Il “Rapporto” che diede vita a un concreto processo di modernizzazione funzionale della comunicazione della scuola italiana

Appunti di memoria riguardanti esperienze personali. 1999-2000. Consigliere per la comunicazione del Ministro della Pubblica Istruzione Luigi Berlinguer.

All’inizio fu una forma inconsueta. Erano i primi del 1999, lavoravo a Milano con un incarico apicale al Consiglio regionale della Lombardia, in un quadro politico difficile, per me diventato anche un po’ estraneo ma certo molto impegnativo, che mi lasciava un piccolo margine di spazio a Roma, per occuparmi della mia rivista, appena nata presso Franco Angeli,  di “comunicazione pubblica” e alcune relazioni create in tanti anni di lavoro nella capitale.

Di tutto avevo bisogno ma non di un ulteriore surmenage. Non mi ero mai adattato del tutto  a regolarmi fuori dalle consuetudini di un certo modo di lavorare nelle istituzioni centrali, quello che residuava da una cultura sinceramente riformista, cioè che gli incarichi di lavoro non servono a scaldare una sedia ma a cambiare un po’, se possibile, quindi in meglio per efficacia e modernità, il pezzettino istituzionale servito.

Le cose andavano ormai generalmente male, ma c’era ancora chi credeva febbrilmente a questo.

Era comunque cominciata – anzi da un pezzo – la grande traversata, alla fine populista e inconcludente, della “seconda Repubblica”. Speranze, contraddizioni. Ma la tendenza si profilava oscura. Tanto che in quel tempo, poco dopo i miei 50 anni, avevo preso la decisione di tentare il concorso a cattedra e cambiare integralmente la mia storia professionale (cosa che poi succederà in avvio del 2001).

Ebbene in quel contesto ricevetti la telefonata, personale, inaspettata, fuori dalle relazioni abituali, nientemeno che del ministro in carica della Pubblica Istruzione. Un ministero socialmente centrale. Un ministro con un  nome carico di suggestioni e, per chi proveniva da formazione socialista, anche carico di fascinose remore: Berlinguer.

Nella fase finale del mio impegno alla Presidenza del Consiglio, pochi anni prima, avevo accettato la quasi impraticabile trasferta settimanale a Siena per l’insistenza di Sebastiano Bagnara, preside a Scienze della Comunicazione, di avviare l’insegnamento di “Teoria e tecniche della comunicazione pubblica” che avevo parimenti accettato a Milano, in Iulm, nel convincimento che o si radicava disciplinarmente la materia o si rischiava ogni tipo di impropria incursione.

Rettore dell’ateneo, appunto il prof. Luigi  Berlinguer, che era già stato – nel 1990 – promotore (insieme ai rettori di Torino e di Salerno) dell’avviamento dei corsi di laurea in “Scienze della Comunicazione” in un processo che il ministro Antonio Ruberti aveva incanalato con una commissione nazionale di  orientamenti di cui ero stato parte attiva come direttore generale informazione ed editoria della Presidenza del Consiglio e in alcune occasioni condividendo anche preoccupazioni e propositi con il rettore di Siena, persona che non parlava a vanvera, che capiva le complessità dei problemi, a cui stava a cuore migliorare l’Italia non acquisire medaglie sul petto.

La telefonata, quel giorno, non era teorica. Non era per dettagli da chiarire. Tanto che mi voleva vedere al più presto, di persona. Meglio non al Ministero. Propose lui casa mia a Roma, al tempo con il vantaggio di essere accanto a Piazza del Parlamento, cioè via dei Prefetti. E la cosa doveva avvenire presto.

Ero talmente afflitto dal clima di indecisioni che vedevo nelle istituzioni, che questo approccio febbrile mi fece grande impressione, mi ricordava l’approccio ministeriale di Gianni De Michelis. Tanto che l’incontro avvenne rapidamente.  E lui stesso – ammettendo collateralmente che non prendeva nemmeno in considerazione la “distinzione politica” dei nostri percorsi che reputava marginale rispetto al nodo in questione (altra cosa che per i tempi mi parve una cosa moralmente rilevante) – mi spiegò che, dopo l’avviamento di un ampio proposito riformatore del sistema scolastico, si era reso conto della situazione comunicativa del Ministero. Dicendomi: “Senza una vera condizione di comunicazione istituzionale, qui non si può mettere mano a nessuna riforma. Non comunicazione di propaganda, ma di accompagnamento delle spiegazioni necessarie e soprattutto di relazionamento con il sistema degli insegnanti. Oltre che con l’immenso quadro degli utenti, cioè studenti e famiglie. In cui la prassi consolidata qui è di delegare interamente le comunicazioni alle associazioni di categoria. È un ridisegno di fondo che va fatto, in un  corpo ampio e difficile”.

Era il mio approccio, il mio linguaggio, il mio obiettivo che dopo i dieci anni a Palazzo Chigi aveva significato anche un disegno di legge che si era avviato per rendere questo approccio non volontario ma obbligatorio. Legge che in quel momento era ancora in iter e non approvata (lo sarà alla fine del 2000). Dunque, creando un modello sperimentale interno senza poter contare su regole di sistema. La proposta era di accettare l’incarico di consigliere per la comunicazione, in decreto di gabinetto, elaborare un piano calibrato su un’aggiornata analisi dei bisogni, interagire con le figure più significative nel merito del gabinetto (il capo della segreteria Vittorio Campione e la responsabile dell’ufficio stampa Luciana Di Mauro e, anche se impegnata da poco altrove, Rossana Rummo). Molti altri fecero poi parte sia del team di ricerca e sperimentazione (che avvenne per territori e per scuole)  sia del team ministeriale di interazione. La difficoltà di inquadrare un impegno di tale portata – che non comportava un cambiamento sostanziale di lavoro perché non c’erano le condizioni di trasformare quella possibilità quasi volontaristica in una cosa strutturata –  era enorme. Ma la posta in gioco era ineludibile. L’approccio di Luigi Berlinguer alle condizioni per rendere possibile una riforma così ardua era commovente. Non persi tempo a fare verifiche e accettai l’ipotesi. Il 1° marzo del 1999 il Ministero comunicò l’incarico e il progetto.

Che pur significando incontri, riunioni, verifiche da svolgere a Viale Trastevere si  concentrò nella realizzazione di un “Rapporto al ministro” – di cui Vittorio fu abile e concreto architetto – che doveva studiare le condizioni di partenza, individuare deficit e bisogni, costruire  un modello funzionale per la sede centrale e per l’articolazione territoriale della scuola (un disegno di adattamento di circa 1500 posti di lavoro, considerando anche l’avvio, ormai obbligatorio nella progettazione di capacity building, della trasformazione digitale ) e corredare la profilazione funzionale con gli argomenti che dovevano misurarsi con le sicure resistenze interne al mondo degli operatori e altri aspetti di adattamento culturale e  formativo.

Fu un lavoro intenso che doveva anche tener conto di un correlato empirico con l’agenda, i fatti turbinosi del periodo, in ogni caso il modo di Luigi Berlinguer di affrontare lo slalom quotidiano: sempre lucido, di tensione interpretativa, di sguardo al senso emblematico per la cultura delle riforme di quel segmento così profondamente decisivo per il futuro del paese ma anche così profondamente allacciato al passato.

Il rapporto – la cui lettera di accompagnamento al ministro è datata 10 settembre 2000 –   stampato da Franco Angeli in un volume di 277 pagine, si chiuse nel suo ritorno nella mia casa, cioè nel terrazzino grande quanto un bel tavolo rotondo che assorbiva parte della vita dalla primavera all’autunno, in cui  registrammo il colloquio pensato per concludere quel rapporto proprio per dare “narrativa” alla spiegazione del processo immaginato. Colloquio che cominciava con l’assunto di base di ogni senso sociale della comunicazione delle istituzioni. Diceva il ministro: “Prima di tutto una semplice verità: non è pensabile il successo di una politica nel delicato settore della scuola ed in particolare di una politica tesa a produrre cambiamento senza che si capisca di quale politica si tratti”.

L’assunto organizzativo di quel Rapporto avvenne – pur nella sperimentalità di necessari approcci graduali – per trasformazione delle proposte e delle analisi in atti decretativi e regolamentativi. La fermezza al riguardo di Luigi Berlinguer fu esemplare. E la trasformazione dunque avviata.

Così come anche i contraccolpi dell’azione riformatrice si fecero sentire anche rispetto al suo stesso sviluppo di impegno nelle istituzioni prima italiane e poi europee.

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