Mondoperaio: il significato e la validità attuale di una rivista.

La rivista Mondoperaio (n.2/2023) pubblica nel fascicolo di fine febbraio da poco in distribuzione un mio contributo che ha avuto spunti nella riunione del Comitato direttivo della rivista ad inizio d’anno, per riproporre l’aggiornamento interpretativo della testata stessa, giunta nel 75° anno di vita. Questo l’articolo.

Stefano Rolando

La posta in gioco è di mantenere viva la proposta di una delle ultime riviste di cultura politica di tradizione in Italia che non abbiano abbandonato il carattere editoriale a stampa. Ciò non immaginando possibile avere un futuro senza un parallelo concreto miglioramento del modo di integrare contenuti e formati di carattere digitale.  

Questo obiettivo, dunque, ci sollecita a riportare anche sulle pagine della rivista – e non solo nel dialogo redazionale – il tema del significato e della attualità del nome di questa testata, nata politicamente e culturalmente nell’alba della Repubblica.

Le numerose trasformazioni del nucleo redazionale determinatesi negli anni, spinge chi ha conosciuto anche stagioni diverse (le mie prime collaborazioni risalgono alla fine degli anni ’70 e il primo ingresso in comitato di redazione è del 1980) a farsi carico di qualche argomentazione su un argomento che contiene alcuni paradigmi delle priorità editoriali e comunicative riferite al tempo attuale, in cui tutto appare così cambiato da rendere difficile, dappertutto, percorsi di continuità.

Mondoperaio entra nel 75° anno di vita.

Nel 1948 Pietro Nenni fonda la rivista per coniugare due fattori. Quello di rilievo della politica estera socialista, con il PSI in quel momento contro il Patto Atlantico, che sceglie – tra vincoli e utopie – il “mondo” cioè il neutralismo e la pace contro la guerra fredda. E quello ideologico, allora portante, della sinistra schierata dalla parte della “classe operaia”, argomento che completa in tal senso all’epoca la “visione del mondo”.

Solo un testo enciclopedico conterrebbe tutte le cose da dire per raccontare il contesto evolutivo e trasformativo di tre quarti di un secolo.

Nel 1953, consolidatasi la democrazia senza alternanze possibili nel quadro politico interno ed essendo netta la contrapposizione dei blocchi internazionali, prevale il tema di immaginare un diverso percorso della “ricostruzione”. Cioè legato, a quel punto, a un’idea ripensata dei processi di sviluppo e di emancipazione sociale a cui assicurare un presidio non solo politico ma anche teorico.

E Mondo Operaio, testata allora scritta con due parole separate, assume dichiaratamente, con il preminente ruolo di Raniero Panzieri, il ruolo di rivista teorica del Partito Socialista. Con evidenti riferimenti agli spunti teorici connessi ad una fase ancora politicamente viva della cultura marxista, che pure non era la sola ad animare un ambito politico in cui si stavano rimescolando – qualcosa al tempo, altre in anni successivi – diversi filoni di pensiero (dalla confluenza dell’azionismo all’avvicinamento alla socialdemocrazia di taglio europeo, dall’apertura di dialogo con i cattolici all’influenza liberal-radicale).

A metà degli anni ’50 (anni caratterizzati dalla lacerazione politica nella sinistra causata dall’invasione e dalla repressione sovietica in Ungheria) la rivista – diretta da Francesco De Martino – coinvolge figure politiche e intellettuali che daranno vita a un indirizzo di maggiore autonomia e di revisione socialista. Un indirizzo che caratterizzò la formazione del primo centrosinistra che, nel 1972, porterà alla modifica della stessa testata in cui le due parole distaccate formeranno, con piena crasi lessicale, il logo – restato vivo finora – Mondoperaio.

Si conferma comunque la tensione strategica verso il mondo del lavoro che il partito politico, allora artefice dello Statuto dei lavoratori, esprime con limpida rappresentanza sociale.  E resta una visione della politica delle riforme che ritrova la sua linea strategica nettamente diversa dal massimalismo e dal sovietismo. Ciò proprio nel decennio in cui la critica senza riserve dei paesi comunisti dell’est europeo non ha nessun cedimento rispetto alla necessità di coniugare giustizia e libertà.

L’evoluzione verso la riforma dell’economia, della società e dei diritti civili, della cultura e dell’educazione, nella cornice della riforma dello stesso Stato, caratterizza il lungo periodo della direzione di Federico Coen, tra gli anni ’70 e ’80, che nuovamente raccoglie il raccordo tra politici e intellettuali sotto l’insegna di una testata che risponde ancora pienamente alle cause sociali e politiche che hanno consolidato un riconosciuto ma anche cambiato ruolo. Non aggiungo nomi a questa particolare stagione della storia di Mondoperaio perché – a partire da quello di Norberto Bobbio – siamo di fronte ad una parata di personalità intellettuali (alcune ancora vive e vitali) tra le più significative di tutta la cultura politica repubblicana.

Questo filone proseguirà con la direzione di Luciano Pellicani, affiancando, in particolare, l’esperienza dei socialisti alla guida del governo fino alla crisi del quadro politico della “prima Repubblica”. In cui, grazie alla perseveranza di un nucleo redazionale che perpetua l’autonomia di pensiero e di interpretazione, Mondoperaio ritroverà, pur in una stagione complessa (che comprenderà anche un’esperienza intermedia guidata da Claudio Martelli, una sospensione delle pubblicazioni – che fu parte dello stesso scioglimento del Partito Socialista – e un ritorno alla direzione di Luciano Pellicani), una funzione di raccordo tra la domanda di interpretazione della memoria e la domanda di partecipazione alla profilazione del futuro.

Fino al più recente decennio (2009-2020) in cui la rivista, con la direzione di Luigi Covatta, confermerà una rinnovata attenzione alla centralità del mondo del lavoro, alla salvaguardia della democrazia rappresentativa, all’ispirazione europea, alla cultura metodologica del riformismo, al ritrovato dialogo di culture riformatrici socialiste, cattoliche, liberali e post-comuniste (in fondo nell’accezione che ha accompagnato anche l’evoluzione dei linguaggi che non solo ha visto estendere il concetto di operaio legato alla fabbrica  a funzioni ultra-specializzate, ma ha visto anche omologarsi un perimetro ampio:  dal concetto di operaio della penna e del cervello all’operaio della vigna del Signore, espressione del Vangelo di Matteo divenuta celebre perché assunta addirittura da Papa Ratzinger).

La scomparsa di Luigi Covatta nella prima parte del 2021 ha fatto maturare un rinnovamento della compagine redazionale, guidata dal costituzionalista Cesare Pinelli, che considera onesto e importante riallacciare nuovi rapporti con ambiti sociali che appartengono tanto al quadro di impegni politici ancora mantenuti, quanto al quadro di crisi e disaffezioni rispetto alla politica. Tutti comunque in un contesto dove qualunquismo e populismo sono cresciuti e in cui si è anche verificato il maggiore picco di astensionismo nella storia repubblicana, che raggiunge a fine 2022 i 18 milioni di italiane e italiani che, appunto, non hanno espresso il voto alle elezioni legislative.

Contenitori concettuali simbolici

È dunque necessario tenere ora uno sguardo largo e attento al cambiamento sociale nei confronti della politica. Cercando di non limitare la discussione solo tra “addetti ai lavori” ma individuando sensibilità al problema, nel necessario equilibrio di genere, tra i giovani, tra gli studenti, certo anche con esponenti della politica di tradizione e comunque appartenenti a diverse formazioni politiche esistenti ma con maggiore attenzione anche all’associazionismo sociale e ambientale. E ancora tra i professionisti dell’economia reale e dell’economia sociale e tra esponenti di culture accademiche che sentono la priorità di una pedagogia critica. Insomma, coloro che costituiscono ora una rete potenziale che Mondoperaio dovrebbe considerare doveroso, comunque opportuno, intercettare nella specifica domanda di una comunicazione di cultura politica che saldi tradizioni e trasformazioni e che adatti linguaggi e riferimenti simbolici alle dinamiche del presente.

La questione di esplicitare il valore simbolico e relazionale di ciò che la testata della rivista esprime ha avuto anche qualche scambio di opinione nel corso della riunione di avvio d’anno del comitato direttivo redazionale di Mondoperaio. E da quello spunto, in qualche modo, discende anche il tentativo di ricomporre qui frammenti di opinione che quella riunione ha fatto emergere.

Mondo. La testata resta la radice di uno sguardo globale in cui si vede che la ridotta nazionalistica insorgente da molte parti, ma nettamente anche in Europa e in Italia, si è saldata contro ogni progresso e ogni trasformazione.  Ciò non esprime un adattamento acritico a qualunque aspetto della globalizzazione. Ma accetta la sfida di collocare analisi e letture dei conflitti nel quadro di nessi che l’economia, la tecnologia, la mobilità virtuale e materiale hanno trasformato. Dal momento infatti che quei conflitti, insieme a opportunità e convergenze, sono diventati problemi “interni”.

Operaio. Si conferma poi lo sguardo lanciato in priorità al mondo del lavoro, nel convincimento moderno che fare, progettare, costruire, generare con il lavoro le risorse per vivere e progredire, sia sempre più una filiera ampia di funzioni che si sono trasformate rispetto alla scelta di una classe in conflitto con le altre. E la parola simbolica (operaio) contenuta nell’espressione “mondo del lavoro” esprime anche una condizione non di privilegio ma di capacità, di energia, di talento che va politicamente difesa in tutti i contesti in cui è proprio il privilegio incastonato da norme autoritarie a creare ingiustificate dipendenze o intollerabili disuguaglianze.

Operaio oggi è dignità e diritti nei sistemi di produzione e di servizio. Ed è centralità di chi fa e produce, nel rispetto (che si deve a vita) per chi ha lavorato e prodotto.

Nella formazione della generazione post-industriale la parola operaio mantiene questo carattere fondante l’etica del lavoro e – per fare una sola citazione che tende ad assomigliare allo spirito e alla cultura delle celebri redazioni storiche di Mondoperaio –  l’operaio è parte dell’idea dell’impresa responsabile, attraverso la quale un indimenticato studioso come Luciano Gallino  lesse con adesione l’evoluzione concettuale di un’idea di fabbrica come “comunità di restituzione” e lesse con stigmatizzazione l’imporsi di un capitalismo finanziario che trasformava le retribuzioni tra operai e imprenditori-manager dalle 10 o 20 volte dei tempi di Olivetti alle 300 o 400 volte dell’età della finanziarizzazione. La crisi di questo ciclo e il ripensamento dei modelli di lavoro come tema oggi centrale per recuperare un minimo di nuovo patto generazionale in tutto l’Occidente e certamente in Italia restituisce alla tematica operaia un’opportunità e una modernità che aiutano a conservare elementi simbolici vivi negli ambiti in cui restano vive anche l’analisi e l’elaborazione.

Naturalmente l’approccio contemporaneo alla “centralità del lavoro” ovvero  della “civiltà del lavoro” è legato alla piena percezione e connesso dibattito e confronto intergenerazionale sulla radicale trasformazione sia del ruolo del capitale (processi globali e dinamiche immateriali della produzione di ricchezza), sia della fisionomia della “classe lavoratrice”, con nuove proletarizzazioni in cui precarietà, migrazioni, qualità dell’apprendimento, tutele, modelli organizzativi e nuovi piani prodotti dalla conflittualità in materia di diritti, stanno sostituendo ogni ordine collocato nelle categorie del ‘900.

Nell’intreccio di queste sintetiche proiezioni nella attuale condizione dell’avviato terzo millennio, la redazione di Mondoperaio percepisce di dover rivendicare il senso e il significato di una testata nata per contribuire ad uscire dalle macerie della guerra, dei nazionalismi, delle dittature, della verticalizzazione sociale violenta. E altresì nata per restituire ad un umanesimo “operoso” – dedito, dunque, a opere – il discernimento per sostenere cause di libertà, di giustizia e di equità.

Senza rinunciare anche a rivendicare una storia politica e sociale precisa. Che per più di secolo ha cambiato la qualità sociale del nostro Paese e del mondo intero. E che ha anche riflettuto, con durezza e fatica, per individuare errori e devianze oggetto di grande travaglio e comunque di ricerca che – per le condizioni in cui versa il mondo – non è cosa per nulla esaurita. 

Che tutto questo percorso – singole personalità a confronto con il mutare della storia, dell’economia, delle comunità e delle collettività – sia miracolosamente rimasto a disposizione del presente all’interno di una cultura legittimamente “socialista” (con piena coscienza delle nostre minime dimensioni e del profondo travaglio del presente) non può non far sentire il peso di volere e potere essere parte della discussione sull’identità della cultura politica della sinistra italiana.

Discussione che appare sterile nei luoghi in cui le dimensioni non sono affatto minime e che appare necessaria quando, facendo leva proprio sul tema identitario, una destra che appariva sguarnita, provinciale e nostalgica, ha avuto il consenso degli italiani per guidare il Paese in quella che il pessimismo della ragione (non siamo noi) sta chiamando l’età post-democratica. 

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