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Stefano Rolando

C’è stato un passaggio dell’intervento di Romano Prodi svolto ieri, sabato 22 luglio, alla convention in Romagna promossa da Stefano Bonaccini, che ha dato il titolo a questa sua applaudita partecipazione e che dà anche il titolo oggi all’agenda della politica italiana che agisce consapevole che la crisi – addirittura emergenziale – che ha riguardato i partiti politici rappresentati negli ultimi anni presenta ancora tratti irrisolti. Il passaggio è il seguente:
“Abbiamo avuto continui compromessi, il compromesso va bene ma quando ci sono solo compromessi si sfascia l’anima del Paese. Abbiamo smesso di riflettere sull’idea di Paese che vogliamo costruire. Non sono contrario alle alleanze ma fondate sull’idea condivisa dell’Italia e del futuro. Populismo non è evento occasionale ma è il rifugio di un popolo che non trova casa, e devo dire che non lo ha trovata neppure nel Pd. Questo deve obbligarci a costruire un rapporto, per costruire la casa degli italiani. Penso come voi che il Pd sia l’unico partito in grado di indicare progetti e percorsi per la gente e non solo alla convenienza del momento”.
Non so se il PD sia l’unico soggetto “in grado” di fare progetti “per la gente”. Certo resta l’unico soggetto che esprima voto popolare e voto borghese con rappresentanza sociale diffusa del territorio e con connessioni europee forti, nel quadro di una rappresentanza che tende ancora a chiamarsi di “centrosinistra”. Dunque gravato da alte responsabilità rispetto alle poste in gioco del 2024.
Romano Prodi tanti anni fa, forse ai tempi in cui era presidente dell’IRI, mi fece l’onore di una presentazione di un libro sulla “pubblicità dello Stato” (al tempo in sommovimento normativo ed esperienziale), dicendo, credo in forma apprezzante, queste parole: “Stefano ha questa caratteristica, cerca le tradizioni e se non le trova è disposto a inventarle”. Lo ricordo perché magari il cenno conteneva anche qualche ironia. Ma nel tempo ho imparato a verificare che anche lui è della stessa pasta. Apre il suo contributo a Cesena – con il conforto (anche personale dopo la dolorosa scomparsa di Flavia) di una vera e propria ovazione – ricordando che senza le radici di Camaldoli e di Ventotene non ci sarebbe stata la nascita del PD. Ma poi ricorda a sé e a tutti che la politica non è arte del presente. Proprio perché sa riconoscere radici, essa è necessariamente rivolta al futuro. Dunque senza “una idea condivisa del futuro” non c’è nemmeno legittimità della politica.
L’intero schieramento della politica italiana non è esente dalle conseguenze di questa riflessione.
E anche il centro-destra che finora ha usato l’espressione “identità” più per disporre di basi storiche finalizzate a promuovere la sua forse inaspettata condizione egemonica di governo, deve fare i conti con la costruzione di un piano coerente e non fasullo circa il futuro. Siamo ancora nelle oscillazioni da quelle parti. Un giorno immaginano nuove alleanze europee, un altro giorno accarezzano i nazionalismi di Visegrad.
E così è per il PD. O si riprende la trama delle conseguenze di alcune radici (e il senso della caratterizzazione politica della convention di Cesena è che tra quelle radici andrebbe anche ricordato a lettere maiuscole il ritrovato senso del “riformismo italiano”) oppure da quel partito ci aspettiamo un giorno il corteggiamento dei 5Stelle, l’altro giorno il “campo largo”, il terzo giorno ancora il patto con Landini e il quarto il movimentismo generazionale per riavere diritto di abitare ciò che Millenial e Generazione X considerano essere oggi “la sinistra”. Un’idea del futuro dell’Italia (e dell’Europa) nutrita di letture della storia, della società, dell’economia che rendano il dibattito sulla globalizzazione meno stereotipato di quello che è. E il dibattito sulla sostenibilità meno retorico di quello che – fuori dai contesti scientifici – appare essere, soprattutto in Italia.
La citazione di Romano Prodi non è tenera per l’evoluzione del PD nella palude della Seconda Repubblica. Ma per la formazione della sua generazione è evidente che il tema sottostante è quello della “classe dirigente”. Guarda caso lo stesso problema che, in cima alle crucialità, deve affrontare Giorgia Meloni. E qui i percorsi formativi e le forme di accesso al “fare politica” restano un caso di studio per cambiare, culturalmente e metodologicamente, la qualità del reclutamento.
Altrimenti “l’idea di futuro” resterà solo – con l’evidente parzialità di esiti per l’Italia – nelle mani delle business school.