
Una delle tante proteste in USA contro il decreto di anticostituzionalità dell’Affirmative Act.
Paolo Giacomoni
Il mese scorso la Corte Suprema ha decretato che l’Affirmative Action è anticostituzionale. Non ci sono state le levate di scudi che si potevano aspettare.
L’Affirmative Action, in sé, è un codice morale che tende a far partecipare tutti i cittadini alla vita economica e intellettuale del paese, aiutando quando è possibile i cittadini meno favoriti dalla sorte, e quindi economicamente o socialmente svantaggiati, come gli indiani d’America, i neri, gli immigranti asiatici, le donne, eccetera.
L’Affirmative Action era nata al tempo della Presidenza Kennedy; Johnson l’aveva incoraggiata e durante le discussioni che seguirono per vedere come “implementare” legalmente l’Affirmative Action nelle università e nei posti di lavoro, il vicepresidente Hubert Humphrey aveva dichiarato: “Mi mangio il cappello se verranno imposte delle quote”
Spero che il cappello di Humphrey sia stato di marzapane, perché si è di fatto arrivati a imporre delle quote: le università devono ammettere studenti basandosi non soltanto sulle loro qualità scolastiche ma anche sulla loro etnia o sul loro sesso, cosicché non è raro il caso di studenti non appartenenti a minoranze “protette” che intentano causa alle università dicendosi vittime di discriminazione alla rovescia perché, pur avendo essi mostrato qualità scolastiche superiori secondo i criteri stabiliti dalle università stesse, le università hanno preferito ammettere studenti di altre etnie o di altro sesso.
E non si può non capirli! Tanto più che due torti, come dice il proverbio, non fanno una ragione, e non contribuiscono nemmeno a migliorare la situazione delle minoranze. Dal punto di vista sociale, le scuole negli slums restano quelle che sono, senza speranza di migliorare lo status culturale degli studenti locali, e dal punto di vista individuale quelli che entrano nelle università rischiano sempre di essere sospettati di essere stati ammessi all’università non perché sono “bravi” ma perché sono neri, gialli, donne, rossi eccetera.
L’Affirmative Action è un altro esempio di conseguenza perversa di una buona intenzione di cui si è così ricchi negli Stati Uniti, in cui si cercano sempre e solo soluzioni individuali, si costruiscono casi inverosimili, si esaltano le differenze e si finisce con il legalizzare le ingiustizie e con il costituire una società che assomiglierà sempre di più all’India delle caste, dei bramini e dei pariah invece che alla Francia della Liberté-Égalité-Fraternité.
Probabilmente senza saperlo, la Corte Suprema, composta in maggioranza di moderati e di reazionari, ha preso una decisione rivoluzionaria.
Dichiarando che l’Affirmative Action è anticostituzionale, la Corte Suprema spinge la “sinistra” alla ricerca di altre soluzioni per aiutare gli svantaggiati, tra cui ci sarebbe anche quella, ovvia per una social democrazia europea, di metter danaro nelle scuole dei quartieri diseredati, migliorandone l’edilizia, adeguandone il corpo insegnante e introducendo materie di studio di interesse per gli studenti, e non solo basket o football.
Vediamo un po’ cosa ne uscirà.