Visioni e visionari. Chiariamoci le idee – 3 [1]
Stefano Rolando
In conclusione: come orientare il dibattito su “avere visione” a Milano?
Arcipelago ha ritenuto di aprire una discussione sull’attitudine – storica e attuale – della città di Milano di progettare il suo sviluppo secondo “visione” e non solo secondo “adattamenti”. Intendimento che ha configurato questa pur sommaria introduzione al tema, in tre articoli[2], come una cornice definitoria e di metodo.
Ora qualche parola va aggiunta proprio sull’obiettivo del possibile dibattito traendo spunti dalle cose dette. Altre volte mi è capitato di analizzare le discontinuità sostanziali dell’età moderna della città[3], riscontrando che, a differenza di altre città importanti che hanno – per esempio dal primo novecento a oggi – poche fasi nettamente e compiutamente distinte (identità, innovazioni, struttura economica e produttiva, filosofia sociale e del lavoro, urbanistica, luoghi e figure di traino, eccetera), per Milano da Expo 1906 a Expo 2015 si contano almeno dieci di fasi ben distinte. In tutto l’arco di tempo è costante una sostanziale battaglia tra progetti di trasformazione generati dalle classi dirigenti e volontà del destino di disfare quei progetti con accadimenti superiori sconvolgenti. Un conto fu immaginare l’accelerazione tecnologico-industriale positivista che portò ad opere come i trafori di connessione transalpina e quindi addirittura ad ottenere sulla materia dei trafori e dei trasporti l’assegnazione di Expo 1906; un conto fu lo scatenamento della prima guerra mondiale che creò un rischio esplosivo per le relazioni intra-europee a cui seguì il fascismo e, al termine, la distruzione della città a causa dei bombardamenti. Il carattere di Milano è quasi sempre stato analitico, comunitario, reattivo. Ma non sempre i suoi piani si sono imposti, non sempre il vertice dell’Amministrazione è stato al centro delle progettazioni sostanziali, non sempre il patto interclassista del suo sistema decisionale ha funzionato.
Se prendiamo lo scorcio attuale, quello dell’avvio del nuovo secolo, la trasformazione della città appare evidente, conclamata, disvelata. Ma se è vera la teoria che la domanda sociale (gruppi dirigenti con potere designante, in una pratica che chiamerei di “fiuto del futuro”; e cittadini elettori, con potere decidente capaci in buona parte di distinguere propaganda e patti) conta nel determinare le scelte della politica circa gli interpreti di queste fasi di cambiamento, noi oggi leggiamo la diversità delle figure che si sono imposte.
Letizia Moratti appare il sindaco che forse sul piano formale ha più investito sulla progettazione a medio-lungo (una struttura di piano strategico che Milano non aveva, modellata sull’esperienza del “Piano Londra”, struttura poi evaporata) e una forte determinazione sull’acquisizione di un grande evento capace di accelerare il disvelamento dei cambiamenti, anche per equilibrare l’attitudine presentista della sua stessa coalizione. Poi magari è mancata la squadra e quella coalizione aveva esaurito le batterie.
A Giuliano Pisapia è toccato catalizzare la spallata al quadro politico che la stessa borghesia milanese considerava appunto arrivato a ciclo esaurito, così da concentrare il messaggio su rigenerazione, legalità, socialità e civismo. Condizioni che hanno assicurato finora al centrosinistra milanese una forza altrove declinata.
Attorno a Beppe Sala si è configurata una sorta di chiamata ad agire per il consolidamento delle progettualità, ciò che Piero Bassetti, forse il più “visionario” esponente della città, ha chiamato “la priorità del fare”. A quel principio di ingaggio – con elementi delicati e preziosi per il dopo Expo – Sala si è riferito per adattare il modello organizzativo dell’amministrazione e la limitata configurazione dei nuovi piani. Anche se va detto che la mappa del rapporto tra investimenti e spesa corrente, resa nota di recente[4], in cui Milano (e Firenze) surclassano tutte le altre grandi città italiane, è un bel segnale di un modo pragmatico di lavorare per il futuro.
Il nostro dibattito – questa è la mia proposta – dovrebbe così orientarsi a capire (trovando giusti interlocutori) se c’è e come si presenta un nuovo commitment. Se cioè la domanda di amministrazione strategica stia per caso mutando; se il rapporto con la globalizzazione debba entrare in quella fase che Carlo Calenda chiama “necessità di un riequilibrio a nostro favore”; se i conti con le risorse debbano riconfigurare il negoziato esterno della città (appunto per nuove e diverse risorse); se la sollecitazione a nuova imprenditorialità richieda di fissare scadenze simboliche che consentano di avviare adeguati diversi processi formativi; se l’entrata in campo sulla progettazione del futuro di soggetti che non hanno ancora utilizzato tutta la loro potenzialità (penso ad esempio alla rete universitaria) voglia e possa entrare in una fase più decisa. E altre cose di questo genere.
Perché il dibattito ha gran senso oggi? Perché la scomposizione e ricomposizione del quadro politico che sta avvenendo dopo il 4 marzo – in Italia e naturalmente anche a Milano, nel quadro di analogo processo in Europa – è il contesto giusto per ridiscutere ora sul rapporto tra domanda e offerta in ordine ai destini del nostro maggiore patrimonio, quello rappresentato dalle comunità urbane. Soprattutto quelle che sanno amministrare competitivamente il proprio futuro.