di responsabilità che la scelta di questa infelice ragazza inevitabilmente ha provocato, il peso di un frammento di fallimento per qualunque organizzazione che prende in carico i giovani con la loro forza e la loro fragilità, abituata ormai a leggere entrambi questi caratteri come una dialettica più dura di come quell’età e’ rappresentata e che ha tracce che riguardano tutta la storia umana. Fui colpito personalmente a vent’anni da un evento di morte fulminante e conobbi a quel tempo la famosa e mai tramontata citazione di Paul Nizan, scrittore francese morto in guerra a 35 anni, “Non permetterò a nessuno di dire che venti anni sono la più bella età della vita”

Paul-Yves Nizan (Tours7 febbraio 1905 – Audruicq23 maggio 1940)


Un primo intervento sulla mia nota

Giulia D’Argenio

Caro Stefano,

all’udire la notizia, la mia prima immediata riflessione si riassume in alcune espressioni “chiave”: le identità competitive, il merito e il sacrificio. Quella retorica, da Repubblica e Corriere online, secondo cui «se ci dai dentro», ce la fai. quando questo non accade è perché “tu” non sei abbastanza, non sei all’altezza, non sei capace.

Ho ripensato alle storie di “successo” abilmente costruite e vendute dal Corriere e Repubblica che, solo qualche settimana fa, propagandavano i traguardi di giovani e bellissime ragazze: una laureata in medicina in tempi e con risultati da record, sacrificando ore di sonno per tenere dentro tutto (lo sport, l’estetica, gli hobby e la carriera), l’altra in relazioni internazionali, sbarcata in Giappone con un programma di internship dell’ONU e che, nel frattempo, ha avuto anche il tempo di fare un reality negli USA. Il tutto entro i 23/24 anni. E mi chiedo: è un caso che queste storie di successo abbiano come sfondo Milano? Non lo so. 

So però che dal punto di vista di chi come me “non ce l’ha fatta”, ma ha la fortuna di avere alle spalle qualche anno ed esperienza in più su cui fare leva per rielaborare e provare a sopportare il peso insostenibile del “fallimento”, questa retorica – di cui la stampa e l’università sono largamente e dolosamente complici – è un tassello non irrilevante di questi processi di demolizione della persona. Ed è non meno responsabile di fatti come quello della stazione di Seregno o di Alatri. 

Una retorica che tace un dato fondamentale anch’esso riassumibile in un paragone tutt’altro che avventato. Io e Stefano Feltri – il portentoso direttore de Il Domani – abbiamo la stessa età. Feltri è un bocconiano. Io ho studiato all’Orientale di Napoli. Lui ha intrapreso la carriera giornalistica fino a diventare una specie di direttore-enfant prodige. Io, dopo essermi presa anche un master pseudo-abilitante alla professione, oggi faccio un lavoro di segreteria pura per vivere. E per di più, quel master pseudo-abilitante, chiusosi anch’esso con un suicidio di un ragazzo di poco più grande, ha ripreso le sue pubblicazioni vendendo a un nuovo nucleo di ragazzi la storia della formazione a un “giornalismo di qualità”.

Ti chiederai, cosa c’entra tutto questo. Possono risponderti economisti e sociologi di ultima generazione, da Trigilia a De Rita e Pizzorno, che, con grande vanto e impegno, hanno enucleato la nozione di “capitale sociale”. Detta altrimenti, non conta cosa conosci ma CHI conosci. Un concetto parafrasato dal fu Ministro Poletti e sue le partite di calcetto.

Così, mentre Feltri frequentava gli ambienti della Milano competitiva, io mi ammazzavo sui libri nelle pause pranzo e durante gli interminabili viaggi in pullman con possibilità azzerate di costruire il mio “capitale sociale” non potendomi permettere di vivere a Napoli. E lo facevo perché a me avevano insegnato che a suon di sacrifici e di studio nella vita prima o poi una strada si apre. Ci ho messo 35 lunghi anni per capire che così non è. Soprattutto in campi come questo.

Temo che una ragazza di 19 anni non abbia avuto il tempo di imparare una simile avvilente lezione e di capire che nella vita non conta (solo) cosa riesci a fare. Conta – forse molto di più – il tuo posizionamento sociale di partenza, la famiglia da cui provieni, gli strumenti che il tuo nido è in grado di darti prima di spiccare il volo, in particolare in termini economici, di consapevolezza del mondo e reti di relazioni. Se sei figlia di immigrati o di proletari onesti, che non ti insegnano il valore della scaltrezza, ma quella del sacrificio, se non sei abbastanza lesto, finisci per soccombere.

Ecco Stefano: dovremmo sovvertire il mondo per insegnare a questi ragazzi il valore più profondo e vero dell’esistenza. Un valore che non si costruisce grazie ai soldi guadagnati con lo spaccio, o la violenza, o la perfezione.

Una volta, ai tempi del movimento no global, dell’antimafia sociale e delle estati spese nei campi di lavoro in giro per l’Italia e il mondo, lo avremmo chiamato “diritto a essere fragili, imperfetti, diversi”. Oggi, malgrado tutta la retorica dei nuovi attivisti social – malati di immagine non meno delle prodigiose studentesse dell’Humanitas o della Statale – questo diritto è sfumato dentro la vita effimera di una storia di Instagram che dura solo per 24, sfuggenti, ore.

La lettera alla comunità di Ateneo del rettore dell’università IULM prof. Gianni Canova, resa nota all’opinione pubblica.

Milano, 2.2.2023

Care studentesse, cari studenti, care colleghe, cari colleghi, care collaboratrici, cari collaboratori,

vi scrivo ancora attonito e sgomento di fronte al tragico gesto di una vostra compagna, una nostra studentessa, che ha deciso di togliersi la vita all’interno dell’Università.
Non ci sono parole di fronte alla morte.
Soprattutto di fronte alla morte di una ragazza di 19 anni, appena entrata in Università, che compie un gesto così estremo e senza ritorno.

C’è un mistero, in un gesto così, c’è una ferita, c’è un dolore così grande, che chiedono solo di essere ascoltati, con rispetto, nel silenzio.

Oggi però sento il bisogno di rivolgermi a tutti voi per farvi sentire la vicinanza mia personale e di tutto l’Ateneo.
Anche se il gesto della ragazza ha motivazioni complesse e difficili da decifrare, la sua morte ha fatto emergere un disagio che non può essere ignorato.

Da Rettore, con l’aiuto dei docenti e del personale tecnico-amministrativo, ho lavorato per fare di IULM un luogo in cui tutti si sentano a casa, capiti e ascoltati.
Dove non siano i voti l’unico criterio di misurazione del valore.
Dove il pensiero critico, l’intelligenza emotiva e relazionale, la creatività, siano valori apprezzati.
Dove tutte le sensibilità siano accolte e dove nessuno debba vergognarsi delle proprie fragilità.

Non c’è riunione del Senato Accademico, delle Facoltà, dei Dipartimenti, del Consiglio di Amministrazione in cui non si ricordi che l’Università deve aiutare gli studenti a credere in sé stessi, dimostrando per prima cosa – giorno dopo giorno – che noi docenti abbiamo fiducia nelle ragazze e nei ragazzi che studiano da noi e con noi.

Siamo consapevoli del difficile momento epocale. Sappiamo come l’esperienza della pandemia e del lockdown hanno fatto crescere in modo esponenziale le fragilità di un’intera generazione. Sappiamo che le richieste di aiuto ai nostri sportelli di counseling psicologico sono negli ultimi mesi più che raddoppiate. Le abbiamo affrontate e le stiamo affrontando.
Continueremo ad ascoltare la voce di chiunque manifesti disagio, anche in sedi e momenti diversi da quelli consueti.

Proprio per questo, come professore ed educatore, mi sento di ribadire che l’Università non può rinunciare alla sua missione primaria, che è quella di sviluppare in tutti l’amore per la conoscenza e per lo studio, con l’impegno di formare ogni studentessa e ogni studente a essere un cittadino responsabile e un professionista preparato. L’Università è un luogo dove apprendere e crescere. E crescere significa imparare ad affrontare la vita e le sue prove.

Ieri, le parole che affioravano dolorose sui social si sono mescolate alle lacrime, lacrime di studenti, di genitori, di professori, di collaboratori. Queste lacrime sono il segno evidente di una comunità che si raccoglie attorno a un lutto terribile e di fronte alla tragedia di una ragazza che non è più tra noi si impegna a riflettere e a ripartire, ritrovando un rinnovato amore per la vita e per la conoscenza.
Faremo il possibile perché l’amore per la vita si torni a respirare in ogni angolo del nostro campus.

Per la prima volta mentre comunico con voi non sono sicuro di aver trovato le parole giuste.
Ma è giusto che in certi momenti anche un Rettore confessi le sue fragilità.

Gianni Canova
Rettore Università IULM

3.2.2023 – Aggiungo volentieri l’opinione espressa questa mattina su FB da Paola Lazzarini, con altro sguardo.

La notizia della ragazza di 19 anni trovata morta nei bagni dello IULM è di quelle che ti spingono a chiudere gli occhi e sederti a strizzarti il cervello. Sarà perché quell’ateneo lo conosco molto bene. Sarà perché la tensione verso la perfezione è un po’ anche nel mio DNA. Sarà perché quando hai una figlia adolescente, la sua felicità fa da calamita a tutti i pensieri e rischi generazionali. Di certo ieri sera lo sconcerto di questa notizia mi ha portato a scriverci sopra con un po’ di cubo grigio sul cuore. Il confine fra aiutare un figlio a costruirsi al meglio il proprio futuro e spingerlo ad alzare sempre l’asticella, almeno per me, è molto labile. Quando finisci di fare il suo bene e rischi di diventare nella sua fragile mente un odioso rullo compressore? E quanto sono invasivi gli inni alla perfezione, i moniti a fare di più, i modelli di vittoria apparecchiati a suon di post e reel? Qual è il confine fra l’essere una guida autorevole ma discreta e l’icona di un pushing insidioso e soffocante? E come arrivano poi questi ragazzi alla soglia del mondo del lavoro? E anche qui i cliché si sprecano: dagli iperstressati già a 24 anni ai super cazzari. Impossibile trovare un passpartout che giri stile “in medio stat Virtus”. L’orizzonte poi si complica ulteriormente se si scivola verso le contraddizioni sistematiche. Sul fronte manageriale, i nuovi modelli di leadership evidenziano sempre di più il diritto all’errore. Le “Fearless Company” sono spesso citate come le organizzazioni più virtuose nel valorizzare le divergenze, nel promuovere un orientamento schietto e aperto, nello spronare ad adottare punti di vista disruptive. Dov’è dunque il punto di rottura fra una preparazione alla vita (professionale ) adulta che sembra spingere verso modelli inarrivabili e benchmark spesso troppo ambiziosi e una letteratura aziendale che, al contrario, invita a imparare dall’errore e tende a trasformare il fallimento in qualcosa di quasi terapeutico?
Una domanda che mi scuote. Non solo da mamma ma anche da osservatrice di una Gen Zeta tanto affascinante quanto misteriosa.

Leave a Reply

Your email address will not be published. Required fields are marked *