Pubblicato sul magazine online Il Mondo Nuovo, rubrica “Il biglietto da visita” domenica 7 maggio 2023
Stefano Rolando
Ci risiamo.
Ogni volta che c’è un cambiamento rilevante nel nostro Paese (abbiate pazienza, io questa parola non la butto via, anche se so cosa vuol dire “Nazione” e quando serve – cioè quando sono molto implicate le istituzioni – la uso; altre volte quando si parla più di società, cioè quando si tratta della gente, preferisco usare la parola “Paese”), dunque quando c’è un cambiamento si capisce che la prima distinzione non è tanto tra destra o sinistra, neppure tra nord e sud, nemmeno direi tra uomo e donna. La prima distinzione è tra ottimisti e pessimisti.
“No, questa cosa non mi convince. È tutto sbagliato. Tutto da rifare!”. Vi ricordate chi lo diceva tanti anni fa? Il grande campione di ciclismo che era Gino Bartali. E tutti a sorridere. Perché era lui, perché parlava con il suo toscano bonario. Perché era un ritornello.
A dire la verità, una volta va bene, due volte ci sta. Ma che ogni volta sia “ tutto da rifare”…, beh.. il problema è forse anche un po’ tuo, vedi sempre il bicchiere mezzo vuoto, per definizione, insomma non ti va bene mai niente.
E l’altro…”Non sopporto i nichilisti, i disfattisti, i gufi. Non facciamoci male con le nostre mani, con le nostre opinioni, con il nostro NO pregiudiziale”.
A un certo punto qualcuno si spinse più avanti, inventò il tafazzismo – credo sia stato Giacomo Poretti, del trio Aldo, Giovanni e Giacomo, la prima volta nella trasmissione «Mai dire Gol» nel 1995 – in cui Tafazzi era un personaggio della commedia televisiva che si faceva del male picchiandosi con autolesionismo proprio lì, in quei posti…Ottimisti a oltranza perché vedono Tafazzi dappertutto.
Ebbene queste due tipologie di italiani sono veramente la maschera di un paese duale, bipolare, emotivo più che razionale (lo diceva sempre Norberto Bobbio).
In fondo l’uno specchio dell’infantilismo che vede l’eternità davanti a sé e tutto il mondo che gli fa carezze; l’altro specchio di un declino, in cui tutto era meglio una volta, in cui ora non c’è più religione, in cui persino le mezze stagioni non ci sono più, in cui “non mi ci ritrovo”, eccetera, eccetera.
Veniamo ora ad un terreno di rappresentazione di cui qui parliamo spesso, la politica.
Qui questa polarizzazione significa anche che chi governa suona sempre la tromba per negare non dico la pioggia ma anche il passaggio delle nuvole.
Mentre chi sta all’opposizione vede il cielo minaccioso anche a Ferragosto, esce di casa con l’ombrello anche quando il cielo è terso, dice che i segni zodiacali sono sempre di traverso perché la filosofia del pessimista è contro l’idea stessa di governare, “piove governo ladro”.
Salvo le varie occasioni in cui queste categorie sono impiegate con ragionevole prudenza, ogni uso fanatico mostra due forme di propagandismo. Come se sopravvivesse in chi è paladino di una delle due polarità una sorta di ideologia primitiva, diciamo una radicalizzazione emotiva che frequentemente solo il lettino dello psicoanalista potrebbe spiegare meglio.
Ma quando queste radicalizzazioni diventano opinione vasta e condivisa, cioè dinamica collettiva, esse costituiscono le sponde di un fiume che nessun ponte potrà mai riunire. La sponda dell’ottimismo di maniera e la sponda del pessimismo per eterna colpa degli altri.
In politica e nella discussione politica le due cose sono frequenti. Tanto che Winston Churchill, conservatore sì ma che sapeva percepire gli umori di un popolo, diceva che “l’ottimista vede opportunità in ogni pericolo, il pessimista vede pericolo in ogni opportunità”. Lui credo propendesse per l’ottimismo ben informato, ma in realtà i due comportamenti presentavano e presentano un alto tasso di rischio.
È evidente che l’uso ponderato e ragionevole di questi due sentimenti, per meglio dire “sguardi verso le cose”, è legittimo e talvolta necessario.
In questione è l’apriori incondizionato, il far prevalere sempre lo sguardo e non l’analisi della realtà. Non è un caso se a questo tema è dedicato il libro più famoso di critica a questo apriori, ossia Candide, pubblicato in mezza Europa nell’età appunto dei “lumi”, a metà Settecento, scritto da Voltaire tra allusione ideologica e illusione narrativa.

Credo che ci siamo capiti. Sto parlando dei tratti radicalizzati che provengono da una perdita sostanziale di analisi, di eccesso di povertà critica e interpretativa, di mancanza di cultura dei nessi tra storia e presente. Per cui molte apparenze si dovrebbero spiegare cercando il necessario filo di complessità che c’è sempre nelle cose, rispetto alla stereotipo del “te la spiego io la verità” che è la bandiera di ogni dietrologia, soprattutto quando è semplicemente figlia del passaparola nei bar.
Non voglio offendere nessuna categoria professionale o sociale. Ma gli sfoghi assertivi che si sentono nei taxi o dal barbiere o che si leggono spesso sui social più ruvidi, fanno colore quando sono casuali, inquietano quando fanno tappezzeria sociale abituale.
Voglio dire che il tema del baricentro critico dell’opinione pubblica diventa sempre più delicato. Inteso come il fattore che fa la differenza rispetto a molte cose:
- la non spiegazione da parte delle istituzioni e della politica;
- la marginalizzazione della lettura di libri e della stampa interpretativa;
- l’affermazione del pugilato digitale a colpi di tweet che ti impegnano per due secondi di lettura e poi chi si è visto si è visto.
E voglio anche chiarire subito che questa tiritera non vuole essere l’apologia del centro.
Il centro può contenere anche una certa moderazione, una certa assennatezza, una certa prudenza di giudizio di chi parla quando è informato, altrimenti ascolta. Ma dopo aver visto un centro spesso convulso e animato soprattutto da ansia di posizionamento, viene da dire quanto questo centro rischi nel modello italiano di apparire come ambito di opportunismo.
Si può insomma essere di sinistra o di destra (e ovviamente anche di centro) con una testa pensante o con un rifiuto preventivo a ripetere pregiudizi.
Dunque, il problema è quello della qualità della politica e del modello di discussione sociale in cui c’è la politica, ci sono i media, ci sono gli stimoli culturali. Ma c’è anche – sui grandi numeri – la scuola, la famiglie, le tradizioni, i buoni e i cattivi esempi, il grado di civismo e lo stimolo (che c’è o non c’è) al continuo apprendimento.
È doveroso che io dica che queste riflessioni sono anche generate dal mutamento di clima politico dell’Italia.
La cifra del dibattito pubblico sta infatti visibilmente cambiando paradigmi.
Sta passando cioè da un ciclo populista che per alcuni anni ci ha spiegato – nelle piazze, in tv, sui social – che andava tutto male, che era tutto marcio, che erano tutti da galera (naturalmente gli altri); ad un ciclo (che ha caratteri mondiali) del nazionalismo primatista in cui la santificazione della Nazione (la propria) obbliga o per lo meno induce a dire che va tutto bene; che lo SWOT che si usa in qualunque trattamento economico è abolito (perché contiene anche i punti di debolezza); che non si risponde più alle domande dei giornalisti mandando piuttosto video preregistrati; che la competizione (che dovrebbe essere sulle performances) avviene sul litigio a scopo elettoralistico (naturalmente con altre forme di primatismo nazionale) e che – e questa è per me la peggior cosa – la verità statistica è ammessa solo se ti dà ragione.
Ecco perché la metafora dell’ottimismo e del pessimismo apriori ci porta sempre fuori strada.
Perché ci toglie soprattutto la responsabilità della conoscenza. La comprovazione scientifica. La voglia di conoscere l’opinione altrui, anche quando dissente, prima di parlare.
Si dirà che il modello educativo dovrebbe essere questo per definizione in una democrazia.
Domando se questa sia ancora una preoccupazione in Italia. Me lo chiedo sempre più spesso.
Esso riguarda la scuola e l’università. Ma deve fare i conti con le trasformazioni in atto sia della domanda che dell’offerta. E qui dobbiamo dirci la verità.
La domanda (ce lo spiega una recente indagine dell’Università di Oxford) è dominata dall’assunto che da alcuni anni i giovani sono al punto più basso della capacità di distinguere il vero dal falso.
E l’offerta – parlo anche per aver vissuto una trentina d’anni nelle università – è profilata da una tendenza della formazione e della didattica a far crescere la spiegazione di tecniche del fare rispetto alle ragioni e alle cause dei processi.
Gli “assunti di base” (un paradigma di molte discipline) erano in realtà fondati una volta nel campo della politica sulle ideologie. Poi le ideologie (diventate scomode) sono state archiviate.
E adesso gli “assunti di base” sono passati dall’ambito della filosofia (qualche volta del diritto) a quello delle condizioni psicologiche, radicalizzando due tipologie che sono cresciute nel protagonismo del fare politica e del discutere di politica: la depressione e l’euforia.
Vero è che la destra ora al governo in Italia punta a recuperare una certa quota di ideologia, che per altro non ha mai abbandonato. Curiosamente ciò spiazza la sinistra che dall’ideologia è scappata a gambe levate.
Per questo il dibattito è asimmetrico.
E finché non si saranno recuperate piattaforme culturali e identitarie adeguate al nostro tempo (non rimasticature nostalgiche) noi assisteremo a scontri di linguaggi diversi.
Che quindi lasceranno in campo ancora un eccesso di superficialità, appunto le vaghezze assertive dei pessimisti e degli ottimisti a oltranza.
In fondo, a ben vedere, entrambi “conformisti”, cioè con il pensiero di chi si adegua sempre.
Abbiamo parlato spesso di necessità di rigenerazione della politica.
Questi argomenti – non solo quelli del posizionamento e delle alleanze – mi parrebbero più che mai degni di una certa agenda.
