Lettere dalla Merica – n.3/2023 – Discorso sullo stato dell’Unione. Quel socialdemocratico di Biden.

President Joe Biden talks about passing an assault weapons band as he delivers the State of the Union address to a joint session of Congress at the U.S. Capitol, Tuesday, Feb. 7, 2023, in Washington. (AP Photo/Jacquelyn Martin, Pool)

Paolo Giacomoni

Il discorso sullo stato dell’unione, pronunciato da Biden il mese scorso, è stato interpretato come un discorso rivolto ai “blue collars” per riportarli nel girone democratico in vista delle elezioni presidenziali dell’anno venturo.

Quest’interpretazione è senz’altro corretta ma è anche estremamente riduzionista.

I settantacinque minuti del discorso di Biden dicono molto di più di quanto molti abbiano voluto tenere a mente, anche e soprattutto per quello che non hanno detto…Settantacinque minuti, tenendo conto delle ripetizioni e delle soste per gli applausi, corrispondono più o meno a venti cartelle dattiloscritte.

Di queste venti cartelle, cinque righe sono state spese per affermare in modo fermo e laconico che Biden opporrà il veto alle proposte dei legge mirate a proibire l’aborto, tre righe per annunciare la legge “bi-partisan” per la difesa del matrimonio (omo ed etero-sessuale) e tre righe per confermare la difesa dei diritti dei diversi.

Questo ammonta a mezza cartella, al 2.5% del discorso sullo stato dell’Unione.

Le altre diciannove cartelle emmezza (97,5%) parlavano di quelle che qui si chiamano “kitchen table issues”, e che nei paesi civili si chiamano “questioni sociali”, perché qui, a trent’anni dal collasso dell’Unione Sovietica, la parola “sociale” fa ancora paura.

Però, perbacco, disoccupazione al minimo, rimborso parziale dei prestiti presi dagli studenti, estensione delle misure per la cura dei bambini, introduzione di una tassa minima del 15% sui guadagni delle grandi società, negoziati con le case farmaceutiche per ridurre il prezzo al consumatore dell’insulina e di altre medicine e vaccini di importanza sociale, investimenti per i lavori pubblici, investimenti per produzione “verde” di elettricità, eccetera eccetera eccetera.

Queste diciannove cartelle emmezza mi hanno fatto pensare che negli ultimi due anni un profondo cambiamento sia avvenuto in seno al Partito Democratico.

Per confermare il mio sospetto, sono andato a risentirmi il discorso di chiusura della campagna elettorale di Hillary Clinton a Filadelfia, il 7 novembre 2016.

 Dei  venti minuti del suo discorso, Hillary ne ha dedicati quattro (il 20%) a fare l’elogio di Obama, quattro (il 20%) alla diatribe con Trump, due  (il 10%) alla storia dell’emigrato mussulmano il cui figlio, ufficiale dell’esercito USA, era caduto in un attentato in Irak; altri due (un altro 10%) alla sua visione dell’America, un’America inclusive, open minded, hopeful, dove c’è posto per tutti i sogni e dove ci sono possibilità per tutte le aspirazioni, senza tuttavia scendere nei dettagli; e altri quattro (il 20%)  all’elenco alla rinfusa dei diritti per cui i nostri padri e nonni si erano battuti: diritti civili, diritto di voto, diritti dei lavoratori, diritti delle donne, diritti dei LGBTQ, diritti degli handicappati, diritti dei native Americans, eccetera.

Con la politica estera a far la Cenerentola del discorso (0%).

Quello che cerco di mettere in evidenza è che, per la prima volta dai tempi di Franklin Roosevelt, un presidente americano fa un discorso socialdemocratico, esponendo in dettaglio i problemi sociali e le tappe percorse per risolverli, e indicando quelle che restano da percorrere.

Tutto ciò è un’indicazione del profondo cambiamento che si è verificato in seno al Partito Democratico, e il malumore dei tenaci “orfani” di Hillary Clinton si manifesta con il basso tasso di approvazione di Biden rilevato dai sondaggi.

Non resta che sperare che ritrovino il loro senno prima del novembre 2024.

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