Alberto La Volpe, Stefano Rolando, Marcello Sacchetti (Studi di Cinecittà, Roma, 1983)
Convegno promosso da Infocivica
Gli anni ruggenti del TG2
Università La Sapienza, Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale, Roma 23 maggio 2018
Alberto La Volpe – Un giornalista impegnato nelle istituzioni
I
Intervento di Stefano Rolando [1]
Debbo ringraziare Bruno Somalvico e tutti gli amici di Infocivica (oltre a Roberto Amen che ha dato con il suo libro l’idea conduttrice [2]) per avermi invitato a parlare a questo convegno che in altri momenti avrebbe potuto avere un carattere nostalgico e che ora potrebbe invece assumere un senso progettuale, ponendoci cioè la questione di come – in tempi di crisi e nel quadro di discontinuità storiche, normative e soprattutto sociali – da qualche parte serve che si formino segmenti di classi dirigenti che hanno a cuore non l’occupazione delle istituzioni ma soprattutto la riduzione di distanza tra cittadini e istituzioni.
Debbo ringraziare per consentirmi di parlare di un grande amico, come Alberto La Volpe; e di un grande periodo, in cui mi è toccato – forse io tra i più giovani allora di un gruppo dirigente che si andava formando in Rai – svolgere una grande esperienza formativa e professionale che appartiene (tra i cicli importanti e quelli umilianti attorno a cui potremmo scrivere l’intera storia della Rai) ad un punto di verità e di qualità di ciò che si è sempre inteso come segmento della costituzione materiale dell’Italia.
Prendo a riferimento l’anno 1978. Ero in Rai da un anno, a fianco del presidente Paolo Grassi. Un monumento dell’organizzazione culturale italiana del ‘900, rappresentante di un passaggio di orgoglio per la composizione della governance aziendale (a rileggere oggi i nomi di quel CdA – Elena Croce, Volponi, Firpo, Lipari, Cheli, Pedullà, Vacca, Adonnino, eccetera – è legittimo fare pensieri[3]); che aveva un rapporto un po’ strattonato ma gestibile con il partito che lo esprimeva. Era la Rai che doveva fare i conti con la riforma di pochi anni prima rispetto a cui stava saltando il monopolio (senza chiare regole sul come), stava modificandosi profondamente il rapporto tra centro e territorio, stava per giocarsi una partita decisiva tra il compromesso storico e la democrazia dell’alternanza, stava per andare in scena lo show down tra lo stesso Stato e il terrorismo.
Già, il ’78, l’anno del caso Moro. Ma anche l’anno con cui comincia la straordinaria storia dell’ottantaduenne presidente Pertini al Quirinale, il maggior costruttore simbolico di riavvicinamento tra istituzioni e cittadini della storia della Repubblica.
Al settimo piano di viale Mazzini – dove ho avuto stanza per anni – arrivava tutta l’intelligenza professionale di un’azienda (naturalmente non solo quella di un’area politica, ma anzi quella che cercava proprio in Rai il dialogo nelle diversità) che puntava al pluralismo decisionale interno nel quadro di una modernizzazione possibile degli apparati pubblici, istituzionali e di governo. Apparati che da 10 anni – dal ’68 – erano criticati per scarsa efficienza ed efficacia e dovevano trovare la loro riforma. Si diceva di più: “una grande riforma”. La Rai era al tempo stesso metafora e battistrada di questo sentimento civile, in verità trasversale nei gruppi dirigenti. Ma anche il più forte veicolo mediatico e culturale allora in condizione di fare metabolizzare agli italiani tali cambiamenti. Inevitabile che la partita fosse tesa, dura, complessa, a più incognite. Non tutti erano per il cambiamento, non tutti erano pronti ad assecondare la domanda di cambiamento della società italiana.
In quelle tensioni alcuni erano interlocutori frequenti, frequentissimi. Non posso non ricordare qui con l’affetto della memoria figure scomparse di recente come Massimo Fichera o Gigi Mattucci (che gestivano il laboratorio di una tv capace di mutare il perimetro civile del tempo). Ma anche altri, come Albino Longhi per esempio (che arriverà alla segreteria del CdA con la pazienza e la misura di chi si era rivelato non solo uomo di prodotto ma anche facilitatore delle decisioni). Alberto La Volpe era al tempo nel gruppo che aveva in consegna il cantiere di Rai3 e del Tg3 e avvertiva tutta la conflittualità che il progetto del terzo canale produceva. E portava – al confronto quotidiano, snervante, fatto di sperimentazione di prodotto e di metabolizzazione politica – le sue doti umane, relazionali, sdrammatizzate, disposte a punti di equilibrio in cui c’erano gli interessi di parte ma anche tanto presidio agli interessi generali.
Penso a quel ’78 in cui si fondarono le condizioni politiche di un rilancio del riformismo che stava per riprendere forza in un’Italia che si sarebbe a breve liberata dal terrorismo (pur ricordando che ancora nell’81 la follia di una generazione allo sbando avrebbe versato vigliaccamente il sangue di Walter Tobagi); e anche liberata dalla morsa dell’inflazione per assumere protagonismo nella costruzione dell’integrazione europea.
Limito a questi brevissimi spunti la traccia del contesto in cui il gruppo dirigente della Rai cambiava pelle.
Diciamo così, in ritardo sul ’75 (anno della legge di riforma) ma forse troppo in ritardo sulle trasformazioni, non tanto quelle interne ma quelle di sistema. E al centro di quelle di sistema c’era il tema della concorrenza. Che spaccava anche culturalmente il gruppo dirigente e la potenza giornalistica di un’azienda abituata ad essere azionista di maggioranza della agenda degli italiani. Quell’equilibrio non cambiava solo per i socialisti, certo. C’erano spinte diffuse. Ma – sia consentito ricordarlo – un merito lo ebbe chi aveva immaginato un punto di equilibrio più innovativo possibile tra pubblico e privato e tra centro e territorio nel nostro sistema televisivo, sollecitando il pubblico alla modernizzazione e il privato al coraggio imprenditoriale. Parlo di Claudio Martelli che inspiegabilmente quando ha scritto le sue memorie poco tempo fa ha dimenticato questo capitolo così importante della sua vita.
Così una parte di quel gruppo dirigente preparava nuove condizioni culturali e civili che contavano nel fare televisione. Ma sarebbero contate anche per chi avesse voluto, negli anni successivi, mettere a frutto questa esperienza per un servizio più diretto nelle istituzioni.
E vengo con questo spunto al tema che mi è stato assegnato.
Fu quello il percorso che feci io stesso dalla metà degli anni ’80 andando dalla Rai come direttore generale alla Presidenza del Consiglio dei Ministri (ma come era stato difficile uscire con atto di propria volontà da quella azienda, in cui molti altri avevano e avrebbero percorso tutta la loro vita professionale!). E sarà il percorso di tanti giornalisti e dirigenti Rai al tempo, da Ghirelli a Basili, da Longhi a Gawronski. E dai molti che poi ebbero accesso in Parlamento, a Roma e a Bruxelles (da Volcic alla Gruber). E fu il percorso che più in là nel tempo fece anche Alberto La Volpe, l’ex sindaco di Bastia Umbra negli anni ’70, che dal TG3 andò nell’87 a dirigere il TG2 dopo Antonio Ghirelli (molti ne hanno qui parlato), ma che negli anni ’90, quando l’impianto della prima Repubblica stava cedendo, ebbe l’occasione di fare parte della Camera dei Deputati nella XII legislatura, in Commissione Istruzione e poi in Commissione Trasporti ma soprattutto nelle commissioni di inchiesta riguardanti il tema dell’illecito nei rifiuti e la commissione di inchiesta sul terrorismo e le stragi – presieduta dal sen. Giovanni Pellegrino – che in quella legislatura produsse tre relazioni (nella successiva ne produsse otto e l’insieme di quegli atti, tutti in rete, resta di cruciale essenzialità per ogni discussione seria sulle pagine più drammatiche della storia repubblicana). E poi per due volte Alberto fece parte, da non parlamentare, di ambiti di governo come sottosegretario di Stato: ai Beni Culturali (governo a guida Prodi) dal maggio del ’96 all’ottobre del ‘98; e all’Interno (governo a guida D’Alema) dall’ottobre del ‘98 al dicembre del ’99.
Ricorda il sen. Luigi Covatta – che precedette Alberto La Volpe nell’incarico di sottosegretario ai Beni Culturali e lo seguì nell’incarico di direttore di Mondoperaio – che all’attivo di quel suo specifico incarico al Collegio Romano (dove ricordo di averlo anch’io incontrato più di una volta per connessioni istituzionali) che ad Alberto si deve la progettazione e l’attuazione di un Piano per le mediateche soprattutto nel Mezzogiorno d’Italia, in cui veniva aggiornata la funzione di centri culturali polivalenti avviati dalla Cassa del Mezzogiorno attraverso un rilanciato impiego delle nuove tecnologie, piano che determinò la costituzione di cooperative culturali di giovani e che ebbe complessivamente successo.
Nei primi giorni di novembre del ’79 – quasi quaranta fa! – coordinai tre grandi inserti dell’Avanti dedicati a ogni possibile angolo del sistema in cambiamento delle comunicazioni di massa. Fu un atto di forza degli operatori culturali, creativi, del sistema informazione e comunicazione italiano, di orientamento allora socialista, un atto di candidatura politica collettiva alla responsabilità della gestione di quel cambiamento. Cento firme, moltissime delle quali di persone ancora in vita (che significava quindi anche un atto generazionalmente forte). Scriveva dunque Alberto La Volpe nell’imminenza del varo del Tg3, iniziando il suo pezzo ricordando addirittura lo sbarco in Normandia del ’44 quando “tutti i meteorologi sconsigliavano l’operazione mentre nonostante quella ragionata dissuasione si decise ugualmente di passare all’azione”.
Un dettaglio sul clima conflittuale che riguardava quella vicenda, proprio nello scontro tra i socialisti che avrebbero frenato e i democristiani e i comunisti che avrebbero accelerato. Ma il professionista era al tempo stesso obbligato a fare i conti con una realtà in cui si doveva ribaltare un eccesso di accentramento a favore del territorio. Scrivendo: “La provincia della RAI appare invecchiata e frustrata dalla gestione centralistica prussiana più che romana. L’informazione regionale radiofonica è rimasta abbandonata a sé tessa per lungo tempo senza che nessuna delle pur numerose testate esistenti la rivendicasse. Poi è stata adottata la nuova Direzione per l’informazione regionale. Ma molti, come nei brefotrofi, avevano perduto la dimestichezza alla parola o era intervenuto un processo di disadattamento avanzato”.
Insomma tra lo scontro politico e lo spazio di una modernizzazione possibile, il senso del servizio pubblico doveva recuperare il tempo perduto. La battaglia si spostava sul come (dall’efficacia della rete dei trasmettitori alla piena introduzione della produzione elettronica). E chi aveva spirito di servizio pubblico doveva dimostrare di governare meglio un progetto finanziariamente e politicamente pieno di rischi.
Su questi terreni la Rai (come era stato per l’ENI o l’Olivetti nel nostro Paese) ha mostrato con flessibilità e successo che i suoi dirigenti avevano la stoffa per contribuire anche alla tenuta e al miglioramento delle istituzioni.
Ed è sempre su questi terreni – con tutte le trasformazioni che ben conosciamo – che ancora oggi alla Rai bisogna guardare con questo spirito di tenuta e di miglioramento. Lavorando non solo sul terreno strettamente nazionale ma anche su quello europeo e globale. Sapendo che le “battaglie difficili” ci sono sempre state, hanno sempre fatto emergere dirigenti in sintonia con la parte migliore del Paese, molti dei quali lasciano scritto il loro nome nel grande libro degli sconosciuti. Altri no. E facciamo bene a parlarne per contrastare i nomi di chi si è fatto invece conoscere per lo spirito opposto, per la propria sterile vanità.
Post-scriptum. Il vento è quello della modernizzazione?
Rientro a fine convegno quando proprio i telegiornali mostrano il premier incaricato che scende dal taxi per cominciare le sue consultazioni tese alla formazione di un governo da cui dipenderà una parte considerevole di scenario per poter dire se e come il servizio pubblico radiotelevisivo sia destinato a misurarsi in quel contesto europeo e globale in cui, anche per i grandi media e soprattutto per quelli con potenzialità crossmediale, è immaginabile applicare la tesi, di per sé non esecrabile, del “prima gli interessi degli italiani”.
Aggiungo dunque un post-scriptum su un tema su cui il convegno di oggi ha sorvolato, perché malgrado qualche spunto (tra cui la mia battuta finale) la voglia maggiore è stata assorbita dallo sguardo indietro.
Eppure la storia che si è raccontata conta metaforicamente solo se può farci immaginare che il vento del cambiamento deve trovare, come abbiamo cercato di dire, l’interpretazione di professionisti della modernizzazione e non di “esecutori” vincolati alla propaganda per rendere quel vento un motore sprigionante e non frenante.
Arzigogolare oggi sul presidente Conte, che è pressoché sconosciuto, è inutile. Fare qualche riflessione sul programma (che tuttavia non contiene elementi rivelatori sulle politiche per le comunicazioni) può forse avviare discussioni. Sul programma Sabino Cassese (che nel consesso dei giuristi italiani – di cui è parte anche il nuovo premier – è tra i più autorevoli) ferma il giudizio su tre parole preoccupanti: “segnale di un’Italia impaurita, autoritaria, meno moderna”. Carlo Freccero, che ha rappresentato l’opzione di Cinquestelle nella compagine del CdA uscente della Rai, invita a sentire la brezza della rimonta rispetto al tempo perduto, loda la politica che si rifà al linguaggio dei new media che hanno bisogno di una vague politica che li interpreti in modo epocale e loda un potenziale ministro (nella persona di Paolo Savona) decisivo per la Rai, come lo è il ministro dell’Economia, perché “non c’è di meglio di un grande vecchio che voglia esprimersi in una battaglia da adolescente”.
Oggi, diciamo la verità, non abbiamo una risposta al quesito. Ma se c’è una generazione fin qui inespressa nelle file professionali della Rai (e delle professioni di contorno) essa non dovrebbe correre ad infeudarsi per mantenere connessioni con le proprie carriere, ma dovrebbe costruire il suo progetto e rivendicare il diritto di gestirlo, nel clima ancora privo di certezze che si identifica, proprio per coerenza con la cultura del proprio tempo.
Il mondo della “rappresentazione”, tra cui la Rai gioca ancora un ruolo, è quello che tra i primi (diciamo insieme agli imprenditori che si vogliono mettere in gioco) può mettere in discussione le prime tre impressioni che il prof. Cassese propone come segnale d’allarme. Se quelle leve avranno il coraggio della progettazione al posto di quella della raccomandazione e se il nuovo potere politico ne rispetterà l’autonomia, il ciclo dell’attuazione della riforma degli anni ’70, di cui abbiamo parlato oggi, mostrerà la sua vitalità “vichiana”.
[1] Professore di Politiche pubbliche per le comunicazioni all’Università IULM di Milano, già dirigente della RAI e già direttore generale dell’Informazione e dell’Editoria alla Presidenza del Consiglio dei ministri
[2] Roberto Amen, In onda – Visioni e storie di ordinaria tv, Egea,2016.
[3] Su questa storia e su quel periodo, mi sia consentito rimandare al capitolo sulla Televisione (a mia cura) contenuto nella biografia di Paolo Grassi cura di Carlo Fontana e in cui i capitoli sul Teatro e sulla Musica sono stati curati rispettivamente da Alberto Bentoglio e da Paola Merli (Skira, 2011)