Nicola Macchitella – Per mio padre (Tempio egizio al Verano, Roma, 11.3.2023)

Al termine della cerimonia, ultimo congedo. Nicola abbraccia la madre Dianora, la zia, poco più avanti accanto al feretro la sorella Giulia con la sciarpa viola, attorno amici, parenti, colleghi, Chiara e la piccola Gabriella.

H. 14.30  

15 anni fa, quando è morto mio nonno, lessi un piccolo elogio al suo funerale.

Era lungo una paginetta e scritto durante il viaggio in treno per andare a Firenze.

Pochi giorni dopo il funerale, papà mi chiamò e mi chiese se potessimo vederci per pranzo. Il giorno stesso se possibile. Perché doveva parlarmi.

Chi ha avuto occasione di pranzare con mio padre avrà probabilmente presente quel piccolo tic che aveva di maneggiare i pezzi di pane sino a trasformarli in piccole palline di mollica. Un suo modo di scaricare lo stress.

Quel giorno a pranzo, quando arrivai al ristorante, lo trovai seduto con abbastanza mollica da aprire un negozio di esche da pesca. Era molto teso.

Non feci neanche in tempo a sedermi che subito mi disse: “Nicola, ti devo chiedere di farmi una promessa”. Aveva quella faccia mezza sorridente mezza seria che faceva sempre quando doveva parlare di qualcosa che lo emozionava ma per cui voleva anche apparire solenne. Fondamentalmente da melodrammatico.

Mi disse: “ho letto il discorso che hai scritto per il nonno. Mi è piaciuto molto e vorrei che mi facessi una promessa. Vorrei che al mio funerale scrivessi qualcosa per me.”

Oggi preferirei tanto che quel pranzo fosse stato incentrato sulle mie insufficienze in chimica o sul fatto che mi facevo le canne. Ma paghiamo debito.

Comincerei col dire che, come mio padre, anche io non sono un grande fan dei funerali. Ho sempre l’impressione che siano troppo silenziosi, troppo raccolti, troppo solenni. Come se la morte non fosse già abbastanza solenne e silenziosa di suo ed avessimo bisogno di aggiungerci sopra.

Per quanto difficile a farsi, penso che i funerali siano fondamentalmente delle feste e che dovrebbero essere vissuti come tali. La gravitas e il silenzio avranno modo di venirci a trovare nella solitudine delle notti che verranno.

In fin dei conti, le uniche altre volte che tutti noi ci siamo forse ritrovati assieme è stato per compleanni importanti, matrimoni, anniversari…tutte occasioni felici. Dato il settore in cui ha lavorato papà, vorrei forse anzi spingermi oltre e permettermi una smielata analogia. Un funerale non è che la festa di fine lavorazione di un film, o di una vita in questo caso…motivo per cui ho pensato fosse appropriato affrontare la questione del discorso provando ad immaginare che film abbiamo appena finito di vedere.

Dato il personaggio, direi che il film di papa e’ un grande affresco storico sull’Italia del dopo-guerra, intrecciato ad un’epica storia di sopravvivenza.

A lui avrebbe probabilmente fatto piacere che nominassi Via col Vento, ma onestamente io penso che Forrest Gump sia più appropriato.

Vittima di una malformazione cardiaca denominata tetralogia di fallot, nel Capodanno del 1952 mio padre è venuto al mondo sotto stelle poco fortunate e si è seduto al tavolo della vita con una mano abbastanza scadente. Completamente blu alla nascita, i medici gli diedero un’aspettativa di vita di credo 12 anni.

Ma più dell’aspettativa, è la prospettiva di vita ad essere magra per lui. A mio padre viene infatti vietato qualsiasi tipo di sforzo, pena il rischio di un arresto cardiaco.

E per nessun tipo di sforzo si intende davvero nessuno sforzo. Neanche le scale di casa, o una corretta per l’autobus che parte. Per i primi 20 anni della sua vita, mio padre ha vissuto in uno stato di quasi totale stasi, pietrificato all’idea che anche solo un breve momento di eccitazione avrebbe potuto essere l’ultimo.

Una volta mi raccontò che da ragazzo, uno dei suoi piaceri era andare al parco, sedersi sulla panchina, e fare l’arbitro per i suoi compagni che giocavano a calcio. Non proprio un immagine rasserenante.

Una cosa particolarmente interessante se messa in relazione alla pigrizia incredibile che lo ha accompagnato strada facendo. Quando si passa un’intera giovinezza seduto su una panchina a guardare amici e colleghi correre, ballare e innamorarsi, pensando che anche solo l’idea di unirsi a loro potrebbe essere troppo per il tuo cuore, la pigrizia non e’ un vizio, e’ un istinto di sopravvivenza.

Quasi paralizzato nel corpo, mio padre ha scelto la narrativa come porta sul mondo. Mi raccontava che da ragazzo uno dei suoi passatempi quando l’estate andava giu’ a Mola, era di sfidarsi con i cugini a chi avrebbe letto più libri più rapidamente. Una sfida ovviamente assolutamente impari.

Con queste premesse, mi verrebbe quindi da dire che il primo atto di mio padre si apre in una Firenze del dopo-guerra, fredda e malinconica;

Mi immagino un cupo pomeriggio del 31 dicembre, in un piccolo parco di Firenze dove un gruppo di bambini sta facendo i botti di Capodanno sotto l’attenta supervisione di mamme e papà.  È una giornata uggiosa e una cortina di nebbia avvolge tutta Firenze. Si fa fatica a vedere a pochi metri dal proprio naso.

Separato dal gruppo, seduto su una panchina, un bambino sembra divertirsi nel vedere il suo fiato trasformarsi in una piccola nuvoletta bianca quando lascia la sua bocca. Ha 8 anni e di lì a poche ore sarà il suo compleanno. Ma nessuno sembra saperlo.  Intorno a lui, si percepisce malinconia, molti se non tutti pensano che quello sarà l’ultimo inverno per lui. Ma lui sembra non curarsene, troppo intento a fissare quel muro bianco e a domandarsi scherzoso se, ad ogni suo respiro, non si stia facendo più grande o più piccolo. Sembra felice. Estremamente Felice. Nel sottofondo, una voce sinistra sembra chiamarlo, ma lui non se ne cura.

Al momento di andar via, la mamma incuriosita gli chiede cosa stia facendo, cosa stia fissando. Nulla risponde lui, convinto che sarebbe troppo difficile spiegare come quel muro bianco per lui non è che il posto perfetto per proiettare le sue fantasie ad occhi aperti. E’ un inizio nostalgico, insomma.

Il secondo atto invece, avrebbe tutt’altro sapore, un sapore di rivincita. Sono passati 15 anni da quel 31 dicembre, e’ una calda giornata d’estate e ci troviamo a Huston, Texas. Sdraiato su un lettino d’ospedale, mio padre si prepara per l’estremamente sperimentale operazione a cuore aperto per cui è volato negli Stati Uniti all’età di circa 20 anni. Insieme a lui, mio nonno e suo fratello, detto IL ZIO. E il 1970.

Nella stanza si percepisce una forte tensione. Di lì a poche ore mio padre potrebbe non esserci più e mio nonno ha i mancamenti all’idea di dover tornare a casa e raccontare alla nonna che papà non ce l’ha fatta. Per quello è venuto IL ZIO. Per quello, e perché in quanto patriarca della famiglia, è lui ad essersi preso l’incarico di pagare le cure per provare a salvare il nipote

Ma c’è anche molta felicità mista ad una tragi-comica goffaggine nell’aria. Nessuno dei tre parla l’inglese, e per due signori nati all’inizio del ‘900 in un piccolo paesino pugliese ed un bambino che al massimo aveva visto un parco, il Texas è un mondo semplicemente alieno. Ogni cosa è una sorpresa, un esotismo. Anche papà, che di lì a poco dovrà affrontare la morte a cuore aperto, non riesce a non stupirsi e meravigliarsi per quest’ incredibile viaggio che stanno facendo. Firenze – Houston.

Il saluto prima dell’operazione è straziante. Le vuote parole servono a poco, ci vediamo dopo, andrà tutto bene… è un segreto di pulcinella. Non serve parlare inglese per leggere negli occhi delle infermiere e dei medici che le possibilità di sopravvivenza sono scarse.

Come un condannato a morte che si avvicina alla gogna, mio padre si avvicina alla sala operatoria consapevole che, probabilmente, non ci sarà un secondo tempo per lui. Ma a differenza di un condannato, si avvicina volontario. Sdraiato sul lettino mobile, fissa il susseguirsi delle lampade al neon sul soffitto mentre, in un sottofondo ovattato, continua a sentire una voce sinistra chiamarlo. E lui continua a ignorarla.

Chi ha conosciuto mio padre sa che per lui la paura della morte è sempre stata fortissima. E per tutta la sua vita mi verrebbe da dire che questa paura è stata dominante sulle sue scelte. Per questo quando penso a quei giorni in Texas, ho difficoltà ad immaginarlo.

Eppure, a soli 20 anni, quando la morte è andata a bussargli alla porta, mio padre ha preso tutto il coraggio che aveva e si è andato a guadagnare altri 50 anni di vita. A muso duro, tutti in un giorno, tutti in un momento.

Ricordando il risveglio dopo l’operazione, papà raccontava sempre: mi sembrava di vivere un sogno, ero vivo e con una vita davanti.  

Il resto del secondo atto e gran parte del terzo sono forse gli anni di cui molti di voi sanno più di me. Un grande viaggio negli stati uniti per gridare al mondo che c’era anche lui, l’Italia degli anni 70, la carriera in università, il concorso in RAI, il crollo della cortina di ferro, Rai 2, gli anni 2000, i libri, Rai Cinema e 01, la delusione e l’addio alla RAI, la rivincita come produttore, Mompracem….e poi 3 matrimoni, 3 figli e tanti tanti affetti raccolti per la via.

Eros e Thanos, o nel caso di papà, Oniros e Thanos direi. Sogno e Morte.

Da un lato, la paura letta sin da bambino negli occhi dei medici e dei familiari che lo guardavano con tenerezza, la precarietà sentita sin dentro le ossa quando si emozionava troppo, la nebbia.

Dall’altro lato, l’onirico, l’incredibile che diventa realtà tutto ad un tratto, risvegliarsi da un incontro con la morte e vedere la felicità più pura negli occhi di tuo padre e del ZIO, la commozione di poter finalmente fare tutte le cose che, senza troppa convinzione, ti eri promesso di fare.

Sogno e Morte.

In queste ultime ore ho pensato spesso a quanto rapidamente sia successo tutto quanto. Non si può negare che mio padre avrebbe voluto morire così, rapidamente, nel sonno. Ma credo che neanche lui si aspettasse che succedesse adesso.

Il nonno Nicola è vissuto sino a 99 anni. Nessuno si aspettava papà potesse arrivare a tanto, ma credo che altri 10 anni ce li aspettavamo tutti.

Rimane quindi un senso di ingiustizia e incomprensione su cosa sia successo.

Tutt’ora sembra quasi che la situazione non sia definitiva, che si possa ancora aggiustare. Ironicamente, il tutto sembra essere un sogno.

Un brutto sogno, ma pur sempre un sogno.

Nello scrivere questo discorso quindi, oltre al procrastinare il momento in cui dovrò salutare mio padre, ho cercato di trovare il modo per sciacquarmi questo sapore amaro che mi ritrovo in bocca.

Di trovare un’immagine finale per svegliarmi dall’incubo.

La versione per bambini vorrebbe un papà che sveglia dall’altro lato, accolto, per l’ennesima volta, dal nonno e dal ZIO. Una bella immagine, forse vera, ma troppo semplice per oggi.

Ho deciso di optare quindi per finale più autoreferenziale ed egoista, una cosa da melodrammatico come piacerebbe a lui. Immagino di trovarmi in quel ristorante di 15 anni fa, di sedermi a tavola con papà, questa volta senza molliche di pane.

C’è silenzio, papà fissa avanti e appena prima che lo schermo si faccia nero, poggio questo discorso sul tavolo e sussurro, spero vada bene.

Ciao papà.

Leave a Reply

Your email address will not be published. Required fields are marked *