La cultura industriale e civica di una classe dirigente.

Giuliano Zuccoli – l’ingegnere che guidò la trasformazione della AEM in A2A – nel libro di memoria e devozione di Biagio Longo.

Stefano Rolando

23.7.2023 – Il libro che Biagio Longo ha dedicato alla figura di Giuliano Zuccoli (GZ – L’energia che ci manca, prefazione di Giuseppe Sala, intervento di Gabriele Albertini, Ed. Guerini e Associati, pag. 344, giugno 2023) è voluminoso, denso, narrativo, affettivo.

Avvolge una storia personale (1943-2012) in tre grandi storie che potrebbero andare tutte per loro conto:

  • la storia dell’autonomia energetica italiana (che offre il destro per il sottotitolo);
  • la storia della classe dirigente lombarda (che riguarda proiezioni nazionali del livello di Vanoni piuttosto che di Saraceno,  ma che riguarda anche la tela di valorizzazione dei talenti che Milano ha esercitato nel ‘900 rispetto alla Lombardia profonda);
  • la storia del sistema-Milano fatto dal Comune e dall’evoluzione delle sue municipalizzate (che altro diventeranno nel tempo)  in cui l’accento può passare dal carattere pubblico al carattere privatizzato, ma resta immutata la dimensione identitaria del servizio pubblico, l’efficienza organizzativa e finanziaria che connota i brand e la dimensione profondamente industriale nella quale la storia degli ingegneri del Politecnico si salda con la storia della cultura tecnologica che avvolge il riformismo turatiano in tutto il Novecento).

Ritrovando pagina per pagina questi tre veri e propri romanzi delle nostre radici recenti, ho letto questo libro di corsa, in una domenica grigia e afosa di luglio, con i milanesi in fuga per le loro antiche destinazioni liguri (ma qualcuno anche per più strategiche destinazioni valtellinesi, argomento che fa parte del secondo girone delle “storie” raccolte da Biagio nel suo talismano zuccolesco).

Non ho ancora affrontato l’ultima parte – quella dei suoi discorsi e delle lettere agli azionisti, che riempiono un terzo del volume – perché la retorica pubblica è la mia specialità e temo che la retorica degli ingegneri mi deluderebbe un po’ (lo dice lo stesso Biagio che Zuccoli era uomo del fare e non del dire). E perché temo sempre che i vincoli dei parlare nei consigli di amministrazione e non nei comizi di piazza freni il vocabolario e quindi sottometta le parole ai numeri.

Ma penso che alla fine leggerò anche questa parte del libro in omaggio alla cultura dei ragionieri che ha fatto grande Milano (ossatura della cultura della mia famiglia paterna) e che quindi permette di pensare che anche una chiosa di bilancio può diventare il frammento di un’epopea.

Ho conosciuto l’ing. Zuccoli quando la sua fama era già compiuta.

I milanesi ariosi si riconoscono al volo per un’apparente ruvidità, una sostanziale franchezza, la capacità di conservare una gerarchia tra la natura (la Lombardia) e i marciapiedi (Milano).

Gerarchia che il milanese puro non prende nemmeno in considerazione (mio padre, nato dietro Porta Vittoria, attraversava quotidianamente le brume per raggiungere le aziende distribuite a raggio in due altre province, ma credo che uniformasse alla vista e nel giudizio gli alberi ai pali della luce).

In questo libro ci sono tutte le informazioni che completano i giudizi sommari di quella conoscenza, trovandoci anche risposte a quesiti importanti:

  • sui percorsi formativi;
  • sul rapporto “leggero” tra la competenza tecnica e la politica;  
  • sul significato che l’espressione di “patrimonio simbolico” – che uso spesso per definire un brand urbano – ha, a Milano, un perimetro diverso rispetto a quasi tutte le altre belle e grandi città italiane.

Sorge spontanea una domanda. Se una generazione di tecnici di quel livello, di quella passione per le grandi cause che stanno di fronte ai destini delle loro aziende (parliamo in questo caso della autonomia energetica dell’Italia!), per il rapporto teso con il loro azionista fatto di dialogo vero e ciascuno con la sua competenza, insomma tutto ciò che appassiona la lettura storica del passato prossimo in cui c’è anche la nostra vita (lui cinque anni più di me, io al liceo quando lui varcava la soglia del Poli), se, appunto, tutto ciò esiste ancora.

Mirabile in proposito, anche per alcune cose che non condivido del tutto, il racconto-intervista che fa nel libro Gabriele Albertini.

Beppe Sala nella prefazione parla del manager (che era in squadra con lui in A2A, uno come ad, l’altro vicepresidente) come “figura di portata storica”.

E infatti la scrittura di Biagio non si sogna nemmeno di fare il verso agli ingegneri, meno che mai ai bocconiani. Racconta delle storie.

Le colora con la devozione dell’ex-collaboratore che torna sulle carte quando la vita non ti dà più le risposte in diretta.

Ma con il grande pregio di farti credere in copertina che si tratti della storia di un montanaro che scala il potere come una montagna. Mentre alla fine questa è la storia di una trama corale, appunto, di una classe dirigente che non ha bisogno che si riscopra oggi cosa vuol dire “l’interesse nazionale”, essendo quello il pensiero di una bella generazione che applicava quel valore giorno per giorno alla sua Morbegno, alla sua Lombardia, alla sua capitale industriale, a tutta l’Italia.

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