Il plurale di rom è roma, un articolato gruppo etnico che esprime dialetti inter-comprensibili che compongono la lingua romàni, che ha parentele con il sanscrito e che comunque ha radici nel nord dell’india.
I rom compongono una galassia di minoranze presenti soprattutto nei Balcani e tra l’Europa centrale e orientale, in una diaspora secolare che li ha portati dappertutto, anche in America. Nel campo scientifico la disciplina che li studia si chiama Romanologia.
Costa così un certo strappo a un italiano, per giunta affezionato alla propria capitale, avere avversità pregiudiziali nei confronti di questi popoli. E questo strappo è spesso determinato dalla piccola storia comune dei nostri tempi. Che riguarda quella guerra strisciante che fa dei rom gli autori di infinite incursioni nelle nostre case per prelevare, spesso indiscriminatamente, tutto ciò che ha qualche valore sostanziale legato al valore morale di oggetti che sono parte della nostra storia personale e famigliare.
Ero un po’ di anni fa nella stanza dell’ambasciatore d’Italia a Bucarest, un diplomatico italiano di spessore, che mi presentò un parlamentare passato a salutarlo. Era espressione dell’elettorato rom della Romania, che si rivolse all’ambasciatore con un italiano piuttosto appropriato sia pure con forte accento orientale: “Caro ambasciatore, la prego tanto di contenere l’idea tra gli italiani che noi siamo delinquenti. Questo non è vero. Sì, va bene, rubiamo nelle case, spesso in stato di necessità, ma delinquenti no”. Persino questa boutade può fare presa sui sentimenti di un italiano che, dalla storia del brigantaggio in poi, ha sentito parafrasare questa strana lettura tante volte.
A vedere le loro provenienze i rom romeni sono solo una piccola parte. Vengono dappertutto, persino – con radici originarie – dal nostro Abruzzo. I tre gruppi etnici più popolosi si chiamano Khorakhanè (cioè “amanti del corano”), distinti in Shiftarija (albanesi), poi musulmani, provenienti soprattutto dal Kosovo, la regione della ex Jugoslavia, ma anche dalla Macedonia e dal Montenegro. E poi Khorakhané Crna Gora (Montenegro), i principali conservatori della tradizione della lavorazione del rame. E ancora i Khorakhané Cergarija (“quelli delle tende”) che provengono dalla Bosnia (Sarajevo, Mostar, Vlasenica). Varianti fonetiche dei Khorakhané (trascritti anche come Xoraxane) sono Korane, Korhane.
I rom italiani sono stimati in oltre 120 mila persone.
Faccio questa citazione – tra la ventina di denominazioni che compongono la galassia rom – solo perché con questo titolo Fabrizio De Andrè ha provato a metà degli anni ’90 a trovare comprensione e attenzione per una cultura, prima ancora che per un concreto evolversi di comportamenti sociali. La “forza di essere vento” cantata da De Andrè si riferiva a tribù originarie della Serbia e del Montenegro. “Porto il nome di tutti i battesimi / ogni nome il sigillo di un lasciapassare / per un guado una terra una nuvola un canto / un diamante nascosto nel pane /per un solo dolcissimo umore del sangue /per la stessa ragione del viaggio viaggiare / Il cuore rallenta e la testa cammina /in un buio di giostre in disuso”.
E ne faccio un’altra di citazione, assai meno nota, ma con l’intento di mettere in campo la voce di chi ora è centralmente preso di mira.
Matteo Salvini, 45 anni, vicepresidente del Consiglio dei ministri e ministro dell’Interno, parla e va come prima notizia su tutti i telegiornali. Tomas Fulli, 43 anni, sinto bolognese, nomade incensurato, per anni lavoratore nello spettacolo viaggiante e nelle giostre, oggi fa l’imbianchino, parla ed è un puro caso fortunato che la sua voce sia raccolta da un giornaletto sociale pubblicato on line (“Il redattore sociale”) che gira anche in rete negli atenei. In cui tra l’altro dice:
“Salvini ignora molte cose, tra cui il fatto che rom e sinti sono italiani: non ci conosce, non conosce la nostra realtà. I dati su rom e sinti italiani sono quindi già contenuti nel Censimento generale della popolazione e delle abitazioni del 2011. Vuole censire solo noi ora per marchiarci. Sostiene che tutti i rom e i sinti delinquono: naturalmente non è così. Come in ogni popolazione, c’è chi agisce bene e chi agisce male: la giustizia esiste per questo. Non siamo tutti uguali, io non metto la mano sul fuoco per garantire l’onestà di tutto il mio popolo, ma non la metterei nemmeno per i bolognesi o gli italiani. Rispondo per me, che ho sempre agito onestamente”.
Ecco, mentre torna con prepotenza il disagio in Europa per tutto ciò che viene attribuito ai rom con la precisione di infinite prove, ma anche con il pregiudizio di attribuire a tutti le imprese di alcuni, anch’io non assumo preconcetti buonisti a fronte della pure inaccettabile proposta di “censirli” (appunto “tutti”, in quanto tali) e rivado alla piccola storia di una vita, in cui al pari di tanti, tantissimi miei concittadini, ho subito – in settanta anni – sette volte lo svaligiamento della casa (a Milano, a Roma, in Toscana nella casa materna), ogni volta con tecniche più accurate, ogni volta con l’obiettivo di limitare il furto all’oro (o a ciò che appare oro) e alla valuta, ogni volta con destrezze capaci di abbattere l’ostacolo di una cancellata che appariva insormontabile, di una porta blindata che appariva “blindata”, di una cassaforte che appariva “sicura”, o altro.
Nella mia piccola preoccupazione di tenere conservate alcune memorie, soprattutto legate a mio padre – il suo orologio, i suoi gemelli, la catenina salvata in guerra, eccetera – o legate a momenti particolari della mia vita (un’unica fede nuziale, alcune onorificenze semplicemente smaltate, piccoli premi con qualche valore artistico, eccetera), niente, dico niente, è sopravvissuto alle sette incursioni. L’ultima delle quali pochi giorni fa, pur in presenza di una moderna porta blindata, aperta con un preparato chimico, poi con “chiavi” e persino accuratamente richiusa.
La “firma” apposta a quest’ultimo atto di destrezza è stata messa, a mio avviso, dall’avere tralasciato di asportare le onorificenze di Italia, Francia e Argentina e avere portato via proprio la scatola rossa più fiammeggiante, con all’interno un collare dichiaratamente di “tolla”, ma con le insegne della Repubblica di Romania. Come a significare che qualche “valore” avrebbero potuto o saputo darlo.
C’è chi non si pone più domande e vuole un “ordine” che nel mondo rischia di non dipendere più dalla giustizia ma dalla violenza. E c’è che pur perseguendo la praticabilità di un più forte e deciso contrasto, si pone ancora qualche domanda. Per esempio:
- come si fa ad equilibrare un simile bilancio – condiviso con una grande quantità di concittadini – e l’esigenza di non cadere nello stereotipo razzista che appunto condannò nel primo novecento gli emigrati italiani in America solo perché “italiani” (ci ricordiamo di Sacco e Vanzetti, naturalmente);
- come riusciamo a avere più fiducia nell’intelligenza di prevenzione e contrasto delle nostre forze di sicurezza e constatare che mai un oggetto, una medaglietta, un trascurabile valore commerciale in cui si riponeva un immenso valore morale è tornato a consolarci nelle nostre case;
- come è possibile perseguire e ottenere forme di giustizia che offrano una protezione, non totale ma almeno potenziale, non specificatamente riguardo a una delle fonti di delinquenza (i rom) ma riguardo in generale a tutte le fonti di delinquenza; forme di delinquenza – sia detto in generale – in cui restano comunque statisticamente sempre più forti e numerosi i reati perseguiti in Italia da italiani rispetto a tutti gli altri;
- come possiamo impedire che, semplicemente urlando “contro”, alcuni soggetti politici si accaparrino senza controprova sulla loro capacità di governo il consenso da parte di chi esprime il bisogno di punizione e di vendetta espresso da un largo numero di italiani che non hanno sofisticate attenuanti attorno al nomadismo e non sanno nemmeno chi sia Fabrizio De Andrè.
Se avessimo un quadro mediatico che lavora per migliorare la qualità sociale e non solo per eccitare l’ansia sociale, ci sarebbe materia di discussione.
Magari, ottenuti alcuni preliminari riscontri, sarà possibile tornare con qualche conclusione sull’argomento.